La calda estate sullo Stretto
Cinquant’anni da quei moti eccentrici e neri
che raccontavano un altro Sud
La rivolta di Reggio Calabria sorprese l’Italia cinquant’anni or sono. Fu un unicum nella nostra storia, per la durata (6 mesi con strascichi di oltre un anno), il largo coinvolgimento popolare e interclassista, l’impiego di armi ed esplosivi, la durezza della risposta repressiva dello Stato (esercito e carri armati), il collegamento con la destra neofascista, con l’eversione nera e con i disegni della criminalità mafiosa. Quei “moti” ebbero i tratti di una vicenda “meridionale” di protesta e disperazione, e gettarono un’ombra preoccupante sulla nascita dell’ordinamento regionale che nel 1970 intendeva attuare la Costituzione nel segno della partecipazione democratica. Nonostante la sua eccezionalità, la rivolta ha trovato poco spazio nella memoria pubblica nazionale e nella storiografia: l’unico studio storico approfondito lo si deve a Luigi Ambrosi (Rubettino 2009, con prefazione di Salvatore Lupo). Il sociologo reggino Tonino Perna ha trasposto la memoria della sommossa in un romanzo uscito l’anno scorso.
La scintilla dell’incendio fu la designazione del capoluogo di Regione. Reggio si considerava candidata naturale per tradizione e numero di abitanti; un accordo fra esponenti calabresi del governo e dei partiti di centro-sinistra assegnò invece a Catanzaro il capoluogo e a Cosenza la istituenda università, tagliando fuori la città dello Stretto. La reazione dei reggini fu, il 14 luglio – giorno di insediamento del consiglio regionale – la rabbia e la ribellione. Si indice lo sciopero generale, e il giorno dopo, in seguito agli scontri con la polizia, si ha il primo morto. Insorgono i quartieri popolari di Sbarre e Santa Caterina, si innalzano le barricate, il confronto è sempre più violento. Nell’opinione pubblica del Paese, nella stampa e nel giudizio dei partiti nazionali, la rivolta è subito isolata e bollata di campanilismo, il che inasprisce il risentimento dei reggini. Ma dietro alla questione del capoluogo vi sono decenni di emigrazione, una crescita esponenziale della disoccupazione (che affligge anche i giovani laureati e diplomati), la delusione per il mancato sviluppo industriale; in una città “terziarizzata” l’unica speranza di lavoro e di miglioramento della qualità di vita è riposta nell’attesa degli uffici regionali e di sviluppo della burocrazia. A questa convinzione radicata si unisce la riscoperta di un senso di identità cittadina che si fa risalire a un’antica storia.
Del ’68 quei moti
riproducevano la radicalità e alcune forme di lotta, non gli obiettivi. Lo storico Guido Crainz li ha classificati tra i “conflitti spuri”, lontani dalla
omogeneità delle lotte operaie e studentesche. Peraltro gli operai reggini avevano
preso parte attiva alla lotta contro le zone salariali che fu, questa sì, il
vero ’68 del Sud. Tuttavia il sindacato di sinistra, la Cgil, e il Partito
comunista che avevano condiviso il movimento del biennio ’68-69 non riconobbero
legittimità alla protesta reggina, nonostante l’adesione a essa di molti
lavoratori comunisti (fra cui la “storica” cellula del deposito ferroviario).
Questo ripudio alimentò il populismo antipartito e l’astio verso il Pci. Dalla
sinistra eretica si guardava a quei ribelli con occhio più comprensivo:
un’acuta analisi della rivolta fu pubblicata da Valentino Parlato,
meridionalista gramsciano, sul «Manifesto» settimanale (novembre ’70). Intanto
anche gli strateghi della tensione e la criminalità giocano le loro carte: a
ottobre del ‘69 i vertici della ‘ndrangheta si riuniscono sul vicino Aspromonte
mentre il “principe nero” Junio Valerio Borghese raduna i suoi a Reggio, e
prepara il golpe romano (fallito) del dicembre ’70. Il 22 luglio, a pochi
giorni dallo scoppio dei moti, una bomba fa deragliare presso Gioia Tauro il
direttissimo Palermo-Torino causando sei morti e decine di feriti: molti anni
dopo i responsabili della strage verranno individuati tra i neofascisti di
Avanguardia nazionale. Cinque giovani anarchici di Reggio, che hanno militato
nella rivolta, raccolgono documenti sulla infiltrazione neofascista e sulla
strage e partono in automobile il 26 settembre per consegnarli a Roma ai
redattori del libro La strage di Stato,
ma periscono tutti in un incidente stradale assai sospetto; le carte spariscono.
La fine della
rivolta arriva a gennaio quando l’esercito penetra nelle roccaforti ribelli, la
sconfitta è sancita a febbraio: un compromesso conferma Catanzaro capoluogo e
sede della giunta, assegnando a Reggio la sede del consiglio regionale. Permangono
scampoli di conflitto; nell’abbandono generale i ribelli rifluiscono, l’estrema
destra resta sola in campo: ostacola la manifestazione nazionale dei sindacati
confederali indetta a Reggio il 22 ottobre 1972, disturbando il corteo, dopo
che numerosi attentati non hanno fermato i treni dei manifestanti. La prova di
forza sindacale e antifascista ha la meglio, ma la maggioranza della città la subisce
con freddezza, come un intervento estraneo. La ribellione del Sud più
emarginato e il movimento organizzato dei lavoratori non si sono incontrati.
Le
vittime
Durante gli scontri di piazza a Reggio Calabria morirono 5
persone in circostanze diverse: Bruno Labate, ferroviere, Angelo Campanella,
autista, Vincenzo Corigliano, poliziotto, Antonio Bellotti, poliziotto, Carmine
Iaconis, barista.
Le 6 vittime della
strage di Gioia Tauro (tutte siciliane, di cui 5 donne): Rita Cacicia, Adriana Vassallo, Letizia Palumbo, Nicolina
Mazzocchio, Rosa Fazzari, Andrea Cangemi.
I 5 anarchici
della Baracca (così chiamati dalla vecchia villa Liberty in cui si riunivano)
morti il 26 settembre ’70: Angelo Aricò, Annalise Borth, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso.
Pasquale
Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 1 agosto 2020