domenica 21 dicembre 2014

L’operaio che comprò un Gauguin


Una storia della «meglio gioventù»


Fra i disperanti episodi di decadenza di cui abbonda la cronaca, emerge ogni tanto, in solitudine, qualche storia italiana positiva, si direbbe perfino esemplare. Una notizia recente aggiorna il caso notato mesi fa dalla stampa: quello del pensionato che ha scoperto di avere in suo possesso due dipinti francesi, di Paul Guaguin e di Pierre Bonnard, di provenienza furtiva. La magistratura sentenzia oggi che egli è legittimo proprietario, avendo comprato le tele regolarmente, per di più dallo Stato; i precedenti detentori sono morti a quanto pare senza eredi. La vicenda però, se ci è consentito, bisognerebbe provarsi a ricostruirla in tutta la sua complessità e ricchezza: essa rappresenta a suo modo una pagina emblematica di “storia degli italiani” dell’ultimo mezzo secolo.  

Il protagonista è citato dalle cronache con il nome fittizio di Niccolò. Ha ragione l’interessato a temere gli inconvenienti della notorietà, ma stentiamo a credere che la curiosità giornalistica si sia fermata davanti a tale riserbo. Fosse sospettato di omicidio o di associazione mafiosa, l’identità la sapremmo da tempo. L’innocenza è anonima.
Negli anni ’60 Niccolò è un giovane di Siracusa che emigra a Torino per lavorare alla Fiat: un figlio del Sud fra i tanti, che dentro a un cambiamento epocale affronta una vicenda di sacrifici e discriminazioni, di speranza e di emancipazione. Sposato, agli inizi degli anni ’70 fa i turni di notte a Mirafiori, il che, unitamente alla qualifica tecnica acquisita, gli permette di arrotondare il salario fino a 200 mila lire mensili. La dignità del lavoratore significa anche e soprattutto appropriazione della cultura: Niccolò ha gusto estetico e gli piace nel tempo libero girare per mercatini e bancarelle, cercando manufatti artistici alla portata delle sue tasche. Frequenta anche la sala di vendite all’asta di oggetti smarriti presso la stazione di Porta Nuova, dove un giorno, nel 1975, lo sguardo gli cade su due dipinti: una natura morta con un cagnolino, e un ritratto di signora adagiata su una poltrona con lo sfondo di un giardino. Il banditore li definisce «spazzatura», ma lui se ne innamora immediatamente. Il prezzo base è di 60 mila lire: troppo; Niccolò aspetta che la cifra cali. Ciononostante, quando il valore è sceso a 40 mila, è costretto a giocare al rilancio, finché i quadri sono suoi per 45 mila lire: un quarto della paga. La moglie abbozza, in fondo anche a lei non dispiacciono.
Li mettono nel salotto di casa: quello che, secondo la leggenda metropolitana, i meridionali tengono sempre chiuso ermeticamente perché “è la stanza buona”. Niccolò invece ci entra, si stende sul divano quando rincasa all’alba, e ammira le tele. Esse appaiono in tutte le fotografie degli eventi familiari, nascite, ricorrenze e via dicendo. Quando Nicolò va in pensione la famiglia ritorna a Siracusa, dove i quadri vengono appesi in cucina. Un investigatore – si legge in una nota – ha ironizzato sul fatto, inopportunamente: la cucina, spazio fra i più accoglienti, non è immeritevole di ospitare opere d’arte.

Secondo capitolo della storia. La coppia ha figli e li manda all’università. «Anche l’operaio vuole il figlio dottore, pensi che ambiente ne può venir fuori», cantava Paolo Pietrangeli. La ragazza si laurea in scienze della comunicazione e si specializza come graphic designer; l’arte è proprio un pallino di famiglia: il ragazzo si iscrive al liceo artistico e poi ad architettura. È soprattutto lui a volerne sapere di più su quei dipinti che gli accarezzano la fantasia fin dalla prima infanzia. È convinto che siano di autore. Ne parla con un insegnante del liceo; convengono che la firma appena leggibile su uno di essi sia quella di Carlo Bonatto Minella, un pittore piemontese dell’800 abbastanza noto. Poi si capirà che non c’è scritto Bonatto, ma Bonnard. Il sospetto nasce quando il giovane compra da un remainder un libro su Bonnard e vi scopre un paesaggio molto simile. Si mette a fare ulteriori ricerche: anche il cagnolino sembra un tema già visto nelle tele di Gauguin. Siamo a oggi: padre e figlio si rivolgono a una soprintendenza, che risponde di non avere tempo da perdere. Dopo altre consultazioni, si recano dal nucleo dei carabinieri per la tutela del patrimonio artistico. Questi la raccontano un po’ diversamente: sarebbe stato il nucleo, avendo raccolto voci, a incominciare le indagini e ad arrivare fino al pensionato siracusano. (Se è vero dovremmo ammirare i carabinieri, che di propria iniziativa si sarebbero messi sulle tracce di un furto avvenuto in Inghilterra più di quarant’anni fa.)  

Si giunge così al terzo capitolo, in realtà un prologo. 1970: due ricchi coniugi inglesi, proprietari dei grandi magazzini Marks & Spencer, hanno una villa piena di opere d’arte. Vengono derubati da ignoti; le due tele di Gauguin e Bonnard, non si sa quando e perché, attraversano la Manica, quindi viaggiano sul treno Parigi-Torino dove per qualche intoppo vengono abbandonate e nel 1975 finiscono all’ufficio oggetti smarriti. Le due opere non figuravano in un elenco di beni trafugati, ma gli investigatori scoprono che all’epoca comparvero notizie sul «New York Times» e su un quotidiano di Singapore.
Non sappiamo che cosa faranno Niccolò e i suoi delle tele di enorme valore (comunque, riconosciute e tutelate). Una di esse è stata valutata 35 milioni e potrebbero decidere di venderla. Ci piace che intanto dichiarino di volerle mettere a disposizione del pubblico: «Le cose belle sono di tutti. E tutti devono vederle». Principalmente, siamo loro grati per averci restituito, con questa storia orgogliosa di lavoro e cultura, una fresca pagina della «meglio gioventù» degli anni ’70 e della generazione che le è figlia.

