lunedì 28 dicembre 2015

Il ponte delle spie

La vera storia del «colonnello Abel»

Francobollo commemorativo dell' Urss per 
Rudolf Abel, 1990 (poco prima dello scioglimento)
Era finito nel dimenticatoio, sepolto in un remoto archivio. Ma era stato l’episodio più clamoroso di spionaggio e di scambio di prigionieri nella guerra fredda. «Il caso del colonnello Abel», come recitava il titolo nella prima edizione italiana del libro di James B. Donovan Strangers on a Bridge (Rizzoli, 1968). Donovan era l’avvocato dell’agente segreto russo arrestato a Brooklyn nel 1957 e scambiato nel 1962 – sul ponte di Grienecke fra le due Germanie – con l’aviatore statunitense Francis G. Powers, che i sovietici catturarono dopo averne abbattuto l’aereo-spia. Il personaggio di Donovan è interpretato dal sempre bravo Tom Hanks nel film Il ponte delle spie, ultima fatica di Steven Spielberg che ha il pregio di rievocare quella storia con intelligenza. L’editore Garzanti ripubblica tempestivamente il diario dell’avvocato, con un nuovo titolo (La verità sul caso Rudolf Abel, 2015). È sperabile che Adelphi rilanci un vecchio libro del 1982: Il cacciatore capovolto, di Kirill Chenkin, un resoconto intessuto di autobiografia. L’autore era stato infatti allievo e amico di Abel, nonché agente segreto, poi giornalista, prima di emigrare in Israele negli anni ’70. Tanto più interessante in quanto è scritto da chi ha maturato una dissidenza radicale vivendo all’interno del sistema sovietico, il saggio di Chenkin restituisce la complessa personalità e lo spessore morale di Abel, che impressionarono pure Donovan e che d’altronde traspaiono nel film, grazie anche all’interpretazione di Mark Rylance.
Per cominciare, il suo vero nome era William Henrichovic Fisher. Nato nel 1903 e morto nel 1971; il padre era un operaio tedesco socialista, emigrato in Russia e in Inghilterra; la futura spia – Willy, per gli amici – parla l’inglese e il russo come lingue madri. Rudolf Ivanovic Abel era invece un suo amico e compagno, un militare morto poco prima dell’arresto di Willy. Questi ne assume l’identità e da quel momento diventa il colonnello Abel: il doppio nome lo seguirà persino sull’epitaffio. Fisher è un combattente plasmatosi nell’età aurorale della rivoluzione russa, quando la guerra delle informazioni riservate, lo spionaggio, era una variante della lotta politica internazionale, della «guerra civile europea» la cui posta in gioco – per chi ne condivideva gli ideali – era la sopravvivenza del paese dei Soviet, il primo esperimento socialista della storia. A combattere la battaglia nascosta della intelligence, dalla parte di Mosca, non erano soltanto i rivoluzionari del Comintern, ma anche un variegato milieu di simpatizzanti e intellettuali del mondo occidentale, quasi un vivaio dal quale si poteva partire volontari per difendere la Spagna repubblicana o altresì ritirarsi nell’ombra per svolgere missioni occulte. E dopo, durante la guerra antinazista, sembrava meritorio e comunque non disdicevole aiutare l’Urss, alleata e non nemica degli Angloamericani. Ma poi arriva il tempo della guerra fredda, di un duro confronto in un orizzonte da incubo nucleare. E la parte più rischiosa tocca ancora al veterano: spiare, non già al riparo di una comoda copertura diplomatica, ma entrando in clandestinità dal 1948 nel paese ostile. Mimetizzandosi, fingendosi americano. Ciò che Fisher fa con meticolosa preparazione: per esempio, leggendo in biblioteca i giornali newyorkesi degli anni passati, per conoscere cronache e dettagli che sostanziano la sua falsa memoria; o stringendo amicizie che in buona misura sono relazioni umane autentiche. Una coppia di amici andrà in Russia, negli anni ’60, senza riuscire però a incontrare l’uomo cui nonostante tutto era affezionata.        
Poliglotta, cólto, dedito alla pittura, Willy è un professionista che unisce la freddezza e l’autocontrollo al senso di umanità e al rispetto per l’avversario. Una figura estranea a quella del burocrate che gestiva il controllo poliziesco all’interno della società sovietica. Egli fa parte di una schiera di patrioti che combattono fuori dei confini, nel cuore del pericolo, guardando con malcelato spregio alla macchina di funzionari del KGB, incarnazione dello Stato di polizia. Anche Markus Wolf, capo dell’intelligence degli affari esteri della DDR – «Misha», modello reale del letterario Karla, il grande burattinaio dei romanzi di John Le Carré – esibiva disdegnosa lontananza dalla Stasi, il soffocante apparato del ministero della sicurezza tedesco-orientale. È nel vivo della contraddizione che si rivela la qualità degli individui.
Rientrato in patria, Fisher conduce un tenore di vita sobrio; è chiamato a tenere lezioni e conferenze, insignito dell’Ordine di Lenin, ma non del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica (che invece era stato concesso alla memoria di Richard Sorge, la spia uccisa dai giapponesi nel ’44). Non aveva mai rivelato nessun nome né ammesso nulla, se non di essere russo e di chiamarsi Abel. Aveva attraversato indenne il regno micidiale dell’inganno, del doppio gioco, del sospetto e della paranoia. Forse Abel il pittore è stato artefice di un complicato dipinto criptico, in cui a malapena, se si guarda fra i rami di un albero, si scorge la sagoma di un cacciatore capovolto.
  
Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 dicembre 2015   

venerdì 18 dicembre 2015

Francesco De Sanctis

Letteratura, scuola e libertà
Una lezione intellettuale e civile

«La mia vita ha due pagine, una letteraria, l’altra politica, né penso a lacerare nessuna delle due: sono due doveri che continuerò fino all’ultimo». Così scriveva in una lettera del 1869 Francesco De Sanctis, il grande intellettuale nato nel 1817, quasi due secoli fa. (Il suo bicentenario è già un evento in corso, anticipato di alcuni anni e articolato in numerosi progetti che si svolgeranno fino al 2017.) Quelle due «pagine» s’incontravano per speciale vocazione in un punto cruciale: la scuola. A Napoli il giovane docente irpino dava voce, con l’insegnamento letterario, a un crescente sentimento di libertà; tutti i suoi studenti, si può dire, si associarono alla rivoluzione del 1848: quella in cui, secondo De Sanctis, sarebbe stato «combattitore» se fosse vissuto anche Giacomo Leopardi, da lui conosciuto negli anni napoletani del poeta; quella rivoluzione sconfitta in cui il professore trentunenne vide cadere  sotto il piombo borbonico il suo migliore allievo, il ventenne venosino Luigi La Vista. Esule a Torino e a Zurigo, De Sanctis rientrò a Napoli nel 1860 per partecipare all’unificazione italiana; nel governo Cavour, fu chiamato a reggere per primo il dicastero della pubblica istruzione dell’Italia unita. Straordinaria e magnifica ventura: perché, appunto, bisognava ora «fare gli Italiani», e la scolarizzazione era il passaggio ineludibile. La visione di De Sanctis – due volte ministro e a lungo parlamentare impegnato sui temi della scuola – postulava il rapporto fra «scienza e vita»: umanista di formazione idealistica ed hegeliana, perseguiva un programma singolarmente antiretorico dando spazio alle discipline tecniche, all’educazione fisica, al carattere popolare dell’istruzione. La sfida più ardua di quel tempo – da lui condivisa e sostenuta – era la costruzione di una scuola elementare pubblica e unitaria, di cinque anni, con parziale obbligo di frequenza, estesa a tutto il territorio nazionale e con personale assunto dallo Stato: progetto che si compirà definitivamente solo nel 1911, cinquant’anni dopo l’Unità. 

