mercoledì 10 giugno 2015

Scrittura e scuola


Che cosa resterà dei nostri tweet?


«La Gazzetta del Mezzogiorno» ha dedicato un servizio alla classe di   scuola primaria di Noci (Bari) che ha sperimentato la corrispondenza con una classe di Pomezia (Roma) mediante lettere scritte rigorosamente a mano, con tanto di busta e francobollo comprati in tabaccheria. 
Il quotidiano mi ha chiesto un commento. 
Eccolo (con qualche integrazione).



Un paradosso dei nostri tempi è la cresciuta disponibilità di mezzi per comunicare, non solo in viva voce ma anche per iscritto – i social network – a fronte di un pauroso impoverimento della capacità di scrittura.  Possiamo far sì che le nostre parole scritte arrivino con inaudita rapidità in tutto il mondo, ma non sappiamo scrivere. Un vero analfabetismo di ritorno, peggiore di quello antico e tradizionale, più preoccupante della scarsa pratica scrittoria dei nostri nonni, perché non è arretratezza ma ignoranza tutta moderna, indotta dalla rivoluzione tecnologica: una ignoranza che scambia la brevità e le forme stenografiche (negli sms, nei tweet e via dicendo) con la sgrammaticatura o, peggio, con l’irrilevanza della grammatica; talché accenti, apostrofi, ortografia, coniugazioni diventano dettagli insignificanti. Si gettano le basi di una società in cui la corretta conoscenza della lingua sarà opzionale. Si sta dimenticando che – per parafrasare don Milani – chi meglio padroneggia la lingua è più libero di chi ha strumenti linguistici poveri.
Fa bene dunque la scuola pubblica, quando si preoccupa di contrastare una tendenza negativa che si impone specialmente ai giovani attraverso l’uso riduttivo e distorto delle tecnologie. Occorre tenacia e continuità; occorrono molte ore di scrittura corretta, raffinata da un percorso didattico e culturale, e inoltre da una abitudine costante di lettura, per battere la concorrenza di un pressapochismo travestito da modernità, capace ormai di invadere anche lo spazio dello studio e della scuola.
Pure usando il computer, com’è ovvio, si può imparare a esprimersi in modo appropriato, disponendo per di più di correttori ed elenchi di sinonimi compresi nel software. E tuttavia sarebbe un danno irreparabile dismettere la scrittura a mano, l’antica tecnica che conserva in sé una parentela con l’arte del disegno e della pittura: l’uso di carta e penna, quale tirocinio indispensabile, esercizio della mente e della fantasia soprattutto per chi apprende i rudimenti dello scrivere.  Specie se la pagina vergata con l’inchiostro non resta chiusa nel nostro cassetto, ma circola fra le mani di uno o più lettori. Scrivere per sé e per gli altri – anche solo per quei pochi che poseranno gli occhi su un foglietto da noi tracciato – , ma scrivere meditando, correggendo, ritornando più volte sul proprio scritto, non è solo «una misura di igiene» (Italo Svevo), ma è un modo essenziale per affermare l’universalità della scrittura come civiltà, memoria, storia. Le lettere spedite un secolo fa al tempo della Grande Guerra, fra soldati e familiari, madri, mogli, e tramandate fino a noi, anche quando tradiscono una proprietà linguistica assai limitata, mettono in luce tuttavia lo sforzo di produrre una comunicazione densa di sostanza emotiva; di sollevare la scrittura alla dignità della testimonianza, del ricordo di sé, del monumento di famiglia. C’è da temere che non vi sia traccia, oggi, di una simile intenzione. Di qui a cento anni, che cosa resterà della produzione scritta “di massa”, del documento multiforme della nostra irripetibile quotidianità, se essa, diseducata e per di più priva di supporti duraturi, sarà consegnata in una rozza veste solamente all’effimero del mondo virtuale? È un  tema che dovremmo proporre a noi stessi con molta serietà.


Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 giugno 2015