Pasquale Martino   
  
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 dicembre 2014


giovedì 27 novembre 2014

L'ultradestra europea


Neofascismi, nazionalismi, xenofobia
Il gigante Europa fa i conti a destra


Quando consideriamo il panorama politico dell’Europa – immaginando i volti propositivi che il «gigante economico» assumerà negli scenari mondiali – non dovremmo trascurare la presenza strutturata di una destra estrema che si pone oltre i conservatori di Juncker e Merkel e offre un mix ideologico capace di aver presa sugli strati popolari. Non ci riferiamo soltanto a forze euroscettiche e discretamente xenofobe come l’Ukip di Nigel Farage, vincitore delle recenti elezioni europee in Gran Bretagna (27,7%, primo partito), che ha costituito il gruppo parlamentare con il M5S italiano. Pensiamo soprattutto a una destra che ha radici neofasciste e neonaziste, o che dialoga con i neofascisti, li assimila, ne condivide i motivi ispiratori, dal nazionalismo all’antieuropeismo, alle teorie del complotto, alla xenofobia con esplicite venature razziste. Nel parlamento di Strasburgo siedono nove di tali partiti, senza contare gli altri che, non rappresentati nell’assise europea, hanno rilievo nei rispettivi paesi.
Si suole opportunamente distinguere fra l’estrema destra dell’Europa occidentale e quella dei paesi ex sovietici. La prima ha attuato un’operazione di restyling per prendere le distanze dal neofascismo storico pur inglobandone i temi e arruolandone i seguaci. In questo senso il capolavoro riuscito è quello del Front National di Marine Le Pen (24% alle europee, primo partito in Francia) che ha le radici fra i nostalgici del regime di Vichy e gli ex coloni d’Algeria, ma adesso si racconta come forza-guida di una lotta «dal basso contro l’alto», conquistando ampi consensi in tutte le classi sociali. Manovra simmetrica e inversa rispetto a quella della Lega Nord, che dopo essere stata alleata di governo dei post-fascisti (handicap non da poco, rispetto al curriculum di opposizione del Front National), oggi si riqualifica paladina dei territori contro l’“invasione”e converge nelle piazze con i mussoliniani dichiarati di CasaPound. L’ultradestra occidentale in crescita di consensi si è liberata da retaggi imbarazzanti quali l’antisemitismo – che resta tuttavia sullo sfondo e nel retropensiero di tanta parte della “base”, attiva nei social network – e inoltre approva il governo israeliano.

Neonazisti ucraini col ritratto di Stepan Bandera
Viceversa, l’estrema destra dell’Europa orientale non dissimula le nostalgie nazionalsocialiste. Il caso più recente riguarda la formazione ucraina Svoboda (Libertà) i cui militanti sono stati decisivi nella sommossa di Kiev che ha abbattuto il presidente filorusso. Comprimaria nel nuovo governo filo-occidentale con il vicepresidente e il ministro della Difesa, ridimensionata dal voto politico di un mese fa ma ancora in ballo nelle trattative per la costituenda compagine ministeriale, Svoboda dichiara di battersi contro la «mafia ebreo-moscovita» e onora come proprio eroe il collaborazionista Stepan Bandera che appoggiò i nazisti contro i russi. In generale, l’ultradestra est-europea – dalla Bulgaria alle repubbliche baltiche – celebra i vari «Quisling» che aiutarono i tedeschi (anche nello sterminio degli ebrei) come combattenti per l’indipendenza nazionale contro i sovietici. Per loro il pericolo attuale non è l’Europa dei banchieri, ma l’ingerenza della vicina Russia. Una parziale eccezione è costituita dall’Ungheria, dove lo Jobbik o Movimento per l’Ungheria migliore (15% alle europee, secondo partito del paese) pur essendo all’opposizione fiancheggia il premier di destra Orban nelle sue politiche autoritarie, antieuropeiste e di apertura verso Putin. La destra di Budapest non teme il nazionalismo russo che si proietta esclusivamente sui paesi slavi; anzi, sogna a sua volta la «Grande Ungheria» che dovrebbe includere le minoranze magiare di Romania, Serbia, Slovacchia. Già legato alla disciolta formazione paramilitare della Guardia Magiara, Jobbik dimentica il sostegno dato dalle Frecce uncinate ungheresi all’Olocausto nazista e chiede che invece siano gli ebrei magiari a scusarsi per le vittime della rivoluzione comunista di Bela Kun nel 1919, appoggiata dagli ebrei stessi.

Manifestazione di Jobbik in Ungheria
Ma ciò che accomuna tutta l’estrema destra europea, dalla Danimarca all’Austria, dalla Grecia alla Finlandia, è il richiamo a valori tradizionalisti declinati secondo una malintesa identità dell’Occidente cristiano; ed è soprattutto la visione apocalittica del fenomeno migratorio, l’ostilità contro stranieri e immigrati in quanto tali, in nome dell’integrità delle culture nazionali-locali e di una gerarchia dei bisogni sociali che dà la priorità ai nativi. Al razzismo biologico del XX secolo – bianchi contro neri, ariani contro semiti – è subentrato un razzismo etnico-culturale, che teme più d’ogni cosa il «multiculturalismo»: sinonimo odiato, un tempo, di marxismo ed ebraismo, equivalente oggi di integrazione, di tolleranza verso i Rom e specialmente verso gli immigrati di fede musulmana. L’islamofobia è il dato emergente – già in auge dopo l’11 settembre, rilanciato ora come reazione agli eccidi dell’Isis – tanto più preoccupante in quanto, se l’ultradestra ne è il portabandiera, l’opinione pubblica se ne mostra comunque largamente permeabile. Ma qui non c’entra la legittima critica all’islamismo politico come esperienza storicamente determinata. Ciò che si demonizza è la presunta “essenza” immutabile dell’Islam, per cui il musulmano è sempre un potenziale terrorista e uno che comunque non potrà mai integrarsi nella “nostra” civiltà; si cede al pregiudizio e si perde il valore del dialogo, della relazione come cambiamento reciproco. Si perde anche la fede umanistica nella solidarietà fra lavoratori, quantunque di diversissima condizione, e nella scuola, che possono trasformare gli esseri umani, avvicinarli al di là di nazionalità e religione. Nascono le cosiddette guerre fra poveri, quasi mai spontanee, innescate da agitatori politici che strumentalizzano il disagio sociale.

Pasquale Martino    
 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 novembre 2014   


L’articolo è accompagnato dall’agenda di manifestazioni ufficiali per il 37° anniversario dell’assassinio di Benedetto Petrone (28.11.2014) 

mercoledì 5 novembre 2014

Livio 2

I processi degli Scipioni
La lotta politica a Roma negli anni 187-184 a.C.