Di sicuro, l’illustre critico figurava in quella schiera di intellettuali del Sud, liberali di varia estrazione – Bertrando Spaventa, l’amico Luigi Settembrini, il coetaneo e corregionale Pasquale Stanislao Mancini, Ruggiero Bonghi (gli ultimi due anch’essi ministri dell’istruzione) – i quali si posero con nettezza sul terreno del Risorgimento e della unificazione nazionale in uno Stato centralizzato, accettando il compromesso con i Savoia e appoggiando il disegno cavouriano, convinti che questa fosse l’unica strada realistica per soddisfare l’aspirazione all’unità e all’indipendenza e per avviare le desiderate riforme. Non venne mai meno peraltro in De Sanctis la suggestione mazziniana; si rafforzò in lui un orientamento democratico e progressista con l’adesione al nuovo gruppo parlamentare della «sinistra giovane». Del resto, il suo impegno nella battaglia per la cultura e per la scuola è radicato nell’intensa attività di studioso e saggista che gli ha dato un posto di rilievo assoluto nella storia della letteratura. Molti suoi scritti sono rielaborazioni di corsi di studio da lui tenuti; il suo stesso capolavoro, la Storia della letteratura italiana (1870-71) fu concepito come manuale per i licei. Ma fu, nel contempo, il massimo contributo intellettuale alla “invenzione” di una nazione. Quella che il grande critico boemo-statunitense René Wellek definì «la più bella storia di una letteratura che sia mai stata scritta» si presentava per certi versi come un romanzo dell’Ottocento: un appassionante racconto “di formazione” – secondo un’acuta notazione di Remo Ceserani – in cui un protagonista collettivo, la coscienza nazionale italiana, nasce e vigoreggia nell’età dei comuni, entra in crisi nell’età rinascimentale con la perdita dell’indipendenza politica, ma combattendo risorge pian piano con la Nuova scienza galileiana e con l’illuminismo. Oggi questa narrazione può giustamente essere decodificata come una lettura lineare e ideologica in chiave risorgimentale di quelli che furono processi o episodi diversificati e discontinui. È da tempo che Asor Rosa ha sancito la fine del «diagramma De Sanctis»; la critica ha attraversato paradigmi profondamente innovativi. D’altra parte è innegabile che certi snodi del metodo desanctisiano conservino un interesse duraturo:  l’opera letteraria come «Forma», che sintetizza e risolve in sé un «contenuto» non separabile e altrimenti irripetibile; la «situazione» di un testo nella sua particolarità storica unica e intrinseca, come dato indispensabile per la comprensione di esso. Così come non è certo inattuale – pur nelle epocali trasformazioni di un secolo e mezzo – il tema posto con forza dallo studioso irpino: la necessità di superare lo storico e irrisolto distacco, in Italia, fra ceto cólto e popolo. Ci sembra insomma che abbia serbato il suo fascino l’esempio desanctisiano di intellettuale “militante” – ben diverso dal letterato “neutrale” e arroccato – che piacque a Gramsci tanto da fargli auspicare il «ritorno al De Sanctis» come a un modello, a prescindere dalle posizioni datate. Un figura di intellettuale che «prende parte», che «non è indifferente» rispetto ai dilemmi della società e della storia. Un esempio – riteniamo o almeno speriamo – che potrebbe ancora parlare ai giovani del nostro tempo, nella inquieta ricerca di riferimenti ideali e morali.       

Pasquale Martino      
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 17 dicembre 2015


Gli eventi del bicentenario

Inaugurato due anni fa sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, il “lungo bicentenario” della nascita di Francesco De Sanctis (1817-1883), che culminerà nel 2017, è promosso da numerose università italiane (Bari fra queste) e straniere (Barcellona e Zurigo) e da: Società nazionale di scienze, lettere e arti in Napoli, Società napoletana di storia patria e Parco letterario Francesco De Sanctis. Oltre che ad Avellino, cui fa capo il comune natale del grande critico (Morra Irpino, oggi Morra De Sanctis, pour cause), iniziative, convegni e seminari si sono già svolti a Napoli e a Torino. Il Parco letterario organizza itinerari nelle località dell’Irpinia legate alla vicenda biografica di De Sanctis e ha in programma incontri, la pubblicazione di un annuario e la creazione di un museo virtuale. È nata inoltre la rivista «Studi desanctisiani», pubblicata a Pisa da Fabrizio Serra editore e diretta da Toni Iermano (università di Cassino e del Lazio meridionale). Nel comitato editoriale della rivista (ne sono usciti finora tre fascicoli) l’università di Bari è rappresentata dall’italianista Pasquale Guaragnella. Qualche mese fa l’Expo 2015 di Milano ha ospitato una sessione di letture desanctisiane dell’attore Michele Placido.           
P.M. 

mercoledì 25 novembre 2015

Dalla Resistenza a Benny


Così Bari nutre la geografia della memoria  


Una sorta di geografia della memoria storica va prendendo forma a Bari. Esposizioni e monumenti realizzati in periodi e in modi diversi ma che potrebbero essere letti come un insieme coerente. All’interno di questa mappa, trova spazio una topografia della memoria antifascista che si è andata disegnando nel tempo, quasi a confutare l’annosa taccia di Bari «città fascista»: un cliché nato da un cedimento conformistico all’immobilismo storico; un affronto alla città da cui partivano gli appelli radiofonici alla Resistenza, e che  era stata una infrastruttura vitale degli Alleati nella guerra antinazista. Anche per influenza del quadro politico postbellico, quella memoria restava come sommersa, inespressa, assai poco alimentata dalle istituzioni rappresentative. Negli anni ’70 le epigrafi firmate in solitudine dall’Anpi presso il palazzo della Dogana del Porto e all’interno della Posta centrale –per coloro che il 9 settembre ’43 si erano opposti ai tedeschi – testimoniavano da un lato la tenacia dell’associazione partigiana, dall’altro la prudente distanza delle amministrazioni pubbliche. Del resto, non è casuale che la medaglia d’oro per la Resistenza alla città di Bari sia arrivata soltanto nel 2006, nella stagione, cioè, di un’operosa sensibilità istituzionale. Ma era appunto, ormai, un’altra epoca; in cui la lunga semina dell’impegno civico, della ricerca storiografica, del lavoro delle scuole produceva frutti maturi. A questa fase è ascrivibile fra l’altro il progetto delle «pietre d’inciampo» – ispirate agli Stolpersteine dell’artista Gunter Demnig – realizzato nel 2010-2013 dal Comune in collaborazione con l’Anpi, l’Ipsaic e la Camera del Lavoro-Cgil. Parole di pietra e di ottone, che nominano fatti e caduti dell’antifascismo nel 1922 e nel ’43. E dal 2014 una targa nell’aula consiliare barese reca doverosamente il nome di Filippo D’Agostino – deportato e ucciso dai nazisti – che fu eletto in quel consiglio prima della dittatura.  
Nello svolgimento complesso e problematico del rapporto fra città e storia, la vicenda delle commemorazioni di Benedetto Petrone, il giovanissimo antifascista ucciso il 28 novembre 1977 (ne ricorre il 38° anniversario), è quasi un paradigma. Dopo il processo, un velo di silenzio si stende sulle memorie individuali che molti continuano a custodire, mentre lo stesso antifascismo dà risposte sporadiche. Rimane l’icona di un volto fiero che a Bari tutti identificano  immediatamente, anche gli antipatizzanti e gli indifferenti. Resiste l’epigrafe in piazza Libertà, messa dai compagni di Benedetto, documento che la quotidianità opacizzante non ha potuto riassorbire. Resta – lo si dovrà riconoscere – la duratura pedagogia civile di un libretto collettivo, Le due città, che passa di mano in mano fra le generazioni di giovani che non c’erano, ma vogliono sapere. Poi, forze politiche riscoprono l’esempio del ragazzo assassinato da neofascisti, dando vita alle manifestazioni rievocative, preparando il terreno. Ed è in coincidenza con la rifioritura civica di cui abbiamo detto, che le commemorazioni di Benny diventano parte integrante del discorso pubblico. Fino a culminare nel 2009, con l’intitolazione a Petrone della via d’accesso a piazza Chiurlia, per decisione del Comune che accoglie la proposta del Comitato 28 Novembre. A Benedetto sono stati dedicati siti internet, film, spettacoli, recital, fra cui una ballata del compianto Enzo Del Re, e molteplici iniziative di giovani in tutta la Puglia.
Per questo ci sembra che un ulteriore e significativo evento si compia, oggi, grazie a una intelligente scelta dell’Arci. Nella sede di Bari Vecchia, l’associazione culturale istituisce, con il Comitato 28 Novembre, una mostra fotografica permanente sui giorni di Benedetto Petrone. Messa insieme collettivamente l’anno scorso per una esposizione provvisoria, la mostra prende ora il suo posto di rilievo nella geografia della coscienza storica barese, non diversamente – a ben vedere – dal Museo civico appena risistemato e dalla esposizione stabilmente allestita in Casa Piccinni. Tanto più se si considera la proprietà comunale dell’immobile, confiscato alla criminalità. Non è soltanto una vittoria conclusiva sulla menzogna che pretendeva di delegittimare Benny e i suoi amici come teppistelli «barivecchiani»: è giustizia per quei ragazzi che, riconoscendosi nel movimento operaio e nella democrazia, volevano sottrarre la città vecchia a un destino di povertà e devianza.  Ma la mostra ha per protagonista soprattutto la cittadinanza, colta nella sequenza del cordoglio, della rabbia, del ricordo. Uno specchio di corpi e facce in cui la città odierna potrà guardarsi, trovando conferma che quella non è una storia estranea, ma è la sua storia.  

