martedì 27 ottobre 2015

Appiano di Alessandria

I Gracchi. Storia di una lotta di classe
Le guerre civili I, 7-27

Il pregio piú considerevole dell’esposizione appianea consiste nello sguardo costantemente rivolto alla dimensione economico-sociale dei fatti. Ciò che in Plutarco si configura quasi come nota a margine, ragguaglio necessario sullo stato dell’agricoltura – quanto basta a spiegare la scelta che Tiberio Gracco compie per qualificare il proprio tribunato all’indomani di un infortunio politico da lui patito – diventa in Appiano il presupposto del capitolo sui Gracchi e perciò stesso dell’intera storia delle guerre civili. Dopo il nitido passo introduttivo (capitolo 7) il tema ritorna nel capitolo 18 dove si tratteggiano le questioni giuridico-fondiarie nate nell’attuazione della riforma agraria, e nel capitolo 27 dove si analizza il graduale superamento della legge graccana; tutto ciò, come effetto di azioni e reazioni di classi sociali in conflitto e delle loro rappresentanze politiche. La parabola dei figli di Cornelia è dominata dal contrasto fondamentale tra ploúsioi e pénetes, termini che ricorrono di continuo: ricchi e poveri, proprietari e nullatenenti. In questa lotta di classe fra grandi possessori di agro pubblico e piccoli contadini espropriati si gioca l’azione politica che svela la crisi della repubblica e la fa precipitare. Se allora per la prima volta dopo secoli fu versato sangue in una contesa intestina, ciò avvenne perché la nobiltà – per dirla con Machiavelli – era disposta a dare riconoscimenti alla plebe in termini di «onori», non di «roba» (Discorsi I, 37).
Fu specialmente Karl Marx, com’è noto, a elogiare il valore dell’opera appianea dal punto di vista del materialismo storico. In una lettera piuttosto famosa, indirizzata a Friedrich Engels, il filosofo di Treviri dichiarava di leggere Appiano in lingua originale ammirandone la propensione a rilevare le radici materiali degli eventi storici: proprio la caratteristica che lo faceva apparire «senz’anima», invece, allo storico accademico Friedrich Christoph Schlosser (lettera del 27 febbraio 1861: Marx -Engels, Opere, XLI, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 176). Marx riportò nel Capitale il brano sopra citato sull’economia agricola (si veda la nota 3 al testo, infra), che diventò un riferimento obbligato nella divulgazione storica marxista (lo si legge per esempio nel classico manuale di storia romana scritta da S. I. Kovaliov e nella Storia Universale dell’Accademia delle Scienze dell’Urss). Engels da parte sua ribadí la qualità rara dello scrittore alessandrino, unica fonte antica che faccia emergere con chiarezza il tema portante della proprietà fondiaria (Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 71).

Pasquale Martino

Dalla Introduzione a:  Appiano, I Gracchi. Storia di una lotta di classe, Academia.edu 2015

https://www.academia.edu/17336586/Appiano_di_Alessandria._I_Gracchi_storia_di_una_lotta_di_classe

giovedì 8 ottobre 2015

"Il Politecnico" di Vittorini

Quel soffio d'aria nuova nell’Italia liberata
70 anni del primo numero della rivista di cultura 