Con l’espressione «processi degli Scipioni» gli storici si riferiscono alla prolungata battaglia giudiziaria che fu scatenata contro Scipione l’Africano e suo fratello Lucio, e che, al di là degli specifici esiti processuali, provocò la caduta, o per lo meno il ridimensionamento, della potenza scipionica. I termini e i passaggi di questa vicenda non sono completamente chiari, né il racconto di Livio, che in proposito è il piú ampio e dettagliato, appiana tutti i punti controversi. Tuttavia si tratta di una delle pagine piú interessanti dell’Ab Urbe condita per l’obiettiva importanza dell’evento esaminato, per il respiro narrativo che ne rende accattivante la lettura, e infine per lo sguardo che apre sul metodo di lavoro di Livio.
Nella ricostruzione del Nostro, il fatto si svolge in due tempi. In un primo momento, è chiamato in causa Scipione l’Africano, nell’anno 187 a.C. Gli accusatori sono due tribuni della plebe, i Petillii (altre fonti fanno il nome di un singolo tribuno, Nevio); gli addebiti sembrano generici: l’imputato viene accusato di aver avuto rapporti troppo disinvolti con Antioco III di Siria e di avere intascato parte di un’ingente somma versata dal re allo Stato romano. È subito chiaro che questa responsabilità riguarda principalmente il fratello L. Scipione (l’Asiatico), il comandante che ha condotto la guerra contro Antioco; ma tutti sanno che l’Africano, luogotenente del fratello, era il vero capo delle operazioni. La natura politica di questo scontro è evidente: dietro i Petillii – spiegherà Livio (XXXVIII 54, 1-2) – c’è Marco Porcio Catone, l’avversario politico che già diciassette anni prima ha tentato di trascinare Scipione in giudizio. Catone dà voce a quella parte della classe dirigente che si oppone all’imperante egemonia del clan scipionico: nobilitatem et regnum in senatu Scipionum accusabant, «accusavano l’egemonia e il regime regio imposto dagli Scipioni in senato»: (ivi 54,6).
Scipione si presenta in giudizio il giorno fissato dai tribuni, ma non si lascia mettere sotto accusa; anzi, col suo imbattibile carisma, trascina con sé il popolo in una processione religiosa sul Campidoglio, interrompendo il processo (che, essendo «comiziale», si svolgeva davanti al popolo). Dopo questa effimera vittoria personale (che peraltro non annulla il procedimento), Scipione sdegnato abbandona Roma e si ritira nella sua villa di campagna a Literno. Nuovamente convocato dai tribuni, non si presenta; il fratello lo dice ammalato. Apertasi quindi la disputa sull’accoglimento o meno delle motivazioni addotte per giustificare la mancata comparizione, interviene in difesa delle ragioni di Scipione un altro tribuno della plebe, il giovane Tiberio Gracco, che diventerà genero dell’Africano
e padre dei fratelli Gracchi. Livio conclude questa prima parte riportando la morte di Scipione avvenuta nel volontario esilio: adirato con la sua ingrata città, egli rifiuta perfino di farsi seppellire a Roma.
Il secondo tempo della vicenda dei processi scipionici si apre dunque dopo la morte dell’Africano (184 a.C.). Stavolta è chiamato in causa il fratello Lucio, insieme ad altri personaggi che costituiscono una vera e propria associazione a delinquere, rea di peculato e concussione ai danni di Antioco e di altri monarchi orientali. Questa volta il rito giudiziario è piú complicato: gli avversari degli Scipioni fanno approvare dal senato l’istituzione di una commissione inquirente guidata da un pretore, Culleone, che, pur essendo stato amico personale del defunto Africano, manda sotto processo l’Asiatico e lo condanna. In questa parte Livio cita pure l’entità delle somme che gli Scipioni avrebbero percepito illecitamente (nel racconto parallelo di Polibio, frammentario, pare di capire che essi si sarebbero serviti della “tangente” versata da Antioco III per distribuire paghe supplementari ai soldati), e recupera un episodio famoso (lo si può leggere in piú fonti)
che ha come protagonista l’Africano, ma che lo storico ha omesso di citare a suo tempo, nel resoconto del suo processo: richiesto di presentare il rendiconto del denaro avuto personalmente dal re di Siria, Scipione si fa portare il registro dei conti ma lo straccia in pubblico gettandone via i pezzi.
Sempre in questa parte del suo racconto, Livio – che ha finora seguito la ricostruzione dei fatti proposta dall’annalista Valerio Anziate – dà conto dell’esistenza di altre versioni, fra le quali si districa con difficoltà. In particolare, la morte di Scipione potrebbe essere avvenuta a Roma, ed egli potrebbe essere stato sepolto con tutti gli altri Scipioni nel cimitero di famiglia, fuori Porta Capena.

Pasquale Martino

Da Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina, volume 2, D’Anna, Firenze, 2012, pp. 391-392

Le immagini del sepolcro degli Scipioni sono tratte dal sito 
http://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/roma_antica/monumenti/sepolcro_degli_scipioni

