domenica 14 aprile 2024

Fabrizio Canfora

La stagione creativa dell'antifascismo barese 

Un uomo magro dalla barba bruna, vestito di bianco, il 28 luglio del 1943 è alla guida, con altri, della prima manifestazione autoconvocata che attraversa le vie di Bari dopo vent’anni di dittatura: è Fabrizio Canfora, trentenne, professore di filosofia e storia nel liceo classico Quinto Orazio Flacco. Suoi allievi sfilano fra i dimostranti; e molti guardano a lui come a un leader, un punto di riferimento morale e politico. Incitato e quasi sospinto da quei giovani, dalla finestra di una sede fascista occupata dagli antifascisti deve rivolgere brevi parole a quanti si sono radunati per manifestare; e anche questa è una prima volta in assoluto: un discorso di libertà risuona in pubblico nel capoluogo pugliese, tre giorni dopo la destituzione e l’arresto di Mussolini. La scena, che riprendiamo dal racconto dello scrittore Vito Maurogiovanni, allora diciassettenne, precede di pochi minuti la tragedia. La festosa giornata di liberazione e speranza precipita nella sventura: in via Niccolò dell’Arca i soldati, coadiuvati da provocatori fascisti, sparano sui dimostranti uccidendone almeno venti e ferendone molte decine. Tra i feriti Canfora, che sarà anche arrestato nel suo letto d’ospedale. L’antifascismo fa paura al re e a Badoglio; e il fascismo non è morto.

L’esperienza drammatica di una libertà intravista ma ancora tutta da conquistare, di un fascismo caduto ma tuttora vivente, sarà il rovello del giovane professore nei mesi che seguono. Lunghi mesi di intenso impegno per la ricostruzione democratica, mentre al Nord divampa la guerra di Liberazione. A quel discrimine Canfora era arrivato attraversando un tempo non breve di formazione intellettuale e politica: decisiva era stata la scuola di Benedetto Croce (periodicamente ospite a Bari dell’editore Giovanni Laterza) e di Tommaso Fiore, l’intellettuale altamurano (che perderà un figlio nell’eccidio del 28 luglio ’43) animatore del gruppo liberalsocialista barese confluito poi nel Partito d’Azione. Entrambi, Fiore e Canfora – e non solo loro – perseguitati dalla polizia fascista.


Già nei primi anni ’40 Canfora, immaginando la fine del regime, propugna il superamento del liberalismo classico in direzione di un’apertura sociale e democratica, i cui termini si scorgono nel suo libro su Lo spirito laico (Laterza 1943). Ma gli scritti del fervido periodo venuto dopo l’8 settembre ’43, che si potrebbe definire come la stagione creativa dell’antifascismo barese – creativa in quanto si misura con l’azione pratica finalizzata a una radicale svolta politica – sono raccolti nel volume edito nel 1945 e intitolato Tra reazione e democrazia. Stampato nella tipografia Leonardo da Vinci (che diventerà casa editrice con lo stesso nome e in seguito darà luogo alla prestigiosa De Donato), il prezioso libro era andato quasi perduto, disperso in pochissime biblioteche pubbliche; viene ora opportunamente riedito in ristampa anastatica da Mario Adda, per la cooperazione virtuosa di Città Metropolitana, Museo civico di Bari e ANPI; presenta in appendice una riflessione dello stesso autore scritta a distanza di un trentennio, nel 1974, e una illuminante postfazione di Luciano Canfora, figlio di Fabrizio. A Luciano Canfora, con scelta assai congrua, il Comune di Bari ha affidato la lectio svolta a gennaio nel teatro Piccinni alla presenza del presidente della Repubblica, per celebrare gli 80 anni del Congresso dei CLN (28-29 gennaio 1944). Congresso che fu il risultato politico più importante ottenuto dall’antifascismo barese – nonostante la tenace ostilità del re e la diffidenza degli Alleati – e da quel nucleo azionista che ne era la componente più attiva.  Con grande profitto si rileggono i testi di Fabrizio Canfora – accompagnati da alcuni articoli firmati da Domenico Pàstina, l’antifascista tranese legato a lui da intenso sodalizio – apparsi per lo più in L’Italia del Popolo, primo organo di stampa che, pubblicato a Bari, espresse tra mille difficoltà finalmente una voce libera. La chiave di volta della lotta politica di quel momento fu – per adoperare le parole dello stesso Canfora – l’organizzazione della «anti-Vandea» nel Mezzogiorno, capace di contrastare il tentativo in atto di restaurazione monarchico-fascista e di prospettare un’uscita democratica dalla catastrofe italiana, una soluzione in armonia con la lotta partigiana che si combatteva nelle regioni settentrionali. 

Il che, sia pure al termine di un percorso più complesso di quanto quegli antifascisti pensassero, fu ciò che si realizzò con la Repubblica e con l’Assemblea costituente, che l’Italia non aveva avuto nel 1861. 

Pasquale Martino 

"La Gazzetta del Mezzogiorno", 14 aprile 2024

Immagini: 

Fabrizio Canfora con la moglie Rosa Cifarelli nel giorno del matrimonio, 24 aprile 1940 (courtesy Luciano Canfora). 