Pasquale Martino 
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 novembre 2015  
    


domenica 1 novembre 2015

Indonesia 1965

Lo sterminio dimenticato

In un’epoca di memoria istituzionale, punteggiata da giornate che commemorano stragi, una grande dimenticanza copre l’immane carneficina indonesiana del 1965. Joko Widodo, il nuovo presidente di quel popoloso paese (il più vasto a maggioranza musulmana, con una costituzione laica) ha deluso finora le aspettative, non cogliendo l’occasione del cinquantenario per rompere il silenzio pubblico su una storia tragica, tuttora tabù. Un oblio di cui neppure i paesi occidentali sono incolpevoli, in primis gli Usa che sostennero il colpo di Stato del generale Suharto realizzando una vittoria strategica nella guerra fredda. 
In Occidente la vicenda fu rievocata dal lungometraggio di Peter Weir Un anno vissuto pericolosamente (1982) che valse l’Oscar all’attrice Linda Hunt. Ma la trama del film si ferma alla vigilia dello sterminio. Le stime sul numero dei morti oscillano fra il mezzo milione e, più verosimilmente, il milione e oltre. Erano militanti del partito comunista indonesiano (Pki), simpatizzanti, sindacalisti, immigrati cinesi vittime di odî etnici. Fino a quel momento l’Indonesia era governata dal presidente Sukarno, leader dell’indipendenza strappata all’Olanda nel 1945 e cofondatore con Nehru e Tito del movimento dei paesi non allineati, le cui basi furono gettate proprio nell’arcipelago indonesiano, a Giava, con la conferenza di Bandung (1955). Sukarno era inviso agli americani, che avevano già tentato di sbarazzarsene, per il suo neutralismo e per il compromesso interno che aveva raggiunto con i comunisti dopo averli contrastati. Il Pki era il più grande partito comunista fuori dai paesi socialisti, con tre milioni di iscritti e il 16% dei voti nelle elezioni parlamentari del 1955. Protagonista della lotta per la riforma agraria, aveva alcuni viceministri nel governo di Sukarno e si candidava a vincere le elezioni successive. Una prospettiva allarmante per gli Usa, già impegnati in Asia nella guerra del Vietnam e nella contesa regionale con la Cina, oltre che nel confronto globale con l’impero sovietico; uno scenario, peraltro, analogo a quello che si aprirà poco dopo nel Cile di Allende e per altri versi in Italia, negli anni dell’avanzata del Pci. 
Fra l’altro si discutevano in Indonesia ipotesi di nazionalizzazione degli impianti petroliferi e delle piantagioni di caucciù. L’alternativa – come nell’Iran indipendentista di Mossadeq, come in Grecia e in Cile – erano i militari, fra i quali si fece strada il quasi sconosciuto Suharto. Il pretesto fu un controverso colpo di mano avvenuto a Giacarta il 30 settembre ’65, nel quale furono uccisi sei generali. Sebbene il Pki condannasse il complotto, la colpa fu data ai comunisti, come nel 1933 per l’incendio del Reichstag. Suharto esautorò Sukarno e dette il via alla mattanza. Questa fu protratta per mesi dall’esercito con l’aiuto di bande paramilitari, di gruppi di gangster e di supporter anticomunisti d’ogni risma. La propaganda dipinse gli affiliati del Pki come belve sanguinarie e come propagatori dell’ateismo, ottenendo così la complicità degli integralisti islamici e indù (l’induismo è maggioritario a Bali, dove il Pki voleva abolire il sistema delle caste) e perfino di alcune minoranze cristiane. Le donne bollate come comuniste venivano esecrate quali demoni corruttori. Giustificazioni per lo sterminio. La caccia al comunista vero o presunto fu meticolosa, capillare, conclusa da detenzioni violente, torture sistematiche e sadiche esecuzioni in cui il modo più umano era il colpo di pistola, raro. Al placarsi della furia metodica chi era sopravvissuto restò in carcere, privo di ogni diritto. È dimostrato l’intervento della Cia nella preparazione golpista dei militari indonesiani e nella montatura propagandistica anti-Pki, molto probabile è inoltre che l’agenzia statunitense abbia fornito gli elenchi degli iscritti al partito.
Arresto di un militante del Pki da parte dell'esercito
Certo è che gli Usa puntellarono la trentennale dittatura di Suharto, anche quando occupò e annesse Timor Est nonostante la condanna dall’Onu e condusse una campagna di annientamento contro il fronte indipendentista dell’ex colonia portoghese, quasi facendo il bis del massacro indonesiano. Sul quale, intanto, era sceso un silenzio tombale. Dopo la caduta di Suharto (1998) e l’inizio di un processo di democratizzazione, associazioni non governative hanno incominciato a ricostruire la memoria di quei fatti, ottenendo ambigue e inconcludenti risposte dalle istituzioni. Il velo è stato strappato a livello internazionale dal documentario del regista americano Joshua Oppenheimer, The act of killing (2012), coprodotto da Werner Herzog e nominato nella cinquina degli Oscar. Oppenheimer ha rintracciato a Sumatra una comitiva di killers del ’65, criminali che gestivano fra l’altro il bagarinaggio dei cinema e che ancora oggi, da vecchi, taglieggiano i commercianti cinesi. Li ha messi a raccontare davanti alla cineprese, ed è venuta fuori la cronaca surreale e agghiacciante della strage (uno dei testimoni vanta mille omicidi) in nome della “libertà” e con una presunzione di eroismo che soltanto fugacemente è incrinata dall’emergere di un oscuro senso di colpa. È l’intuizione di Claude Lanzmann che in Shoah (1985) intervistò con apparente distacco i carnefici delle SS, elevata però a sistema, per così dire: tanto che gli assassini diventano qui narratori e attori, oltre che beniamini di un’associazione paramilitare dai tratti fascistoidi, la Gioventù di Pancasila, il cui referente politico è stato fino al 2009 il vicepresidente dell’Indonesia. Costoro non hanno mai temuto di essere processati. Invece i cineasti indonesiani che, rischiando, hanno collaborato al film sono citati come «anonimi» nei crediti finali. È duro fare i conti con un passato tanto scomodo. È stata finora sempre osteggiata la proposta di riabilitare le vittime e i loro figli e perfino di dare vita a una commissione per la riconciliazione nazionale.