martedì 4 novembre 2014

Stieg Larsson

Contro il nero del Nord.
Il giornalista che scrisse romanzi



L’autore dell’acclamata trilogia di Millennium, pietra miliare del filone scandinavo che ha rinnovato il thriller letterario, non aveva smesso di esercitare il mestiere di giornalista. Coi suoi romanzi – dei quali non prevedeva lo strepitoso successo – voleva comunque assicurarsi «la pensione» (sono parole sue). Stieg Larsson non fece in tempo a diventare ricco grazie ai milioni di copie vendute. Il 9 novembre di dieci anni fa, a Stoccolma, salì di corsa fino al quinto piano del palazzo senza ascensore dove aveva sede la rivista per cui lavorava, «Expo», e subito si accasciò colpito mortalmente da un attacco cardiaco.
Il giallista cinquantenne aveva appena consegnato all’editore i manoscritti dei suoi tre romanzi. Inoltre aveva abbozzato un progetto per altri sette volumi di un ciclo complessivo di dieci, e sviluppato materiali per i volumi quarto e quinto. Un lascito promettente che, al di là delle controversie di eredità tuttora in corso, ha consentito all’editore svedese di affidare a un altro scrittore la stesura di un quarto romanzo, la cui uscita è preannunciata per l’estate 2015.
Molti lettori hanno ammirato l’innovativa protagonista delle storie di Larsson, la detective free lance e disadattata Lisbeth Salander: vittima della brutalità di un padre psicopatico, trattata dal sistema socio-educativo come un soggetto psichiatrico a rischio, è cresciuta sola e costretta a inventare le proprie autodifese quotidiane; spinosa, ribelle, apparentemente incapace di relazione e ripiegata su se stessa fino a manifestare una sintomatologia autistica, vestita da punk e tatuata, è in effetti una geniale investigatrice, una hacker provetta e una vendicatrice delle donne che subiscono violenza sessuale. Il tema è posto con impressionante vigore nel primo romanzo: Uomini che odiano le donne. Uscito nel 2005, esso è una discesa negli inferi della schiavitù sessuale, imposta soprattutto alle anonime prostitute immigrate dall’est, e del femminicidio seriale praticato da maniaci allievi del nazismo svedese d’anteguerra.
Un sottosuolo che il seguito della trilogia esplora nelle sue ramificazioni nascoste, dentro le viscere di una Svezia dall’apparenza ingannevolmente prospera, in realtà incrinata nelle sue certezze socialdemocratiche dopo l’oscuro omicidio del premier Olof Palme. Nuove povertà, immigrazione e, per converso, reati finanziari e corruzione, razzismo e neonazismo, criminalità diffusa e intrigo politico sono la materia dei romanzi di Larsson; i quali rivendicano d’altra parte la funzione critica del giornalismo d’inchiesta, delle piccole riviste indipendenti come «Millennium», che assomiglia moltissimo a «Expo» così come il giornalista Mikael Blonqvist legato a Lisbeth da una travagliata collaborazione è in qualche modo un alter ego di Stieg Larsson.
Marxista eterodosso, critico letterario, appassionato di fiction popolare (dal poliziesco al fumetto, dalla fantascienza a Pippi Calzelunghe, della quale l’eroina di Millennium è nelle intenzioni dell’autore una sorta di replica cresciuta e aggiornata), Larsson è arrivato alla sua grande invenzione romanzesca dopo una ventennale esperienza di giornalista militante. Le inchieste da lui condotte sui collegamenti internazionali e sulle implicazioni terroristiche dell’estrema destra neonazista hanno indotto il ministero della Giustizia svedese ad avvalersi della sua consulenza. Nel 1995 è stato fra i fondatori di «Expo», trimestrale dichiaratamente impegnato contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza. Ha scritto una quantità ingente di articoli e interventi per denunciare l’omofobia, la violenza sulle donne, il ritorno dell’antisemitismo, il revisionismo storico, l’insorgere della islamofobia, analizzando inoltre le proiezioni politiche e istituzionali della nuova destra populista nel contesto svedese. Piccola parte di questa produzione è accessibile in Italia grazie al volume La voce e la furia, pubblicato nel 2012 da Marsilio, l’editore italiano di Larsson. Vi si legge fra l’altro un passo premonitore del 1999: «Le autorità hanno la tendenza a liquidare i terroristi di estrema destra come “pazzi solitari”. […] Sembra esserci una resistenza intrinseca all’idea che i neonazisti parlino sul serio quando minacciano di distruggere la società democratica. La spiegazione è semplice: un “pazzo solitario” è meno preoccupante e più facile da spiegare dell’ipotesi che i neonazisti si dedichino al terrorismo organizzato internazionale». Anders Breivik, lo stragista di Oslo del 2011, prima di uccidere 77 persone fra cui 69 giovani del partito laburista, aveva espresso nel suo sito web opinioni largamente condivise da vari esponenti e gruppi politici in ogni parte di Europa, inclusa l’Italia. Un personaggio che ha concepito l’eccidio nell’ombra di un delirio assolutamente reale. Lo stesso  indagato da Stieg Larsson.

Pasquale Martino 

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 4 novembre 2014

Sullo stesso argomento:
L'"industria Millennium"
Stieg Larsson è vivo? Il nuovo Millennium non uccide il vecchio ma rischia di perdersi  

mercoledì 8 ottobre 2014

Raniero Panzieri

I giovani operai dei Quaderni Rossi
Il tempo del "Socrate socialista"

Ad agosto era morto Togliatti. Il 9 ottobre 1964 toccò a Raniero Panzieri. Il suo apporto innovativo alla cultura della sinistra sarebbe apparso in piena luce nel decennio seguente. 
A lui, ebreo romano, nato nel 1921, le leggi razziali avevano vietato di compiere studi universitari (frequentava lezioni in Vaticano, dove leggeva… i classici del marxismo!). Dopo la guerra poté laurearsi in filosofia e, in pari tempo, aderì al Partito socialista. Verrà descritto come l’“operaista”, apparentemente chiuso nel mondo delle fabbriche torinesi; invece ebbe la sua formazione politica nel Sud, in Puglia e in Sicilia, nelle lotte contadine: un’attiva partecipazione che gli procurò denunce e processi, ma  lo promosse ai vertici del Psi. Rodolfo Morandi, vicesegretario nazionale e capo organizzativo del partito, fa di Panzieri il suo braccio destro e lo avvia a diventare un dirigente. E qui va notata la qualità dei politici di sinistra dell’epoca – oggi inconcepibile – i quali erano prima di tutto intellettuali di altissima cultura e di livello superiore alla media dei cattedratici (si pensi proprio a Togliatti e a Morandi). Profondo conoscitore dei testi di Marx, che leggeva in lingua originale, negli anni ’50 Panzieri pubblicò la traduzione del  libro II del Capitale  cui collaborò la moglie Giuseppina Saija (figura a sua volta notevole di germanista, nonché traduttrice per Einaudi e per Utet).
A capo della sezione nazionale Stampa e Propaganda, poi della sezione Cultura, Panzieri avrebbe potuto succedere a Morandi quando questi morì nel 1955. Non fu così; tuttavia collaborò strettamente col segretario Pietro Nenni, che affiancò come condirettore (in realtà, direttore effettivo) della rivista di cultura «Mondo operaio».  Eppure – altro aspetto degno di nota – egli non era un funzionario di partito. Nel 1959 si trasferì a Torino per lavorare come redattore per Einaudi. Qui dedicò l’ultimo quinquennio di vita a tessere un nuovo progetto politico-culturale. Aveva ormai preso le distanze sia dai socialisti indirizzati verso l’accordo con la Dc, sia dai comunisti  attardati nei postumi dello stalinismo e distanti dalla concreta dinamica della lotta operaia.
Propugnava il ritorno a Marx: al Marx economista e sociologo, l’acuto indagatore dei meccanismi capitalistici (del quale oggi si riscopre l’attualità). Su questo punto, infatti, Panzieri misurava tutta l’arretratezza della sinistra. Fu tra i primi ad analizzare quello che venne chiamato il «neocapitalismo»:  la fase di sviluppo che, dopo la ricostruzione postbellica, interessava l’Europa e si manifestava nell’Italia del boom, del “benessere”, del consumo di automobili ed elettrodomestici.  Il che significava meccanizzazione del processo produttivo, modernizzazione degli impianti, tecnologia, organizzazione del lavoro, sapere incorporato nelle macchine; e significava espansione del modello capitalistico nell’agricoltura e nell’industria culturale; cosicché i contadini da un lato, gli intellettuali dall’altro, diventavano lavoratori dipendenti, proletari.  Ed era questo il vero centro di interesse di Panzieri: la nuova classe operaia, specie quella della grande industria, composta da giovani e meridionali immigrati. Egli seppe scommettere sulla propensione dei giovani operai a rivendicare i propri diritti a muso duro, senza timori reverenziali verso il padronato. E dopo il letargo degli anni ‘50 un nuovo ciclo di lotte gli dette ragione: fino alla rivolta di Piazza Statuto nel 1962, a Torino (seguita, nello stesso anno, dalla ribellione degli edili baresi). La rivista «Quaderni Rossi» (1961-66), da lui fondata, è insieme centro studi, sede di dibattito e soggetto politico informale, che si raccorda con gli operai attraverso lo strumento dell’inchiesta in fabbrica – un altro caposaldo della lezione panzieriana – e tenta di stimolare una dialettica tra le posizioni più aperte nei partiti e soprattutto nel sindacato.  È allora che la Fiom assume quel ruolo politico che tuttora la caratterizza sia pure in un contesto del tutto diverso. E nei primi anni ’70 i consigli di fabbrica furono i nuovi organismi che ridefinivano il ruolo del sindacato e lo spazio di autonomia dei lavoratori nel luogo di lavoro, il «potere operaio» (un'altra espressione di derivazione panzieriana). Più difficile era modificare i partiti, tant’è che l’eredità di Panzieri sarà accolta soprattutto dai gruppi della nuova sinistra post-68  (e non solo da quelli etichettati come operaisti); ma lascerà un’impronta nella sinistra socialista, fondatrice del Psiup, e nello stesso Pci (si pensi al debito di Asor Rosa e di Mario Tronti verso di lui). Fu profetico nel delineare la capacità del capitalismo di scomporre il fronte operaio disperdendo la produzione, parcellizzandola, creando rapporti di lavoro indiretti, individuali, precari, persino inscenando la presunta “fine della classe operaia”.
A mezzo secolo di distanza, appare stupefacente l’ampiezza dei suoi contatti e delle corrispondenze epistolari (da Giovanni Pirelli a Renato Solmi, da Calvino a Fortini a Vittorio Foa) e delle personalità intellettuali che devono non poco al suo magistero di pensiero e d’azione (da Goffredo Fofi a Edoarda Masi a Toni Negri, fino ai più fedeli eredi, Pino Ferraris e Vittorio Rieser, scomparsi entrambi di recente). Chi lo conobbe ne ricorda il tratto di simpatia e di cordialità dialogica, il fascino di un filosofo compagno di operai, di un «Socrate socialista» (la definizione è di Stefano Merli) che ha educato senza enfasi una generazione politica.  Licenziato da Einaudi nel 1963, isolato dalla sinistra maggioritaria per la sostanza eretica delle sue idee, Panzieri morì a soli 43 anni. La cerimonia funebre, a Torino, fu sobria, con pochi presenti. Ma quello che se ne andava era un maestro esemplare nella storia della sinistra italiana.