Copertina dell'edizione 1945 di Tra reazione e democrazia

 

 

 

 

 

 


 

 

venerdì 26 gennaio 2024

Internati Militari Italiani

Un'altra deportazione e un'altra Resistenza 

La tragica guerra degli "invisibili"


«Internati militari italiani». Italienische Militärinternierte, IMI. È il nome imposto dai nazisti ai soldati italiani presi prigionieri dopo l’8 settembre 1943, in Italia e all’estero. Furono circa 800.000: un numero esorbitante, che si spiega soltanto con l’impreparazione cui le truppe italiane, tenute all’oscuro dell’imminente armistizio, furono abbandonate dal re e dal governo Badoglio. La Wehrmacht invece, ben preparata, riuscì quasi dappertutto ad aver ragione delle difese italiane mandate allo sbando. 

     Internati militari – una definizione coniata per loro – e non prigionieri di guerra: non dovevano godere dei diritti e del trattamento prescritti dalla convenzione di Ginevra. Agli occhi dell’ex alleato germanico gli italiani erano traditori, e soprattutto erano – i militari di truppa – ulteriore massa da schiavizzare al servizio della insaziabile economia bellica del Reich. Almeno la grande maggioranza di essi. Gli IMI furono infatti posti di fronte a un’alternativa: arruolarsi nelle forze armate della neonata RSI, il governo fantoccio creato in Italia dai tedeschi, o restare a marcire nei Lager. Non furono proprio pochissimi quelli che andarono con i fascisti (quasi 200.000), anche se una parte di questi, rientrata in patria, disertò. Il che aggiunge valore alla scelta dei 600.000 e più, che preferirono dire no restando dietro il filo spinato ad affrontare la sofferenza, la malattia e non di rado la morte. In quasi 50.000 morirono, senza contare i tanti che tornarono dai Lager affetti da malattie incurabili e in fin di vita. Al sacrificio degli IMI ogni regione, ogni città d’Italia ha dato un doloroso contributo. L’apporto della Puglia è stato messo in evidenza, di recente, da una bella mostra allestita a Lecce: si calcola che almeno 30.000 siano stati gli internati pugliesi, e fra i 12.000 circa di cui si ha documentata notizia quasi 3.000 sono i caduti. Fra i pugliesi vogliamo citare una delle figure eminenti: il colonnello Francesco Grasso, che guidò la resistenza militare a Barletta l’11 settembre ’43, e il giorno dopo fu arrestato dai tedeschi, quindi deportato in Germania, riuscendo a tenere clandestinamente un diario che è stato pubblicato dalla figlia e poi dal nipote.

     Questa storia enorme – storia nazionale e collettiva – è stata a lungo poco studiata, sebbene incrociasse la memoria familiare di qualche milione di persone (protagonisti, figli, nipoti); memoria essa stessa riluttante ad esprimersi , perché «la guerra è acqua passata», e «questa brutta cosa è meglio dimenticarla». Né si è valutato, per molto tempo, che quella degli IMI fosse una vicenda che incontrava la Resistenza patriottica contro il nazifascismo; che l’internato militare fosse – per dirla con Alessandro Natta, reduce del Lager – «una via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico». Proprio il libro di Natta, dirigente comunista di spicco, costituisce un caso esemplare: scritto negli anni ’50, rifiutato allora da una casa editrice pur vicina al PCI, dové attendere quarant’anni per essere infine pubblicato da Einaudi (nel 1997) col titolo emblematico L’altra Resistenza. Perché, appunto, anche la reclusione degli IMI – animata da cosciente motivazione ideale in alcuni, da istintiva ripulsa in altri – fu espressione di quella Resistenza di cui si vanno riscoprendo da tempo le molteplici forme, armate e disarmate. Dopo gli studi pioneristici degli anni ’80-’90 (alcuni dei quali, fra i più notevoli, si devono a studiosi tedeschi: citiamo per tutti il saggio di Gerhard Schreiber edito nel 1992 dall’Ufficio storico dell’Esercito italiano), e dopo la messe di lavori biografici curati da parenti e amici che hanno scandagliato archivi privati e di famiglia oltre a quelli pubblici, il tema degli IMI ha conquistato un posto consolidato nella storiografia e in alcune sintesi di storia della Resistenza (si veda quella di Santo Peli, Einaudi 2006). 

     Giustamente atteso, dunque, è il convegno di studi che l’Associazione nazionale partigiani d’Italia e l’Istituto nazionale Ferruccio Parri (rete degli istituti storici della Resistenza) hanno deciso di svolgere a Bari il 17 e 18 novembre, chiamando al confronto alcuni dei più qualificati studiosi e studiose di quella vicenda, provenienti da varie università italiane (per l’Università di Bari, che patrocina l’evento con il Comune e la Regione, c’è lo storico Carlo Spagnolo che presiederà la sessione inaugurale) e chiedendo a Nicola Labanca dell’Università di Siena, fra i massimi studiosi di storia militare, di proporre l’introduzione generale ai lavori. Segno, la scelta del capoluogo pugliese, di attenzione verso la città e la regione, che stanno sviluppando un programma di celebrazione degli 80 anni della Resistenza senza dimenticare quanto di importante accadde allora in Puglia, parte integrante di quella grande storia.        

Pasquale Martino

"La Gazzetta del Mezzogiorno" 17 novembre 2023  

L'immagine è tratta dalla mostra Il treno degli IMI (Lecce, gennaio-marzo 2023)