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 31 ottobre 2015   

martedì 27 ottobre 2015

Appiano di Alessandria

I Gracchi. Storia di una lotta di classe
Le guerre civili I, 7-27

Il pregio piú considerevole dell’esposizione appianea consiste nello sguardo costantemente rivolto alla dimensione economico-sociale dei fatti. Ciò che in Plutarco si configura quasi come nota a margine, ragguaglio necessario sullo stato dell’agricoltura – quanto basta a spiegare la scelta che Tiberio Gracco compie per qualificare il proprio tribunato all’indomani di un infortunio politico da lui patito – diventa in Appiano il presupposto del capitolo sui Gracchi e perciò stesso dell’intera storia delle guerre civili. Dopo il nitido passo introduttivo (capitolo 7) il tema ritorna nel capitolo 18 dove si tratteggiano le questioni giuridico-fondiarie nate nell’attuazione della riforma agraria, e nel capitolo 27 dove si analizza il graduale superamento della legge graccana; tutto ciò, come effetto di azioni e reazioni di classi sociali in conflitto e delle loro rappresentanze politiche. La parabola dei figli di Cornelia è dominata dal contrasto fondamentale tra ploúsioi e pénetes, termini che ricorrono di continuo: ricchi e poveri, proprietari e nullatenenti. In questa lotta di classe fra grandi possessori di agro pubblico e piccoli contadini espropriati si gioca l’azione politica che svela la crisi della repubblica e la fa precipitare. Se allora per la prima volta dopo secoli fu versato sangue in una contesa intestina, ciò avvenne perché la nobiltà – per dirla con Machiavelli – era disposta a dare riconoscimenti alla plebe in termini di «onori», non di «roba» (Discorsi I, 37).
Fu specialmente Karl Marx, com’è noto, a elogiare il valore dell’opera appianea dal punto di vista del materialismo storico. In una lettera piuttosto famosa, indirizzata a Friedrich Engels, il filosofo di Treviri dichiarava di leggere Appiano in lingua originale ammirandone la propensione a rilevare le radici materiali degli eventi storici: proprio la caratteristica che lo faceva apparire «senz’anima», invece, allo storico accademico Friedrich Christoph Schlosser (lettera del 27 febbraio 1861: Marx -Engels, Opere, XLI, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 176). Marx riportò nel Capitale il brano sopra citato sull’economia agricola (si veda la nota 3 al testo, infra), che diventò un riferimento obbligato nella divulgazione storica marxista (lo si legge per esempio nel classico manuale di storia romana scritta da S. I. Kovaliov e nella Storia Universale dell’Accademia delle Scienze dell’Urss). Engels da parte sua ribadí la qualità rara dello scrittore alessandrino, unica fonte antica che faccia emergere con chiarezza il tema portante della proprietà fondiaria (Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 71).

Pasquale Martino

Dalla Introduzione a:  Appiano, I Gracchi. Storia di una lotta di classe, Academia.edu 2015

https://www.academia.edu/17336586/Appiano_di_Alessandria._I_Gracchi_storia_di_una_lotta_di_classe

giovedì 8 ottobre 2015

"Il Politecnico" di Vittorini

Quel soffio d'aria nuova nell’Italia liberata
70 anni del primo numero della rivista di cultura 


70 anni dalla Liberazione. Un momento storico terribile e generoso, in cui l’Italia uscita dalle macerie ripensò se stessa. È in questa chiave che andrebbe letta la vicenda emblematica del «Politecnico», il settimanale fondato da Elio Vittorini il cui n° 1 apparve il 29 settembre ’45. La rivista – spesso ricordata (ingiustamente) solo per la polemica con Togliatti – ebbe poco più di due anni di vita, meteora in un’epoca tumultuosa: nascita della repubblica, elezione della Costituente, infine la cacciata delle sinistre dal governo. Il 1945-46 fu un’età di riviste culturali, come il primo Novecento. A «Rinascita» uscita nel ’44 si affiancarono – per citare solo le principali – un’altra rivista di orientamento comunista, «Società», e tre di area azionista, «La Nuova Europa» di Salvatorelli, «Belfagor» di Luigi Russo e «Il Ponte» di Piero Calamandrei (le ultime due, di lunga e gloriosa vita). Ma la più dirompente fu «Il Politecnico».
Vittorini era uno degli intellettuali comunisti di maggiore rilievo: già noto come romanziere, traduttore, consulente editoriale, non aveva una formazione marxista – lo dichiarò lui stesso – e proveniva dal contesto della fronda fascista in cui s’erano formati parecchi giovani oppositori; nel ’45 pubblicò Uomini e no, il primo romanzo sulla Resistenza, composto “in tempo reale” alla fine del ‘44. Il nuovo settimanale da lui diretto, edito a Torino da Einaudi ma redatto a Milano, riprendeva il nome della rivista di Carlo Cattaneo, per affermare l’idea di una cultura integrale, umanistica e scientifica, legata alla società e alla vita reale. Aveva il formato di un quotidiano, con doppia colorazione, nera e rossa, grafica assai innovativa curata da Albe Steiner, largo uso della fotografia e, talora, del fumetto. La presentazione poneva in modo radicale il tema dalla débacle della cultura borghese europea di fronte alla tragedia della guerra nazista e alla distruzione di tante vite: «non vi è delitto commesso dal fascismo – scriveva il direttore – che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo»; eppure non lo aveva impedito. La «nuova cultura» doveva essere insieme ricerca, sperimentazione e divulgazione, nonché indagine sociale ed essa stessa forma di lotta. «Il Politecnico», che arrivò a raggiungere settantamila lettori, pubblicava ampie inchieste sulla Fiat e sulla Montecatini e corposi servizi sul Meridione – notevoli quelli sul bracciantato pugliese (curati per lo più dal fratello di Elio, Ugo Vittorini, che abitò in Puglia) e sulla Basilicata (affidati al lucano Alberto Iacoviello, futuro corrispondente de «l’Unità» e di «Repubblica»). Temi ricorrenti erano la critica del Vaticano e dei monopoli industriali – due punti su cui il settimanale scavalcava “a sinistra” la prudenza del Pci – e la battaglia per la riforma della scuola: qui vennero i contributi di Concetto Marchesi, della pedagogista Dina Bertoni Jovine e della segretaria di redazione, Luisa Succi (che scrisse anche sulla emancipazione femminile). Ai servizi internazionali (Egitto, Palestina, Indonesia, Argentina, India) si aggiungevano quelli sulle conquiste sociali in Urss ma anche in Usa (il sogno della grande alleanza antinazista non era ancora crollato). La parte del leone era senza dubbio riservata alle arti: letteratura, pittura, scultura, architettura, teatro, cinema. Nonostante il vizio di eclettismo enciclopedico che i dirigenti comunisti rimproverarono al «Politecnico», non si può sottovalutare la benefica boccata d’aria di una cultura antiaccademica che spaziava dall’avanguardia russa al surrealismo francese, dall’espressionismo tedesco alla narrativa americana, senza dimenticare i riferimenti a filosofie “eterodosse” come l’esistenzialismo. Cruciale fu il rapporto con Sartre, grazie al quale si realizzò uno “scambio” che sarebbe stato impensabile nel provincialismo del ventennio precedente (nonostante certe aperture dell’industria editoriale): il manifesto della rivista sartriana «Les Temps Modernes» fu pubblicato dal «Politecnico» mentre, contestualmente, il giornale francese riportava l’articolo di fondo di Vittorini. L’engagement di Sartre e Simone de Bouvoir era un modello di impegno per l’intellettuale militante italiano.
La disputa con Togliatti che contribuì al declino della rivista e alla sua chiusura nel dicembre ’47 (dopo la trasformazione in periodico e il cambio di formato) fu dovuta in parte al tradizionalismo retro della cultura letteraria prevalente ai vertici del Pci; a un “contenutismo” di tipo sovietico (diciamo per semplificare) sospettoso nei confronti degli sperimentalismi formali novecenteschi. D’altra parte Togliatti aveva ragione nel rivendicare lo spessore culturale della politica in quanto tale, che egli intendeva alla maniera di un Gramsci peraltro ancora sconosciuto; e invero l’operazione intellettuale più alta compiuta dal segretario del Pci fu proprio l’edizione degli scritti gramsciani a partire dal ’47, presso la stessa Einaudi («Il Politecnico» anticipò alcune lettere dal carcere). Vittorini negava di volere la supremazia della cultura sulla politica, ma ne sosteneva l’autonomia statutaria e il pluralismo di ricerca nel proprio ambito specifico. «Il diritto di parlare – scriveva inoltre rispondendo a Togliatti – non deriva agli uomini dal fatto di “possedere la verità”. Deriva piuttosto dal fatto che “si cerca la verità”». Un concetto che non sarebbe dispiaciuto al Gramsci dei Quaderni. Cultura militante, dunque, come parte intrinseca e non separata del movimento storico dei lavoratori e dei progressisti, ma cultura che si dà le proprie regole e i propri percorsi. Bisognerà attendere il ‘68 per integrare questa formulazione – già ricca di stimoli nel ’45-’47 – con la demistificazione della presunta neutralità del sapere, con la critica della propria funzione sociale da parte degli intellettuali.    
            