Pasquale Martino     

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 8 ottobre 2014

Fotografia in alto: Panzieri a Messina nel 1949 con la moglie Giuseppina Sajia (dal sito di Salvatore Lo Leggio).

lunedì 29 settembre 2014

Guicciardini

Un tacitiano a Firenze

Francesco Guicciardini perviene alla storiografia a partire dalla memoria delle vicende di famiglia, di ceto e di governo cittadino. Come gli storici classici, come Tacito che è il suo modello (l’unico storico citato nei Ricordi, e per due volte), Guicciardini è un alto esponente del ceto politico che pratica l’attività storiografica quale necessaria riflessione sulla politica e quasi come prosecuzione della stessa. Un’altra analogia che lo accosta agli storici pragmatici dell’antichità: egli produce l’opera più impegnativa e complessa, la Storia d’Italia, nel momento dell’otium, del ritiro – non precisamente volontario – dalla vita attiva, negli ultimi suoi anni. Erede di una delle famiglie dell’élite fiorentina, di quelle che da generazioni hanno familiarità con l’amministrazione, il governo, il potere, naturalmente formato a una visione a un tempo comunale e oligarchica della politica, Guicciardini incomincia con le Ricordanze una rassegna degli antenati che hanno ricoperto cariche pubbliche: risale fino al 1300, ma trova il primo momento rilevante nel tumulto dei Ciompi, che non a caso sarà anche il punto di partenza delle Storie fiorentine. E la successiva Storia d’Italia in tanto allarga il punto di vista all’intera penisola – per la prima volta in un’opera storica – in quanto allo stesso autore è toccata la ventura di svolgere un’azione di governo a più ampio raggio, sotto i due papi medicei.
Come la storiografia pragmatica dell’età classica, anche quella di Guicciardini è esposizione degli eventi politici diplomatici militari, delle res gestae che hanno come protagoniste specialmente le élites dominanti e le grandi personalità. Appartiene al genere classico delle historiae, cioè alla narrazione dei tempi contemporanei, degli eventi di cui l’autore è stato testimone oculare o ha avuto notizia di prima mano dalla generazione precedente. E Tacito piace a Guicciardini perché è lo storico che analizza nel profondo la psicologia del potere, le personalità dei regnanti e dei capi. 

Pasquale Martino


giovedì 25 settembre 2014

Bimillenario augusteo 2

Analogie della Storia.
Augusto e la fine del partito popolare



La Storia si ripete. Anche se il variare incessante della sostanza e della forma rende difficile decifrare le analogie. Per esempio, è successo più d’una volta che un movimento politico progressista di portata storica, fallendo il suo obiettivo di cambiamento, abbia generato alla lunga un inedito sistema di conservazione. La Sinistra – si direbbe oggi, semplificando – che finisce col realizzare il compito della Destra. E ciò è avvenuto per una coincidenza tra l’insuccesso dei soggetti chiamati a interpretare quella tendenza storica e la capacità degli avversari di «cambiare tutto per non cambiare niente». Un modello esemplare del fenomeno suddetto si rintraccia nella storia antica, quel vasto complesso di esperienze che grandi scrittori come Tucidide e Machiavelli considerarono una preziosa lezione di politica. 
A metà del II secolo a.C. fu lanciata una sfida ambiziosa che aveva come posta in gioco il potere sociale e istituzionale nello Stato più importante del Mediterraneo: Roma repubblicana. Il popolo contro il senato, i nullatenenti contro i grandi proprietari terrieri.  Sotto la guida dei fratelli Gracchi, il “partito popolare” – non un partito nel senso moderno, bensì un agglomerato di interessi, di famiglie, di gruppi sociali – si dette un programma di riforme dalla sostanza rivoluzionaria: porre un limite all’eccesso della proprietà privata, distribuire la terra ai proletari, estendere la cittadinanza romana alle popolazioni italiche, scuotere l’onnipotenza del ceto senatorio promuovendo sul piano politico il ceto cosiddetto equestre. La reazione della classe dominante a questa strategia riformatrice fu improntata per lungo tempo alla violenza più estrema; si sviluppò in tal modo la «guerra civile dei cento anni» (Lucien Jerphagnon) che dopo alterne vicende di conflitti sanguinosi e di instabili compromessi sfociò nella fine della repubblica e nella instaurazione del principato: un regime dispotico e “leaderistico” che tuttavia venne descritto come una repubblica rinnovata.
Nel corso del tempo il movimento rivoluzionario – quello dei Gracchi e dei tribuni della plebe, di Saturnino, di Sertorio, del controverso Gaio Mario – aveva finito con l’estinguersi: ridotto a non più che una dignitosa memoria storica, di slogan e di simboli, consegnò la sua eredità a singole figure di spicco che riuscirono ad assemblare un partito personale. La più eminente di queste personalità fu Giulio Cesare, il quale peraltro conservava nelle proprie radici familiari un legame con la tradizione popolare, essendo nipote di Mario. E sapeva ancora parlare per vecchi slogan («liberare il popolo dal dominio di una fazione», scrisse nel memoriale sulla guerra civile). Ma Cesare appariva ancora troppo amico della plebe (ingrediente essenziale del “cesarismo”, come lo sarà del “bonapartismo”) e troppo eversivo agli occhi degli oltranzisti conservatori, cosicché fu rovesciato da una congiura.

