sabato 30 novembre 2013

Ettore Ciccotti

La modernità dell’antichista

Ettore Ciccotti, il «professore socialista» di Potenza
A 150 anni dalla nascita, un protagonista solitario della cultura italiana

Ricorre in questi giorni il 150° anniversario della nascita di Ettore Ciccotti: «il professore socialista», «un solitario nella cultura italiana»; due definizioni che sono state date di lui, indicative della sua vicenda pubblica. Poco più anziano di Benedetto Croce, fu una figura di spicco nella generazione di intellettuali meridionali attiva dopo l’Unità. Venuto al mondo a Potenza il 24 marzo 1863 da una famiglia della borghesia antiborbonica (il padre diventerà sindaco del capoluogo lucano), Ciccotti si forma a Napoli, nutrendosi di idee mazziniane. È indirizzato agli studi di antichistica dallo storico ed epigrafista Ettore De Ruggiero, discepolo di Francesco De Sanctis e, in Germania, allievo di Theodor Mommsen. Nel 1891 si trasferisce a Milano, vincitore di un concorso di storia antica. Nella metropoli lombarda si accosta al socialismo emergente e al neonato partito dei lavoratori; collabora alla rivista di Turati «Critica sociale», propugnando la strutturazione dei circoli socialisti in una moderna organizzazione, e appoggiando il progetto di un quotidiano nazionale (l’«Avanti!» apparirà nel 1896). Ciccotti – ha scritto Piero Treves – «si buttava nella lotta politica a detrimento sicuro delle proprie fortune universitarie». Nel 1897 gli viene negata la promozione a docente ordinario a causa delle sue idee “sovversive”, nonostante la difesa del grande glottologo Graziadio I. Ascoli (la cui memorabile perorazione ebbe per titolo Il professore socialista: un ossimoro, all’epoca); per di più, dopo la repressione antioperaia di Bava Beccaris nel 1998 è costretto a fuggire in Svizzera.

Nel 1900 è eletto deputato; ma ha inizio allora anche la sua critica verso il partito socialista, da lui accusato di essere insensibile alla questione meridionale.  Amico e corrispondente del conterraneo Giustino Fortunato, sviluppa una posizione di  meridionalismo federalista affine per certi versi a quella di Salvemini; al quale lo accomuna anche l’adesione, nel 1915, all’interventismo democratico.  Nel dopoguerra coltiva simpatie per il nascente fascismo come non poca parte degli intellettuali politici del suo tempo, ma dal 1924, nominato senatore per iniziativa dell’ex allievo Alessandro Casati, allora ministro dell’istruzione, matura il progressivo distacco che lo porterà ad avversare la legislazione fascista e a difendere Ernesto Rossi perseguitato dal regime.  Ciccotti è ormai una figura isolata, anche rispetto alle scuole classiciste italiane, sempre più sedotte dalla “nuova Roma” e poi dal filo-germanesimo. Quando la morte lo coglie, il 20 maggio 1939, alla vigilia della seconda guerra, ha appena scritto un saggio (che sarà pubblicato solo dopo la caduta del fascismo) in cui – in piena campagna antisemita – ipotizza l’origine ebraica di Orazio.    
Sarebbe impossibile dare conto qui della fervida attività politico-culturale dello studioso potentino, nella quale si inseriscono la divulgazione delle opere di Marx ed Engels (in collaborazione con la moglie, la traduttrice Ernestina d’Errico) e la direzione, con Vilfredo Pareto, della Biblioteca di Storia Economica. Quel che più importa rilevare è la sua interpretazione pionieristica (nel decennio 1890-1900) e, si potrebbe dire, geniale, del metodo del materialismo storico applicato alla scienza dell’antichità: un terreno sul quale Ciccotti si muove guidato dal gusto delle analogie fra passato e presente, quasi anticipando la tesi crociana per cui ogni storia è storia contemporanea. Il lavoro, la schiavitù, la condizione femminile sono i temi preferiti dallo storico lucano, sull’onda del movimento operaio, dell’abolizione della schiavitù in America, delle manifestazioni proto-femministe.   

La sua opera più nota e più importante, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico (1899), fu tradotta in varie lingue e recensita favorevolmente, fra gli altri, da Karl Kautsky, il massimo teorico marxista dopo la morte di Engels; ripubblicata dalla «Universale Laterza» nel 1977, è oggi pressoché introvabile.  Nonostante il titolo, il saggio ricostruisce anzitutto le origini e l’apice del modo di produzione schiavistico ad Atene e a Roma, dando limpido risalto alla «esistenza normale e generale di una classe di schiavi» e indicando in questa «la base ed il sostrato della società antica». Il punto più problematico rimane però la causa del declino di quel sistema economico. Entrata in ombra la spiegazione respinta da Ciccotti – che attribuiva la fine della schiavitù all’influenza del cristianesimo – e consolidatosi il principio metodologico della ricerca sul contesto economico-sociale, è tuttora discussa la tesi di fondo di quel libro: che il tramonto dello schiavismo antico sia stato causato dalla scarsa produttività del lavoro, meno competitivo rispetto a quello dei servi della gleba man mano affermatosi. Una tesi che la storiografia del secolo successivo, ivi compresa quella marxista, ha talora accolto, talora contestato, senza mai invalidarne del tutto l’efficacia.

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 23 marzo 2013