Pasquale Martino   
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 8 ottobre 2015


domenica 20 settembre 2015

L'"industria Millennium"

Stieg Larsson vive?
Il nuovo Millennium non uccide il vecchio ma rischia di perdersi


Nessuna novità editoriale è stata promossa con una campagna altrettanto imponente. Preannunciato da oltre un anno, Quello che non uccide di David Lagercrantz è uscito il 27 agosto contemporaneamente in 32 paesi. L’editore svedese, Norstedts, aveva inviato all’estero il manoscritto per corriere e sotto il vincolo di segretezza. Il testo è stato redatto su un computer scollegato da internet, per prevenire intrusioni. Stiamo parlando del “quarto” romanzo della serie Millennium edito in Italia da Marsilio, che lo presenta in prima di copertina come la continuazione della «saga di Stieg Larsson»: un nome che invece manca nella copertina svedese. Stiamo parlando, insomma, dell’«industria Millennium»; quella che in dieci anni si è alimentata con la trilogia del geniale e sfortunato Larsson – incentrata sulle inchieste della detective hacker Lisbeth Salander e del giornalista Mikael Blomkvist – vendendo 75 milioni di copie nel mondo (4 milioni in Italia) senza contare i diritti cinematografici, nonché i gadget e i fumetti.
Nulla da obiettare, beninteso, visto che il mestiere di un editore – spiega la Norstedts – è vendere libri. E nulla da eccepire nemmeno sul fatto che si affidi a un secondo autore il compito di proseguire l’opera del primo, defunto, visto che ciò risponde all’insopprimibile desiderio del pubblico di sapere “come continua” una narrazione popolare, “che cosa fanno” gli eroi dopo che l’appassionante racconto si è esaurito. La storia dei libri abbonda di situazioni simili (per non parlare del cinema e della televisione): il più riuscito sequel della letteratura italiana è l’Orlando Furioso di Ariosto, che riprende trama e personaggi di Boiardo dove questi si ferma. Un po’ diversa è la faccenda ai giorni nostri, qualora esista un copyright: chi non è autorizzato rischia sgradevoli contenziosi, come è successo a colui che ha preteso di continuare Il giovane Holden di Salinger. Lagercrantz è stato selezionato a tal fine dall’Industria Millennium*, che – è opportuno precisarlo – non fa capo soltanto all’editore, ma anche agli eredi legali di Larsson, cioè al padre e al fratello. I due hanno fatto valere inflessibilmente la legge che non concede nulla alle unioni di fatto, escludendo dall’eredità Eva Gabrielsson, compagna di Stieg Larsson per trentadue anni.
Quella di Stieg ed Eva è la storia di una coppia degli anni ’70, che ha condiviso entusiasticamente la formazione culturale, tutte le scelte di vita, la militanza di sinistra e antirazzista, influenzando le attività professionali di ognuno dei due: architetta lei, giornalista lui. La Gabrielsson ha raccontato la vicenda nel libro Stieg e io (stampato in Italia nel 2012 dall’editore “larssoniano” Marsilio), nel quale fra l’altro disegna un ritratto impietoso degli eredi di Larsson. Il fratello, Joakim, ha ribattuto alle accuse nel proprio sito (moggliden.com). Rimane l’amaro paradosso per cui la clamorosa fortuna postuma non ha portato niente in tasca all’autore di Uomini che odiano le donne, vissuto quasi poveramente e morto di infarto subito dopo aver dato i manoscritti all’editore, ed ha sfiorato Eva Gabrielsson solo per via indiretta, grazie al citato volume autobiografico. La compagna di Stieg non intende accettare i compromessi che le sono stati proposti: rivendica il diritto di gestire autonomamente il lascito letterario del suo compagno – in coerenza con l’ispirazione di lui – e in cambio rinuncia a ogni lucro. Amici e intellettuali l’hanno appoggiata ed è stato anche creato un sito web (supporteva.com) che però risulta ora cancellato – brutto segno.
D’altra parte, va riconosciuto che gli eredi – anche incalzati dalla pressione indomabile della Gabrielsson – hanno impiegato parte dei profitti per istituire una fondazione intitolata allo scrittore (sito web: stieglarssonsstiftelse.se) e un premio annuale, che è stato assegnato a «Expo», la più importante rivista antifascista e antirazzista di Svezia, fondata da Stieg Larsson, e a varie personalità fra cui Soraya Post, ebrea rom, europarlamentare del partito Iniziativa Femminista. Inoltre ad «Expo» (sito web: expo.se), modello dell’immaginaria rivista «Millennium», andranno i proventi del quarto volume di spettanza dei familiari secondo la ben nota volontà di Larsson. Egli aveva progettato altri sette volumi della serie e – racconta Eva – aveva già scritto duecento pagine del quarto. Questi materiali sarebbero nel computer usato dal giornalista, che però apparterrebbe a «Expo». Un altro mistero e soprattutto un altro paradosso: perché Quello che non uccide non sviluppa gli abbozzi larssoniani, ma è frutto dell’invenzione di Lagercrantz. Il quale afferma peraltro di avere ristudiato i tre romanzi con immenso rispetto per aderire il più possibile allo stile originario. Conosciuto finora per la biografia da lui scritta del calciatore Ibrahimovic, Lagercrantz se la cava – va detto – dignitosamente. Non vogliamo parlare del libro, per non guastare il piacere della lettura: diciamo solo che lo sforzo di far rivivere Lisbeth e Mikael, le loro idealità libertarie e "anticapitaliste", non è stato vano. L'universo matematico, l'elettronica avveniristica e la guerriglia del web – temi già propri di Lisbeth – diventano predominanti. 
E tuttavia qualcosa – ci sembra – si è perso. La forza del male si colloca in un'oscura alleanza fra ambienti della statunitense National Security Agency – campione dello spionaggio informatico planetario – e una scheggia della mafia russa dedita al traffico di segreti industriali. Sfuma sul fondo la realtà propriamente scandinava, con i suoi conflitti e il suo lato tenebroso, la xenofobia e le pulsioni autoritarie, indagata dalla sensibilità sociale di Larsson. Forse ha di nuovo ragione la Gabrielsson, quando sottolinea la diversità di provenienza e di formazione del continuatore rispetto all'inventore. Ma questa storia non è ancora finita.  