Tiberio e Gaio Gracco
I tempi non erano ancora maturi, ma presto lo divennero. Fu la volta del giovanissimo Ottaviano, il futuro Augusto, che nella sua storia personale non aveva nulla tranne l’essere stato adottato in maniera alquanto fortunosa da Cesare. Non era una personalità brillante come il predecessore, non possedeva carisma né capacità oratorie o guerresche.  Era dotato però di realismo, abilità di manovra e cinismo, e inoltre ebbe fin dall’inizio ottimi collaboratori (artefici delle sue vittorie militari, tessitori di alleanze politiche, suggeritori di un’accorta politica culturale). Vinse alleandosi con i conservatori come Cicerone e con i fedeli cesariani come Marco Antonio, poi sbarazzandosi degli uni e degli altri.  Vinse appropriandosi di valori reazionari come il patriarcato, la restaurazione religiosa, la netta separazione fra liberi e schiavi, e garantendo gli interessi di latifondisti e senatori di cui, in pari tempo, riduceva il potere politico. Fu agevolato dal desiderio di pace, dalla stanchezza e dalla rassegnazione che dilagavano in tutta la società. E le classi possidenti capirono la convenienza di affidarsi a un tale monstrum istituzionale presidiato dalle legioni. I nuovi proletari, i soldati, ricevettero pezzi di terra grazie a spaventosi espropri che colpirono i contadini. Paradossalmente, la legittimazione di Augusto poggiava sul conferimento a vita dei poteri dei tribuni della plebe, che erano stati a suo tempo la magistratura popolare per eccellenza. I pochi vecchi seguaci di Mario ancora viventi, e i cesariani di mezza età, si illudevano che con quel principe il loro partito fosse arrivato finalmente al potere dopo tanto soffrire. Ovviamente non era così. Se il senato era ormai addomesticato, anche i comizi e le assemblee popolari si avviavano a diventare una finzione. Un movimento epocale aveva cessato di vivere: la lotta per la libertà e per l’uguaglianza sarebbe rinata prima o poi in forme diverse, avrebbe percorso strade sconosciute in altre regioni del mondo. 

Pasquale Martino
2014

mercoledì 24 settembre 2014

Bimillenario augusteo

La “squadra”di Augusto.
Una carriera illegale nel mito della Pace


Francobollo per il bimillenario, 2014
77 anni fa, il 23 settembre 1937, il fascismo celebrava il bimillenario della nascita di Augusto dispiegando un imponente programma di manifestazioni, che includeva la «Mostra augustea della romanità» allestita a Roma nel Palazzo delle Esposizioni. Dichiarato era l’intento di affermare l’identità ideale fra due regimi e due capi: due «rivoluzioni», che avevano imposto ordine e pace e rafforzato l’Impero romano nel mondo (il fascismo “imperiale” chiudeva allora vittoriosamente la guerra d’Etiopia).
Del tutto diverso, com’è ovvio, è il senso delle celebrazioni nel bimillenario della morte dell’imperatore, inaugurate il 19 agosto di quest’anno. Oggi il filo conduttore è la valorizzazione per il grande pubblico del lascito veramente cospicuo dell’età augustea in ambito letterario, artistico e architettonico.  Il programma – avviato lo scorso anno con un’importante mostra presso le Scuderie del Quirinale – prevede un itinerario espositivo in rete con altre città del mondo (Keys of Rome) e l’apertura dei luoghi augustei, adeguatamente risistemati: dall’Ara Pacis al Mausoleo di Augusto, alla passeggiata sul Palatino nell’area della domus dell’imperatore e di sua moglie Livia. In alcuni luoghi si tengono letture di poeti d’età augustea anche in lingua originale.  
E tuttavia, la ricorrenza sarà certamente un’occasione per riesaminare il dibattito storico-critico sul personaggio e sull’epoca di cui fu espressione. Ricordando che la nascita di Gaio Ottavio (così si chiamava il futuro principe) era avvenuta il 23 settembre del 63 a.C., l’anno del consolato di Cicerone, il biografo Svetonio  puntualizzava addirittura che in quel  preciso momento il senato stava discutendo sulla congiura di Catilina: come a dire che proprio al culmine drammatico della crisi repubblicana nasceva colui che ne sarebbe stato il risolutore. Quasi negli stessi anni di Svetonio, ma con maggiore penetrazione, Tacito osservava che Augusto aveva avuto la ventura di ricevere un corpo politico-sociale profondamente debilitato dalle guerre civili (cuncta discordiis civilibus fessa), e di aver imposto su di esso il proprio imperio, solo nominalmente in qualità di «primo fra pari» (nomine principis sub imperium accepit); insomma, di essere stato un monarca dietro la finzione repubblicana. In fondo, gli  era capitato di arrivare al momento giusto, quando i tempi erano maturi per una soluzione autocratica, e inoltre di aver potuto fare tesoro, con le debite correzioni, del precedente esperimento dittatoriale tentato da Giulio Cesare ma stroncato dai lealisti repubblicani. Nel frattempo, quasi in extremis, il giovanissimo Ottavio era stato adottato dal dittatore, assumendo il nome di Giulio Cesare Ottaviano (sarà appellato Augustus, «venerando», dopo aver ottenuto il potere supremo). Aveva 19 anni quando le Idi di Marzo del 44 a.C. lo indussero a scendere in un agone politico da cui, ormai, si usciva vincitori o morti. 

Ricostruzione ideale del Foro di Augusto
Che la sua carriera fosse nata nella più palese illegalità era talmente innegabile che egli stesso nella propria autobiografia (le Res gestae Divi Augusti) dovette rivendicare come “costituzionale” il gesto eversivo con cui si presentò al senato: l’arruolamento di bande armate, un vero e proprio esercito privato. Poi venne la «marcia su Roma» delle legioni al suo comando dopo la morte violenta di ambo in consoli, la sua elezione al consolato all’età di 20 anni (secondo tradizione ne occorrevano 42) e via in crescendo. La vittoria finale, la pax Augusta, fu la rappresentazione plastica del nuovo equilibrio raggiunto fra le classi proprietarie dell’Italia e delle province (soprattutto occidentali), con l’inclusione dei soldati, specie dei veterani, e la cooptazione della plebe residente nell’Urbe, addomesticata da un ampio programma di politiche sociali. Chi abitava a Roma poteva ben percepire il «potere delle immagini» (Paul Zanker) aggirandosi nei nuovi spazi pubblici, dal completato Foro Giulio al Foro di Augusto, abbelliti di colonnati, fregi e statue. Poteva vedere l’Urbe  trasformarsi man mano da città di mattoni in città di marmo (di tale metamorfosi Augusto soleva vantarsi, racconta Svetonio).  

