Che
cosa resterà dei nostri tweet?
«La Gazzetta del Mezzogiorno» ha dedicato un servizio alla classe di scuola primaria di
Noci (Bari) che ha sperimentato la corrispondenza con una classe di Pomezia (Roma)
mediante lettere scritte rigorosamente a mano, con tanto di busta e francobollo
comprati in tabaccheria.
Il quotidiano mi ha chiesto un commento.
Eccolo
(con qualche integrazione).
Un
paradosso dei nostri tempi è la cresciuta disponibilità di mezzi per
comunicare, non solo in viva voce ma anche per iscritto – i social network – a
fronte di un pauroso impoverimento della capacità di scrittura. Possiamo far sì che le nostre parole scritte
arrivino con inaudita rapidità in tutto il mondo, ma non sappiamo scrivere. Un
vero analfabetismo di ritorno, peggiore di quello antico e tradizionale, più
preoccupante della scarsa pratica scrittoria dei nostri nonni, perché non è
arretratezza ma ignoranza tutta moderna, indotta dalla rivoluzione tecnologica:
una ignoranza che scambia la brevità e le forme stenografiche (negli sms, nei
tweet e via dicendo) con la sgrammaticatura o, peggio, con l’irrilevanza della
grammatica; talché accenti, apostrofi, ortografia, coniugazioni diventano
dettagli insignificanti. Si gettano le basi di una società in cui la corretta
conoscenza della lingua sarà opzionale. Si sta dimenticando che – per
parafrasare don Milani – chi meglio padroneggia la lingua è più libero di chi
ha strumenti linguistici poveri.
Fa
bene dunque la scuola pubblica, quando si preoccupa di contrastare una tendenza
negativa che si impone specialmente ai giovani attraverso l’uso riduttivo e
distorto delle tecnologie. Occorre tenacia e continuità; occorrono molte ore di
scrittura corretta, raffinata da un percorso didattico e culturale, e inoltre
da una abitudine costante di lettura, per battere la concorrenza di un
pressapochismo travestito da modernità, capace ormai di invadere anche lo
spazio dello studio e della scuola.
Pure
usando il computer, com’è ovvio, si può imparare a esprimersi in modo
appropriato, disponendo per di più di correttori ed elenchi di sinonimi
compresi nel software. E tuttavia sarebbe un danno irreparabile dismettere la
scrittura a mano, l’antica tecnica che conserva in sé una parentela con l’arte
del disegno e della pittura: l’uso di carta e penna, quale tirocinio
indispensabile, esercizio della mente e della fantasia soprattutto per chi
apprende i rudimenti dello scrivere. Specie
se la pagina vergata con l’inchiostro non resta chiusa nel nostro cassetto, ma circola
fra le mani di uno o più lettori. Scrivere per sé e per gli altri – anche solo per
quei pochi che poseranno gli occhi su un foglietto da noi tracciato – , ma
scrivere meditando, correggendo, ritornando più volte sul proprio scritto, non è
solo «una misura di igiene» (Italo Svevo), ma è un modo essenziale per
affermare l’universalità della scrittura come civiltà, memoria, storia. Le
lettere spedite un secolo fa al tempo della Grande Guerra, fra soldati e
familiari, madri, mogli, e tramandate fino a noi, anche quando tradiscono una proprietà
linguistica assai limitata, mettono in luce tuttavia lo sforzo di produrre una
comunicazione densa di sostanza emotiva; di sollevare la scrittura alla dignità
della testimonianza, del ricordo di sé, del monumento di famiglia. C’è da
temere che non vi sia traccia, oggi, di una simile intenzione. Di qui a cento
anni, che cosa resterà della produzione scritta “di massa”, del documento multiforme
della nostra irripetibile quotidianità, se essa, diseducata e per di più priva
di supporti duraturi, sarà consegnata in una rozza veste solamente all’effimero
del mondo virtuale? È un tema che
dovremmo proporre a noi stessi con molta serietà.
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 giugno 2015