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 settembre 2015

* Casi consimili sono ricorrenti e si direbbe abituali nella storia della letteratura e specie nella "narrativa di genere". L'esempio più macroscopico è probabilmente quello della serie imperniata sulle avventure di James Bond: la Gildrose Production che detiene i diritti per le opere di Ian Fleming e per il personaggio di 007 ha commissionato ad altri scrittori, fra cui John E. Gardner e Raymond Benson, la stesura degli ulteriori romanzi che hanno per protagonista la spia britannica. 


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Stieg Larsson


domenica 19 luglio 2015

Cartagine in fiamme


Debiti, trattati, sottomissione: come soffocare un Paese. 
Una lezione antica per la Grecia e l'Europa di oggi


Giambattista Tiepolo, La conquista di Cartagine
La Grecia di Tsipras è stata spinta a una drammatica guerra difensiva:  assediata dall’Europa dei creditori, è stata infine piegata. Ci si è ricordati, per analogia, di episodi noti della storia antica: la battaglia delle Termopili, per esempio, dove un pugno di Spartani rallentò l’armata persiana ma fu sterminato (poi però i Greci vinsero la guerra); e la distruzione di Cartagine, freddamente decisa da Roma e perseguita a passi sempre più stringenti. E questo secondo esempio, in verità, appare più calzante.
Dopo due tragiche guerre, Cartagine era prostrata. Aveva perso il lungo duello con la rivale Roma, che era diventata, vincendo, padrona del Mediterraneo. La fiorente e secolare città situata sulla costa dell’odierna Tunisia pagava regolarmente alla vincitrice le rate ingenti di un esoso debito di guerra; non aveva più un impero, non aveva diritto a una politica estera, era vincolata da un trattato-capestro e tenuta a bada dal cane da guardia dei Romani, il re numida Massinissa.  Ciononostante, a Roma il fantasma punico faceva ancora paura. Quando il debito imposto a Cartagine fu interamente saldato, nel 152 a.C., l’ex creditrice decise che la mucca ormai munta doveva morire. La maggioranza della classe dirigente voleva vedere rasa al suolo la patria di Annibale «che infiniti addusse lutti» ai Romani; il più noto dei liquidatori era Catone il Censore, che, ottuagenario, andò in delegazione a visitare Cartagine e tornò più che mai convinto che la città di Didone costituisse tuttora una minaccia per Roma: bisognava distruggerla. Altri, come Scipione Nasica detto Corculone, dissentivano dall’ex censore non per spirito umanitario, ma perché temevano che, scomparsa la Grande Nemica,  Roma non avrebbe avuto più nessun collante di difesa “nazionale” e – come in effetti avvenne – sarebbe caduta preda delle discordie intestine. I pacifisti però erano in minoranza. Roma dunque aspettava solo il pretesto per dare il via alla soluzione finale della questione punica.  

Quando, esasperati dalle provocazioni di Massinissa, i Cartaginesi risposero a mano armata, scoccarono forse inconsapevolmente la scintilla della terza e ultima guerra punica. Si videro subito dichiarare guerra da Roma. Traditi anche da Utica, l’altra grande città della costa africana, che si arrese ai Romani, decisero di offrire a loro volta la resa. Per prima cosa, i nemici imposero loro di consegnare trecento giovani come ostaggi, e di attendere ulteriori ordini dei consoli. Nonostante la protesta di chi, come Magone, faceva osservare che il primo cedimento avrebbe reso inevitabile il successivo crollo, i Cartaginesi accettarono. I Romani misero le mani sugli ostaggi, dopodiché i consoli emanarono il secondo ordine : consegnare tutte le armi. E fu ancora un amarissimo sì. «Allora apparve evidente – scrive Polibio – quando grande fosse il potenziale della città: essi consegnarono a Romani più di duecentomila armature e duemila catapulte». Per inciso, il greco Polibio conosceva bene i fatti, essendo amico, accompagnatore e “ospite” (in realtà ostaggio) di Scipione Emiliano, il “risolutore”. Si scoprì a questo punto che le concessioni non bastavano ancora. L’ultima feroce ingiunzione fu di abbattere Cartagine per ricostruirla altrove, lontano.  Solo allora i Cartaginesi, inermi, dissero no. E nonostante tutto, chiusi dentro le mura,riuscirono a resistere per qualche anno, grazie anche all’inettitudine dei generali romani che dirigevano l’assedio. Finché non fu mandato Scipione Emiliano, nipote del vincitore di Annibale e dotato di indubbia attitudine militare. Fu lui a dare adempimento all’odio vendicativo dei Romani, e a piangere sulle rovine di Cartagine che egli stesso mise a ferro e fuoco.  L’ultimo comandante punico, Asdrubale, si era comunque arreso; ma sua moglie, sebbene avesse avuto dai nemici garanzia di salvezza, aveva preferito uccidersi con i figli gettandosi tra le fiamme come Didone. Era il 146 a.C. La Cartagine punica non esisteva più; ma in seguito, in quella terra che diventerà una provincia romana, nello stesso sito, sorgerà una nuova e florida città con lo stesso nome.  I Romani sfruttarono in proprio quelle fertili campagne e quei centri di commercio,  e fecero tradurre in latino un trattato punico di agricoltura per capire meglio le tecniche cartaginesi di coltivazione.  

Mosaico nel Museo del Bardo, Tunisi
Il “sadismo” con cui i Romani eseguirono l’assassinio di Cartagine per progressivo soffocamento sarà in qualche modo riproposto milletrecento anni dopo dall’imperatore Federico Barbarossa: ricevuta la resa dei milanesi, nel 1162, comunicò in seguito la sua decisione di radere al suolo Milano, sollecitata invero dalle città rivali, Pavia, Cremona, Como, Lodi. Vae victis, «guai ai vinti», aveva detto – si narrava – il gallo Brenno quando aveva occupato Roma due secoli e mezzo prima della catastrofe cartaginese. Legge inossidabile della storia. La vicenda attuale della Grecia – paese ricchissimo di risorse culturali e paesaggistiche che fanno gola a eserciti di “privatizzatori” –,  però, è ancora aperta e non sappiamo come andrà a finire; né sappiamo che cosa ne sarà dell’Europa strozzina e dell’implacabile Germania. Scipione piangeva soprattutto perché pensava che ciò che era capitato a Cartagine sarebbe potuto succedere in futuro anche a Roma. Scipione presagiva i Visigoti e i Vandali alla porte della propria città.  

Pasquale Martino 
   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 19 luglio 2015

sabato 27 giugno 2015

Leonard Peltier

Un Sioux in carcere, icona della resistenza indiana


«L’unico indiano buono è quello morto», è il celebre aforisma attribuito al generale P. H. Sheridan, veterano delle guerre indiane negli Usa del XIX secolo; si potrebbe aggiungere: se non morto, almeno in galera. Tali concetti non sembrano del tutto sorpassati. Il caso emblematico è quello di Leonard Peltier: nativo americano del Nord Dakota, 71 anni, attivista dell’AIM (American Indian Movement), Peltier sconta da 39 anni l’ergastolo sotto l’accusa – mai provata, secondo molti osservatori indipendenti fra cui Amnesty International – di aver ucciso due agenti dell’FBI il 26 giugno 1975, esattamente quarant’anni fa. L’anniversario della sparatoria di Pine Ridge che è all’origine della condanna spinge i difensori dei diritti dei nativi a tentare di riaprire il caso e di ottenere la grazia dal presidente Obama: cosa assai difficile, visto che quindici anni fa l’orientamento di Clinton favorevole alla scarcerazione fu revocato dopo un raduno di protesta (sedizioso, verrebbe da dire) di 500 agenti federali davanti alla Casa Bianca.   