Ritratto di Livia Drusilla
Ma questo processo era sostanzialmente corale, frutto della mobilitazioni di quelle parti che uscivano in qualche modo vincenti da cento anni di guerre civili. Qui funzionò la capacità di Augusto di associare progressivamente al suo progetto gruppi, clan, forze intellettuali, e gettare ponti anche verso i circoli di opposizione. In ciò fu coadiuvato da un’ottima «squadra» (come si direbbe oggi) che sopperì alle carenze del leader, privo dei tratti di genialità di un Cesare. Agrippa fu il vero autore dei successi militari di Ottaviano, ma sviluppò anche una propria operosa attività di costruttore, architetto e urbanista, estendendo la rete degli acquedotti e rimodellando l’area del Campo Marzio dove sorse il Pantheon. E in questo periodo un ingegnere statale, Vitruvio, scrive il primo trattato De architectura. Mecenate, ottimo politico-tecnico e amministratore, fu artefice della politica culturale augustea – almeno di una parte di essa – accaparrandosi alcuni fra i più brillanti talenti poetici del momento, Virgilio, Orazio, Properzio. Fiorirono scuole di retorica e d’altri saperi; scuole di giuristi si attrezzarono a dibattere i fondamenti del nuovo diritto imperiale. Anche il teatro nelle suoi diversi generi – specie quelli non letterari – conobbe una notevole fortuna popolare e furono eretti a Roma altri due teatri in pietra oltre a quello di Pompeo che venne restaurato. Opere di pace, pagate al prezzo di una riduzione di libertà. Una tregua accettata dalle parti, che resse finché il principe visse. Intanto ai confini dell’impero i confronti armati continuavano con alterni esiti. Morto Augusto (il 19 agosto del 14 d.C.), tutte le questioni si riaprirono ma le forme dell’agire politico erano ormai mutate irreversibilmente.

Pasquale Martino    
   
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 settembre 2014, con lievi modifiche.

mercoledì 20 agosto 2014

Togliatti

Il comunista padre della democrazia
A cinquanta anni dalla morte

Un ricordo personale. Quando il 21 agosto 1964 mio nonno, vecchio socialista e, dopo il 1947, saragattiano, apprese della morte di Togliatti – mi fu raccontato – si tolse il berretto (che soleva portare in casa anche d’estate) per rendere omaggio a un «grand’uomo». Come tale dobbiamo ricordare cinquant’anni dopo colui che fu uno dei protagonisti assoluti nella redazione della carta costituzionale, un fondatore della democrazia italiana.  
Ovviamente, Palmiro Togliatti era anche un uomo di parte. Un leader di partito riconosciuto da una massa popolare che non era tutto il popolo italiano ma era pur sempre una vasta minoranza – quel popolo comunista che il giorno dei funerali dette vita, a Roma, alla più imponente manifestazione di massa mai vista fino a quel momento in Italia. Come chiunque abbia attraversato con dedizione l’arduo terreno della politica, egli ha compiuto scelte difficili e controverse, dovendo sacrificare obiettivi secondari – pur nobili e giusti – al fine principale che si prefiggeva, accettando compromessi e mettendo nel conto arretramenti e sconfitte.

Intensa e insieme durissima fu la sua formazione politico-culturale, nella Torino operaia prima della Grande Guerra e dopo, nell’Italia dei fermenti rivoluzionari e della controrivoluzione fascista. Per poco non fu ucciso dagli squadristi. Condivise con Gramsci la guida del Pci ma fu in disaccordo con lui quando il dirigente sardo criticò la conduzione staliniana della lotta all’interno del partito bolscevico. Attento a misurare i rapporti di forza e la possibilità realistica di ogni mossa politica, Togliatti era convinto che il Pci non potesse sopravvivere alla reazione fascista senza il pieno sostegno russo; ma che occorresse anche preservare quel gruppo dirigente dalla repressione stalinista. La storiografia recente che scandaglia i rapporti fra Gramsci prigioniero e Togliatti fuoriuscito a Mosca non sembra aggiungere nulla di sostanziale a quanto già noto: cioè che Gramsci condannava la linea settaria dell’Internazionale e che i suoi rapporti col partito – non escluso Togliatti – s’erano fortemente inaspriti. E tuttavia i concetti che il grande pensatore veniva elaborando in carcere – l’analisi del fascismo come «rivoluzione passiva» e la proposta di una costituente antifascista – appartenevano allo stesso retroterra culturale dei temi che Togliatti avrebbe svolto nel tempo: il «regime reazionario di massa», il contributo alla politica dei fronti popolari antifascisti, e infine la centralità del processo costituente.


Togliatti con Nilde Iotti
Proprio negli anni della Resistenza, al rientro in Italia, Togliatti dispiega la profondità della sua visione politica. Accantonando la pregiudiziale antimonarchica favorisce la nascita di un governo con la presenza dei partiti, necessaria sponda istituzionale della guerra partigiana che vede i comunisti nelle prime file. L’unità delle forze antifasciste, pur nella sua obiettiva difficoltà, è il filo conduttore della strategia togliattiana, in quanto è la sola base possibile di una «democrazia progressiva» che dia legittimità ai comunisti e apra loro lo spazio per ampliare i diritti sociali. Togliatti è stato criticato da sinistra (e all’interno dello stesso Pci) per aver privilegiato i rapporti fra partiti, per un certo gradualismo che metteva in ombra l’urgenza rivoluzionaria. Era solo realismo. Era forse anche la speranza che la grande coalizione antinazista mondiale non si infrangesse e, pur nella spartizione delle sfere di influenza fra Angloamericani e Urss, consentisse una presenza di sinistra nel governo della nuova Italia. In questo spirito, nonostante le avvisaglie della guerra fredda, si compì quell’evento storico irripetibile che fu l’Assemblea costituente. Nello stesso spirito, dopo l’esclusione dal governo e l’attentato del 1948 alla propria vita, il  leader del Pci fece appello ai lavoratori perché non spingessero la veemente protesta fino a un’avventura insurrezionale che avrebbe avuto un esito catastrofico.