70 anni dalla Liberazione. Un momento storico terribile e generoso, in cui l’Italia uscita dalle macerie ripensò se stessa. È in questa chiave che andrebbe letta la vicenda emblematica del «Politecnico», il settimanale fondato da Elio Vittorini il cui n° 1 apparve il 29 settembre ’45. La rivista – spesso ricordata (ingiustamente) solo per la polemica con Togliatti – ebbe poco più di due anni di vita, meteora in un’epoca tumultuosa: nascita della repubblica, elezione della Costituente, infine la cacciata delle sinistre dal governo. Il 1945-46 fu un’età di riviste culturali, come il primo Novecento. A «Rinascita» uscita nel ’44 si affiancarono – per citare solo le principali – un’altra rivista di orientamento comunista, «Società», e tre di area azionista, «La Nuova Europa» di Salvatorelli, «Belfagor» di Luigi Russo e «Il Ponte» di Piero Calamandrei (le ultime due, di lunga e gloriosa vita). Ma la più dirompente fu «Il Politecnico».
Vittorini era uno degli intellettuali comunisti di maggiore rilievo: già noto come romanziere, traduttore, consulente editoriale, non aveva una formazione marxista – lo dichiarò lui stesso – e proveniva dal contesto della fronda fascista in cui s’erano formati parecchi giovani oppositori; nel ’45 pubblicò Uomini e no, il primo romanzo sulla Resistenza, composto “in tempo reale” alla fine del ‘44. Il nuovo settimanale da lui diretto, edito a Torino da Einaudi ma redatto a Milano, riprendeva il nome della rivista di Carlo Cattaneo, per affermare l’idea di una cultura integrale, umanistica e scientifica, legata alla società e alla vita reale. Aveva il formato di un quotidiano, con doppia colorazione, nera e rossa, grafica assai innovativa curata da Albe Steiner, largo uso della fotografia e, talora, del fumetto. La presentazione poneva in modo radicale il tema dalla débacle della cultura borghese europea di fronte alla tragedia della guerra nazista e alla distruzione di tante vite: «non vi è delitto commesso dal fascismo – scriveva il direttore – che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo»; eppure non lo aveva impedito. La «nuova cultura» doveva essere insieme ricerca, sperimentazione e divulgazione, nonché indagine sociale ed essa stessa forma di lotta. «Il Politecnico», che arrivò a raggiungere settantamila lettori, pubblicava ampie inchieste sulla Fiat e sulla Montecatini e corposi servizi sul Meridione – notevoli quelli sul bracciantato pugliese (curati per lo più dal fratello di Elio, Ugo Vittorini, che abitò in Puglia) e sulla Basilicata (affidati al lucano Alberto Iacoviello, futuro corrispondente de «l’Unità» e di «Repubblica»). Temi ricorrenti erano la critica del Vaticano e dei monopoli industriali – due punti su cui il settimanale scavalcava “a sinistra” la prudenza del Pci – e la battaglia per la riforma della scuola: qui vennero i contributi di Concetto Marchesi, della pedagogista Dina Bertoni Jovine e della segretaria di redazione, Luisa Succi (che scrisse anche sulla emancipazione femminile). Ai servizi internazionali (Egitto, Palestina, Indonesia, Argentina, India) si aggiungevano quelli sulle conquiste sociali in Urss ma anche in Usa (il sogno della grande alleanza antinazista non era ancora crollato). La parte del leone era senza dubbio riservata alle arti: letteratura, pittura, scultura, architettura, teatro, cinema. Nonostante il vizio di eclettismo enciclopedico che i dirigenti comunisti rimproverarono al «Politecnico», non si può sottovalutare la benefica boccata d’aria di una cultura antiaccademica che spaziava dall’avanguardia russa al surrealismo francese, dall’espressionismo tedesco alla narrativa americana, senza dimenticare i riferimenti a filosofie “eterodosse” come l’esistenzialismo. Cruciale fu il rapporto con Sartre, grazie al quale si realizzò uno “scambio” che sarebbe stato impensabile nel provincialismo del ventennio precedente (nonostante certe aperture dell’industria editoriale): il manifesto della rivista sartriana «Les Temps Modernes» fu pubblicato dal «Politecnico» mentre, contestualmente, il giornale francese riportava l’articolo di fondo di Vittorini. L’engagement di Sartre e Simone de Bouvoir era un modello di impegno per l’intellettuale militante italiano.
La disputa con Togliatti che contribuì al declino della rivista e alla sua chiusura nel dicembre ’47 (dopo la trasformazione in periodico e il cambio di formato) fu dovuta in parte al tradizionalismo retro della cultura letteraria prevalente ai vertici del Pci; a un “contenutismo” di tipo sovietico (diciamo per semplificare) sospettoso nei confronti degli sperimentalismi formali novecenteschi. D’altra parte Togliatti aveva ragione nel rivendicare lo spessore culturale della politica in quanto tale, che egli intendeva alla maniera di un Gramsci peraltro ancora sconosciuto; e invero l’operazione intellettuale più alta compiuta dal segretario del Pci fu proprio l’edizione degli scritti gramsciani a partire dal ’47, presso la stessa Einaudi («Il Politecnico» anticipò alcune lettere dal carcere). Vittorini negava di volere la supremazia della cultura sulla politica, ma ne sosteneva l’autonomia statutaria e il pluralismo di ricerca nel proprio ambito specifico. «Il diritto di parlare – scriveva inoltre rispondendo a Togliatti – non deriva agli uomini dal fatto di “possedere la verità”. Deriva piuttosto dal fatto che “si cerca la verità”». Un concetto che non sarebbe dispiaciuto al Gramsci dei Quaderni. Cultura militante, dunque, come parte intrinseca e non separata del movimento storico dei lavoratori e dei progressisti, ma cultura che si dà le proprie regole e i propri percorsi. Bisognerà attendere il ‘68 per integrare questa formulazione – già ricca di stimoli nel ’45-’47 – con la demistificazione della presunta neutralità del sapere, con la critica della propria funzione sociale da parte degli intellettuali.    
            
Pasquale Martino   
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 8 ottobre 2015