sabato 1 agosto 2020

La rivolta di Reggio Calabria

La calda estate sullo Stretto

Cinquant’anni da quei moti eccentrici e neri 

che raccontavano un altro Sud


 


La rivolta di Reggio Calabria sorprese l’Italia cinquant’anni or sono. Fu un unicum nella nostra storia, per la durata (6 mesi con strascichi di oltre un anno), il largo coinvolgimento popolare e interclassista, l’impiego di armi ed esplosivi, la durezza della risposta repressiva dello Stato (esercito e carri armati), il collegamento con la destra neofascista, con l’eversione nera e con i disegni della criminalità mafiosa. Quei “moti” ebbero i tratti di una vicenda “meridionale” di protesta e disperazione, e gettarono un’ombra preoccupante sulla nascita dell’ordinamento regionale che nel 1970 intendeva attuare la Costituzione nel segno della partecipazione democratica. Nonostante la sua eccezionalità, la rivolta ha trovato poco spazio nella memoria pubblica nazionale e nella storiografia: l’unico studio storico approfondito lo si deve a Luigi Ambrosi (Rubettino 2009, con prefazione di Salvatore Lupo). Il sociologo reggino Tonino Perna ha trasposto la memoria della sommossa in un romanzo uscito l’anno scorso.

     La scintilla dell’incendio fu la designazione del capoluogo di Regione. Reggio si considerava candidata naturale per tradizione e numero di abitanti; un accordo fra esponenti calabresi del governo e dei partiti di centro-sinistra assegnò invece a Catanzaro il capoluogo e a Cosenza la istituenda università, tagliando fuori la città dello Stretto. La reazione dei reggini fu, il 14 luglio – giorno di insediamento del consiglio regionale – la rabbia e la ribellione. Si indice lo sciopero generale, e il giorno dopo, in seguito agli scontri con la polizia, si ha il primo morto. Insorgono i quartieri popolari di Sbarre e Santa Caterina, si innalzano le barricate, il confronto è sempre più violento. Nell’opinione pubblica del Paese, nella stampa e nel giudizio dei partiti nazionali, la rivolta è subito isolata e bollata di campanilismo, il che inasprisce il risentimento dei reggini. Ma dietro alla questione del capoluogo vi sono decenni di emigrazione, una crescita esponenziale della disoccupazione (che affligge anche i giovani laureati e diplomati), la delusione per il mancato sviluppo industriale; in una città “terziarizzata” l’unica speranza di lavoro e di miglioramento della qualità di vita è riposta nell’attesa degli uffici regionali e di sviluppo della burocrazia. A questa convinzione radicata si unisce la riscoperta di un senso di identità cittadina che si fa risalire a un’antica storia.


    Sul genuino sentimento popolare d’una cittadinanza offesa si inserirono fin dall’inizio disparati gruppi politici e clientelari, di volta in volta concordi o in concorrenza: il sindaco democristiano dà il la alla protesta, il vescovo la benedice, il sindacalista di estrema destra Ciccio Franco diventa l’agitatore più noto, imponendo lo slogan dannunziano «Boia chi molla!». La rivolta non fu “fascista” come è stata definita, anche se l’assenza di gruppi dirigenti seri e lungimiranti favorì man mano l’egemonia dei neofascisti e l’affermarsi di una demagogia senza prospettive. In seguito e ancor oggi la cultura di destra ha presentato i moti di Reggio come «il ’68 del Sud» (Marcello Veneziani) quasi un risarcimento del tentativo neofascista, frustrato, di cavalcare la contestazione studentesca.   


     Del ’68 quei moti riproducevano la radicalità e alcune forme di lotta, non gli obiettivi. Lo storico Guido Crainz li ha classificati tra i “conflitti spuri”, lontani dalla omogeneità delle lotte operaie e studentesche. Peraltro gli operai reggini avevano preso parte attiva alla lotta contro le zone salariali che fu, questa sì, il vero ’68 del Sud. Tuttavia il sindacato di sinistra, la Cgil, e il Partito comunista che avevano condiviso il movimento del biennio ’68-69 non riconobbero legittimità alla protesta reggina, nonostante l’adesione a essa di molti lavoratori comunisti (fra cui la “storica” cellula del deposito ferroviario). Questo ripudio alimentò il populismo antipartito e l’astio verso il Pci. Dalla sinistra eretica si guardava a quei ribelli con occhio più comprensivo: un’acuta analisi della rivolta fu pubblicata da Valentino Parlato, meridionalista gramsciano, sul «Manifesto» settimanale (novembre ’70). Intanto anche gli strateghi della tensione e la criminalità giocano le loro carte: a ottobre del ‘69 i vertici della ‘ndrangheta si riuniscono sul vicino Aspromonte mentre il “principe nero” Junio Valerio Borghese raduna i suoi a Reggio, e prepara il golpe romano (fallito) del dicembre ’70. Il 22 luglio, a pochi giorni dallo scoppio dei moti, una bomba fa deragliare presso Gioia Tauro il direttissimo Palermo-Torino causando sei morti e decine di feriti: molti anni dopo i responsabili della strage verranno individuati tra i neofascisti di Avanguardia nazionale. Cinque giovani anarchici di Reggio, che hanno militato nella rivolta, raccolgono documenti sulla infiltrazione neofascista e sulla strage e partono in automobile il 26 settembre per consegnarli a Roma ai redattori del libro La strage di Stato, ma periscono tutti in un incidente stradale assai sospetto; le carte spariscono.

     La fine della rivolta arriva a gennaio quando l’esercito penetra nelle roccaforti ribelli, la sconfitta è sancita a febbraio: un compromesso conferma Catanzaro capoluogo e sede della giunta, assegnando a Reggio la sede del consiglio regionale. Permangono scampoli di conflitto; nell’abbandono generale i ribelli rifluiscono, l’estrema destra resta sola in campo: ostacola la manifestazione nazionale dei sindacati confederali indetta a Reggio il 22 ottobre 1972, disturbando il corteo, dopo che numerosi attentati non hanno fermato i treni dei manifestanti. La prova di forza sindacale e antifascista ha la meglio, ma la maggioranza della città la subisce con freddezza, come un intervento estraneo. La ribellione del Sud più emarginato e il movimento organizzato dei lavoratori non si sono incontrati.

 

Le vittime

Durante gli scontri di piazza a Reggio Calabria morirono 5 persone in circostanze diverse: Bruno Labate, ferroviere, Angelo Campanella, autista, Vincenzo Corigliano, poliziotto, Antonio Bellotti, poliziotto, Carmine Iaconis, barista.

     Le 6 vittime della strage di Gioia Tauro (tutte siciliane, di cui 5 donne): Rita Cacicia, Adriana Vassallo, Letizia Palumbo, Nicolina Mazzocchio, Rosa Fazzari, Andrea Cangemi. 

     I 5 anarchici della Baracca (così chiamati dalla vecchia villa Liberty in cui si riunivano) morti il 26 settembre ’70: Angelo Aricò, Annalise Borth, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso.

  

Pasquale Martino  

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 1 agosto 2020