Tutta la vicenda si presta a molte riflessioni. Incominciamo dall’AIM: associazione militante, fondata nel 1968, raccoglie le mai sopite istanze di riscatto delle comunità superstiti di nativi confinati nelle riserve-ghetto dove regnano povertà e disoccupazione; l’AIM rilancia l’orgoglio indiano ispirandosi alla radicalità dei nuovi movimenti politici e sociali degli anni ’60, a partire da quello afroamericano. I leader neri Malcolm X e Luther King avevano guardato con interesse alla convergenza fra i due movimenti.  L’AIM viene subito classificata come associazione sovversiva al pari del Black Panther Party ed entra nel mirino dell’FBI, che J. Edgar Hoover (morto nel 1972) ha plasmato come gendarme della maggioranza bianca anglosassone protestante. I federali sono coadiuvati dal BIA (Bureau of Indian Affairs), che, capeggiato da cricche clientelari e autoritarie di nativi, funge da agente del governo per il controllo e la repressione nelle riserve indiane. È proprio il malcontento contro le vessazioni dei rappresentanti ufficiali che induce l’AIM a promuovere nel 1973 la più grande rivolta indiana del XX secolo: Wounded Knee II. Circa 200 indiani Oglala, membri della nazione Sioux, occupano il sito della riserva di Pine Ridge in Sud Dakota, proprio dove ottantatre anni prima, nel 1890, le truppe statunitensi avevano compiuto l’ultimo massacro di nativi (Wounded Knee I). la rivendicazione è, sulla carta, assai poco radicale: si chiede il rispetto dei trattati e un contatto  diretto con il governo, che esautori gli odiati rappresentanti. Gli occupanti resistono 71 giorni all’assedio della polizia; in questo frangente si mette in luce il ventinovenne Leonard Peltier, che organizza azioni di supporto ai ribelli. Pur senza esiti pratici significativi, la rivolta costituisce una prova di forza e un esempio per tutte le tribù indiane. Nello stesso anno Marlon Brando non ritira l’Oscar del Padrino per solidarietà con i nativi. Il bilancio delle vittime è relativamente modesto (due attivisti uccisi), ma nel biennio successivo 60 attivisti vengono assassinati uno alla volta, senza dar luogo a indagini; pare evidente che essi siano vittime di una sorta di squadrone della morte dotato di ampie coperture. 


È in questo contesto di vendetta e di autodifesa che si verifica l’«incidente di Oglala» del 1975. Due agenti federali entrati nella riserva di Pine Ridge per arrestare un piccolo delinquente – è la spiegazione fornita dall’FBI – vengono bersagliati da un gruppo di nativi a colpi di arma da fuoco. Nella sparatoria restano uccisi, oltre ai due agenti, anche un attivista dell’AIM. Prima stortura giudiziaria: per la morte dell’indiano non si indaga, mentre per quella dei federali vengono incriminati tre nativi fra cui Peltier. Questi fugge in Canada; gli altri due vengono processati e assolti. Seconda aberrazione: estradato in Usa, Peltier è processato separatamente in base allo stesso materiale probatorio, ma da una giuria diversa, ed è condannato. Nessuno testimonia di averlo visto uccidere; perfino la testimonianza in base alla quale gli Usa avevano ottenuto l’estradizione viene ritirata, ma il tribunale non consente alla difesa di utilizzare questa circostanza.  
Nel 1992 venne realizzato il film-inchiesta Incident at Oglala, prodotto da Robert Redford che prestò anche la voce narrante, e diretto da Michael Apted, già allora famoso come regista di Gorky Park e di Gorilla nella nebbia. Recensendo il documentario il Washington Post commentò: «è difficile vedere il film senza concludere che Leonard Peltier è innocente. Solo chi è volutamente fazioso negherebbe che il suo processo sia stato altro che una parodia orchestrata dal governo».
Nella sua lunga prigionia Peltier ha sempre proclamato la propria innocenza, pur affermando di essere presente a Pine Ridge durante i fatti, e ha continuato a battersi per i diritti dei nativi americani, diventando quasi un simbolo e un’icona della loro fiera resistenza. Sperare in un atto di clemenza è d’obbligo, ma il pessimismo è pure giustificato quando si considera che le prigioni statunitensi traboccano di poveri, di afroamericani e – in proporzione al piccolo numero – di indiani. Né maggior fortuna ha avuto il tema della memoria storica: in Usa esiste un grande memoriale della Shoah, ma nessun monumento pubblico che ricordi lo sterminio degli indiani o la schiavitù degli afroamericani.  Da oltre mezzo secolo i Sioux vanno faticosamente realizzando in Sud Dakota un enorme monumento a Cavallo Pazzo, il vincitore del generale Custer. 

 Pasquale Martino     

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 giugno 2015     

www.whoisleonardpeltier.info/home/resources/blog/






mercoledì 10 giugno 2015

Scrittura e scuola


Che cosa resterà dei nostri tweet?


«La Gazzetta del Mezzogiorno» ha dedicato un servizio alla classe di   scuola primaria di Noci (Bari) che ha sperimentato la corrispondenza con una classe di Pomezia (Roma) mediante lettere scritte rigorosamente a mano, con tanto di busta e francobollo comprati in tabaccheria. 
Il quotidiano mi ha chiesto un commento. 
Eccolo (con qualche integrazione).



Un paradosso dei nostri tempi è la cresciuta disponibilità di mezzi per comunicare, non solo in viva voce ma anche per iscritto – i social network – a fronte di un pauroso impoverimento della capacità di scrittura.  Possiamo far sì che le nostre parole scritte arrivino con inaudita rapidità in tutto il mondo, ma non sappiamo scrivere. Un vero analfabetismo di ritorno, peggiore di quello antico e tradizionale, più preoccupante della scarsa pratica scrittoria dei nostri nonni, perché non è arretratezza ma ignoranza tutta moderna, indotta dalla rivoluzione tecnologica: una ignoranza che scambia la brevità e le forme stenografiche (negli sms, nei tweet e via dicendo) con la sgrammaticatura o, peggio, con l’irrilevanza della grammatica; talché accenti, apostrofi, ortografia, coniugazioni diventano dettagli insignificanti. Si gettano le basi di una società in cui la corretta conoscenza della lingua sarà opzionale. Si sta dimenticando che – per parafrasare don Milani – chi meglio padroneggia la lingua è più libero di chi ha strumenti linguistici poveri.
Fa bene dunque la scuola pubblica, quando si preoccupa di contrastare una tendenza negativa che si impone specialmente ai giovani attraverso l’uso riduttivo e distorto delle tecnologie. Occorre tenacia e continuità; occorrono molte ore di scrittura corretta, raffinata da un percorso didattico e culturale, e inoltre da una abitudine costante di lettura, per battere la concorrenza di un pressapochismo travestito da modernità, capace ormai di invadere anche lo spazio dello studio e della scuola.
Pure usando il computer, com’è ovvio, si può imparare a esprimersi in modo appropriato, disponendo per di più di correttori ed elenchi di sinonimi compresi nel software. E tuttavia sarebbe un danno irreparabile dismettere la scrittura a mano, l’antica tecnica che conserva in sé una parentela con l’arte del disegno e della pittura: l’uso di carta e penna, quale tirocinio indispensabile, esercizio della mente e della fantasia soprattutto per chi apprende i rudimenti dello scrivere.  Specie se la pagina vergata con l’inchiostro non resta chiusa nel nostro cassetto, ma circola fra le mani di uno o più lettori. Scrivere per sé e per gli altri – anche solo per quei pochi che poseranno gli occhi su un foglietto da noi tracciato – , ma scrivere meditando, correggendo, ritornando più volte sul proprio scritto, non è solo «una misura di igiene» (Italo Svevo), ma è un modo essenziale per affermare l’universalità della scrittura come civiltà, memoria, storia. Le lettere spedite un secolo fa al tempo della Grande Guerra, fra soldati e familiari, madri, mogli, e tramandate fino a noi, anche quando tradiscono una proprietà linguistica assai limitata, mettono in luce tuttavia lo sforzo di produrre una comunicazione densa di sostanza emotiva; di sollevare la scrittura alla dignità della testimonianza, del ricordo di sé, del monumento di famiglia. C’è da temere che non vi sia traccia, oggi, di una simile intenzione. Di qui a cento anni, che cosa resterà della produzione scritta “di massa”, del documento multiforme della nostra irripetibile quotidianità, se essa, diseducata e per di più priva di supporti duraturi, sarà consegnata in una rozza veste solamente all’effimero del mondo virtuale? È un  tema che dovremmo proporre a noi stessi con molta serietà.


Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 giugno 2015 

lunedì 18 maggio 2015

Il paradosso di Augusto


La nascita del principato secondo Canfora



Chi, accingendosi a leggere il più recente lavoro di Luciano Canfora, Augusto. Figlio di Dio (Laterza, 2015, pp. 567, euro 24) si attendesse quasi la ripresa e il completamento di uno studio sulla «rivoluzione romana» avviato sedici anni fa con il fortunato Giulio Cesare. Il dittatore democratico (Laterza, 1999), rischierebbe di restare deluso, o quanto meno spiazzato. E non perché la nuova ponderosa monografia sia estranea all’indagine che l’illustre filologo barese va conducendo sulle trasformazioni storiche del potere imperiale romano; nella quale indagine, anzi, essa si colloca come un esito significativo. Ma perché, mentre il libro sul “padre”, il Divo Giulio, si configurava come un vero e proprio saggio biografico di impianto narrativo, al contrario il libro sul “figlio”, Cesare Ottaviano Augusto, segue uno schema diverso e, in qualche modo, più congeniale al metodo del suo Autore: quello della «storia della tradizione». Esso è infatti una ricerca e una discussione di straordinaria perizia sulle fonti e sulle stratificazioni di notizie in esse depositate. Tanto da apparire, da questo punto di vista, quale cospicuo esemplare in una ideale collana di studi che prenda le mosse dal classico Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali (1934), maestro di Carlo Ferdinando Russo e, per suo tramite, del Nostro.
Per oltre metà del volume di cui stiamo parlando il vero protagonista non è nemmeno Augusto, ma è un altro: lo storico greco del II secolo d.C. Appiano di Alessandria. Scrittore poco noto al largo pubblico in Italia: non esistono edizioni economiche della sua opera, e la traduzione italiana più recente è quella pubblicata nel 2001 dalla costosa Utet, praticamente introvabile se non in biblioteca. Appiano è l’autore dei cinque libri delle Guerre civili che, nell’ambito di un progetto generale di storia romana da lui realizzato ma pervenutoci incompleto, costituiscono la più vasta trattazione storiografica antica su cento anni di conflitti intestini a partire dal tribunato dei Gracchi. Ben tre dei cinque libri appianei sono riservati agli eventi successivi alla morte di Cesare, svolgendo le vicende che condussero alla presa del potere da parte di Augusto. Su quali fonti si è documentato lo storico alessandrino, tanto da disporre, due secoli dopo i fatti, di informazioni di prima mano che non si trovano in altre ricostruzioni antiche? Appiano ha avuto «sul suo scrittoio», per dirla con Canfora, due testi fondamentali che sono poi andati perduti, ma di cui la ricerca filologica ha trovato le tracce. Il primo era la storia delle guerre civili composta da Seneca il Vecchio, padre del filosofo, secondo un’ottica repubblicana e anti-augustea: donde, in Appiano, la rappresentazione nient’affatto apologetica della condotta politica del Divi filius. L’altro testo erano i Commentarii autobiografici che lo stesso Augusto redasse seguendo il modello di Cesare che aveva scritto i resoconti sulla guerra gallica e sulla guerra civile. Solo che le memorie del padre adottivo si sono salvate, quelle del figlio si sono perse (non vanno confuse perciò con le Res Gestae, la sintesi tarda che Augusto affidò a solide epigrafi e che pertanto si è conservata fino a noi). L’autobiografia augustea era ovviamente difensiva e giustificatoria, ma conteneva spunti e dettagli che solo Augusto poteva conoscere, e che ricorrono in Appiano.

Canfora ricostruisce le fonti appianee e risale alle motivazioni che erano alla base di quegli scritti. Cosicché la conquista del potere da parte di Augusto è restituita al lettore in una dinamica complessa e contraddittoria, cioè nella dimensione dei fatti storici in divenire, il cui esito non è scontato, dalla “marcia su Roma” di Ottaviano alla guerra contro i «cesaricidi», al decennio turbolento del triumvirato, fino alla battaglia di Azio. Una guerra civile che diventa man mano anche una guerra della memoria e della interpretazione storica. Per cui Augusto invade il campo della cultura e della storiografia, tenta di condizionare gli storici, manipola gli intellettuali, e dispiega fra l’altro un’operazione strategica come la pubblicazione postuma (parziale e selettiva) degli archivi epistolari di Cicerone. Dai quali si evince che il grande oratore – la vittima più eminente delle proscrizioni triumvirali, che Ottaviano non volle o non poté salvare – aveva puntato le sue ultime carte politiche proprio sul giovane figlio adottivo di Cesare.
Uomo di notevolissima intelligenza, freddo calcolatore, cinico, capace di manovrare destramente fra mutevoli alleanze e inimicizie, l’Augusto raccontato da Canfora attraversa un’epoca di ferro e fuoco mantenendosi fedele soltanto a due principi ispiratori. Il primo: vendicare suo “padre”, punirne gli assassini; essere fino in fondo quello che la fortunata adozione gli ha permesso di essere: l’erede di un uomo che è diventato dio, il che è un vantaggio propagandistico non da poco, specie per tenere uniti a sé i soldati, vero fondamento del nuovo potere. La seconda ispirazione: non fare come suo “padre”; non atteggiarsi a monarca urtando la tradizione e la sensibilità romane, ma viceversa presentarsi come il restauratore della repubblica. Essendo, in questo, l’erede invece di Cicerone (l’uomo di cui aveva causato o permesso la morte); proprio Cicerone aveva teorizzato il principe in re publica, il moderatore che alla stregua di Pericle o di Scipione Emiliano salvaguardasse le istituzioni con la propria autorevolezza. È il modello che Augusto fece suo, ma con un “dettaglio” differente: in apparenza un moderatore, in realtà un monarca. Di qui un notevole paradosso storico: il castello propagandistico di Augusto non resse a lungo, non nell’ambito della élite intellettuale (nella generazione che precede Appiano, Tacito lo smontava pezzo per pezzo); il sistema politico da lui istituito, il principato, invece, continuava a reggere pur tra sussulti e crisi interne, e aveva dimostrato di non avere alternative pratiche nell’amministrazione di una enorme compagine come l’impero romano. Augusto aveva cessato di essere un modello virtuoso se mai lo era stato; ma la monarchia da lui fondata era la forma di governo che anche Appiano riconosceva come necessaria e funzionante.   

Pasquale Martino     


Questa recensione è stata pubblicata il 17 maggio 2015 su «Il Quotidiano Italiano»:



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