venerdì 6 aprile 2018

Francesco Laudadio


La sirena delle 10, una lezione di libertà
La Resistenza, il '68, il cinema

È attuale l’antifascismo? La domanda non suonerà impropria, ora che il fondamento antifascista – variamente declinato nel corso della storia repubblicana – sembra sfumare dal dibattito pubblico. Vero è che il sentimento civile degli italiani ci ha abituati anche a sorprese positive, a sussulti di consapevolezza di fronte a fatti simbolici e drammatici. Perciò è utile che dell’antifascismo si faccia la storia, in questo settantesimo della Costituzione; che si racconti il percorso di accoglimento e sistemazione dell’eredità antifascista e partigiana nella cultura delle generazioni che sono venute dopo, e si consegni questa riflessione al confronto con i giovani.
Capita dunque a proposito la commemorazione del regista Francesco Laudadio (1950-2005), che si terrà il 6 aprile a Bari, nel tredicesimo anniversario della morte prematura: un ricordo che prende spunto dalla presentazione di un libro postumo – rinvenuto fra i molti manoscritti inediti lasciati dall’autore e dato alle stampe nel 2016 in edizione fuori commercio – che ha per titolo La sirena delle 10 e, come spiega il sottotitolo, racconta l’organizzazione degli scioperi operai del marzo 1943 a Torino, il grande sommovimento che accelerò la caduta del fascismo e anticipò la Resistenza. Il volume è arricchito da una prefazione del leader sindacale Maurizio Landini, da una introduzione dello storico Alexander Höbel e da una nota finale di Piero Di Siena, che ha condiviso l’impegno politico giovanile di Laudadio. Il cineasta barese è stato fino al 1975 un protagonista del movimento studentesco e della sinistra nella città natale. E qui sia consentita una nota personale: questa è per me l’attesa occasione del riavvicinamento alla personalità fuori del comune di Francesco, con cui a quel tempo ho avuto un rapporto di cooperazione, discussione e anche scontro.

Studente del liceo Orazio Flacco alla fine degli anni ’60, Laudadio vi aggrega un attivo nucleo della Federazione giovanile comunista, dando subito prova di energia e intelligenza vivacissime, e dialogando con altre componenti del mondo liceale con cui dà vita al primo organismo rappresentativo di un istituto scolastico a Bari. Nel ’68, La Fgci di Laudadio guida l’Orazio Flacco ad affiancare – prima scuola barese – gli universitari nella lotta per il “potere studentesco”. Il collettivo di ragazzi e ragazze si prodiga pure nelle vertenze operaie, dall’occupazione delle Fucine Meridionali agli scioperi degli allievi apprendisti del Ciapi. Critico verso il Pci, che diffida della contestazione giovanile, il gruppo abbandona il partito nel ’69 per intraprendere un’azione di movimento il cui tema di fondo è proprio l’antifascismo, l’esempio dei partigiani, il rilancio di una “nuova Resistenza”. È infatti il tragico momento delle trame nere, di piazza Fontana, di un altro squadrismo che a Bari ha punti di forza: un neofascismo che inaugura la violenza col pretesto di combattere l’infiltrazione “rossa”. Non l’estrema sinistra, ma la «Gazzetta del Mezzogiorno» racconta l’aggressione gratuita di squadre fasciste armate di mazze e caschi contro un pacifico corteo di migliaia di studenti medi, il 10 dicembre 1970. Episodio cruciale e salto di qualità: i giovani del movimento si organizzano unitariamente nel Caa, Comitato antimperialista antifascista, di cui Francesco assume la leadership con suo fratello Felice (che ha rievocato questa esperienza in un romanzo autobiografico del 2005, Il colore del sangue). L’antifascismo è all’epoca l'altra faccia dell’antimperialismo, che si riconosce nella lotta del Vietnam e dei popoli del Terzo Mondo contro gli Usa, e non accetta più la guida dell’Urss ma si ispira alla Cina di Mao. È d’obbligo il richiamo alla Resistenza: il giornale del Caa è «Lotta partigiana», la firma del direttore responsabile è quella prestigiosa di Tommaso Fiore, leader dell’antifascismo intellettuale in Puglia durante il Ventennio (nel ‘71 sarà ancora una volta processato, per diffamazione, e assolto). Nessun ammiccamento verso chi allora (in altre città) sragiona su lotta armata e clandestinità.

Francesco Laudadio (a destra) con Billy Wilder
Il ’72 è un anno di svolta: la spinta del ’68 sembra interrompersi, ed è sempre Francesco tra i promotori dell’ingresso (o rientro) di gran parte del Caa nel Pci, per fare fronte comune contro la sterzata a destra del governo Andreotti. Seguono tre anni intensi di esperienza come dirigente comunista in Puglia, a contatto con le realtà bracciantili; poi la scelta di discontinuità, il trasferimento a Roma per assecondare la passione del cinema. Ma proprio il ’75 è l’anno in cui Laudadio si dedica alla scrittura, realizzando la bozza di trattamento cinematografico (molto simile a un romanzo) incentrata sugli scioperi del ’43. La riflessione sulla Resistenza è ancora il suo rovello; ma c’è in questo racconto anche molto ’68: gli studenti che si avvicinano agli operai per ribellarsi al regime; gli operai torinesi che si mescolano agli immigrati meridionali; la partecipazione delle ragazze alla lotta. C’è la lezione unitaria della Resistenza, soprattutto unità dal basso: alla paziente preparazione dei lavoratori comunisti si affianca man mano l’apporto dei socialisti, dei cattolici, di chi fino a poco fa è stato fascista in buona fede.  Prima di sviluppare tematiche diverse nella trentennale carriera di regista e sceneggiatore (che lo riporterà a Bari per girare La riffa, il film del ’91 con l’esordiente Monica Bellucci), e quasi a consuntivo del fervido tirocinio giovanile, Laudadio venticinquenne ha lasciato in queste pagine un ritratto della nostra aurora di libertà, che conserva una freschezza sorprendente.

Pasquale Martino  

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2018