Suo è il merito di aver pubblicato (sebbene non integralmente) l’epistolario e gli scritti carcerari di Gramsci, che esercitarono influenza duratura. Il limite maggiore fu di averli presentati come un’opera organica, un sistema di pensiero in sé concluso, laddove essi erano un laboratorio, un work in progress aperto e problematico. Ma l’assunzione ambiziosa di un patrimonio culturale da parte di decine di migliaia di proletari giustificava forse i rimaneggiamenti e le semplificazioni.
Vi sono passaggi discussi dell’azione di Togliatti in quegli anni. L’amnistia per i fascisti da lui promulgata quale ministro della Giustizia, perfettamente spiegabile nell’ottica della ricostruzione e riconciliazione, fu attuata e gestita dalla magistratura e dalla burocrazia in maniera da assicurare la continuità dell’apparato statale fascista. Il voto a favore dell’art. 7 della Costituzione che accolse i Patti Lateranensi, dividendo il Pci da socialisti e azionisti, rispondeva al comprensibile intento di non accettare la provocazione di una guerra religiosa la cui vittima designata erano i comunisti, come si vide poco dopo quando arrivò la scomunica di Pio XII. Fu saggio non scendere su questo terreno, ma il timore di contrastare la destra cattolica rimase una costante del Pci anche dopo il Concilio Ecumenico.

Nell’ultimo decennio di vita Togliatti non colse tutte le implicazioni del neocapitalismo e delle nuove soggettività sociali. Appoggiò tuttavia la rivolta del luglio ’60 contro il governo Tambroni. Sempre cauto nel prendere le distanze dall’Urss, lo fece abbastanza nettamente nel memoriale di Yalta scritto alla vigilia della morte. Egli restava però intimamente persuaso che, nonostante le contraddizioni e gli episodi tragici come l’invasione dell’Ungheria, il mondo sovietico costituisse il necessario contesto di equilibrio internazionale e di riferimento ideale per un tentativo di avanzata democratica e socialista in Italia, che avrebbe avuto peraltro caratteri del tutto diversi e autonomi dall’esperienza russa. 

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 agosto 2014


domenica 17 agosto 2014

Giacinto Gimma

L’abate che inventò la storia della letteratura


Ritratto giovanile di Gimma



















Giacinto Gimma (1668-1735) è uno degli intellettuali di maggiore rilievo nella storia di Bari; forse il più importante, se si considerano sia la pioneristica impresa di scrivere la prima storia della letteratura italiana, sia le intense relazioni con i più influenti circoli intellettuali di tutta la penisola, la presenza attiva nel rinnovamento culturale che si pone a cavallo fra la Nuova Scienza galileiana e l’Illuminismo.
E pensare che era di origini sociali modeste, essendo figlio di un calzolaio. Ma chi intuì il suo ingegno lo indusse a frequentare il locale seminario e poi il collegio gesuitico, unici luoghi, per lo più, di formazione ed emancipazione culturale.  Fu avviato dunque alla carriera sacerdotale: «abate» indicava all’epoca una condizione ecclesiastica a prescindere dal grado, dalla funzione e dal reddito; erano così designati soprattutto gli studiosi e i letterati. Abati erano, fra gli altri, il poeta Metastasio e l’economista Ferdinando Galiani. «La sola figura di ecclesiastico – ha scritto lo storico della scienza Ugo Baldini – compatibile con un ruolo del tipo accennato [di chierici innovativi sul piano filosofico e scientifico] fu quella dell’abate, una cui storia sociale sarebbe di alto interesse, costituente un tramite tra clero e società civile, in quello spazio mondano del dibattito che avendo come sfondo costante le accademie va dalla corte secentesca al salotto settecentesco».

Prima di ricevere l’ordinazione sacerdotale Gimma si trasferisce a Napoli per studiare diritto all’Università. Ma qui imbocca ormai la strada dell’erudizione enciclopedica, segnata da spiccati interessi scientifici, dalla passione per la matematica, la fisica, l’astronomia. Comporrà anche un trattato di «fisica sotterranea» o mineralogia. Nell’epoca di Gimma – l’età della «crisi della coscienza europea» (Paul Hazard) – si passa quasi impetuosamente dall’obbedienza dogmatica al pensiero critico. E il Regno di Napoli è una punta di diamante di tale evoluzione. Nella città partenopea vive il genio di Giambattista Vico; vi muove i primi passi la corrosiva critica storica di Pietro Giannone, perseguitato esponente dell’anticurialismo. Si celebrano gli ultimi processi a carico di membri della disciolta accademia degli Investiganti, sospettati di ateismo. Questo sodalizio accademico era stato influenzato dal pensiero del calabrese Tommaso Cornelio, che, seguace della filosofia naturalista di Bernardino Telesio, aveva introdotto nella cultura meridionale il razionalismo di Cartesio e l’atomismo di Gassendi con le inclinazioni al libertinismo filosofico. Influenze e contatti ben documentati anche nello studioso barese. Il quale però, prudentemente come Vico, distingue e concilia verità di fede (sebbene razionalmente insostenibile) e verità di ragione filologicamente provata.    
Gimma si muove con energia nel mondo delle accademie: associazioni culturali che, sparse sul territorio italiano, costituiscono una fitta rete di relazioni intellettuali configurando quella «repubblica delle lettere» vagheggiata da Ludovico Antonio Muratori, quasi un embrione di Stato nazionale composto dai soli letterati. È membro autorevole di numerosi sodalizi accademici, fra cui ricordiamo quello dei Pigri a Bari (città in cui un volumetto di Pasquale Sorrenti edito nel 1965 registra l’esistenza di dieci accademie, mentre in tutta la Puglia erano una settantina), nonché l’accademia più famosa e potente, l’Arcadia con sede centrale a Roma (della quale l’abate fu «procustode» pugliese con il nome arcadico di Liredo Messoleo) e soprattutto l’accademia degli Spensierati di Rossano Calabro, da lui diretta e riformata col titolo di accademia degli Incuriosi: un nome antifrastico  come quello del cenacolo barese e di tanti altri. Fecero parte degli Incuriosi il Muratori (col quale Gimma fu in corrispondenza epistolare), il futuro papa Benedetto XIII (il gravinese Vincenzo Maria Orsini) e la poetessa Maria Selvaggia Borghini, allieva a Pisa di Alessandro Marchetti, scienziato e traduttore del De rerum natura, il poema atomista di Lucrezio.

L’abate barese sa inoltre destreggiarsi con un nuovo strumento culturale: il giornale; pubblica infatti corrispondenze sul periodico veneziano «La Galleria di Minerva» e progetta una rivista dell’accademia rossanese. Rientrato a Bari, è nominato canonico della cattedrale ma in seguito rinuncia alla carica per eludere i controlli dell’arcivescovato sulla sua attività intellettuale.
Nella città natale compone l’opera più nota: l'Idea della storia dell'Italia letterata (stampata a Napoli in due volumi nel 1723). La concezione del ponderoso lavoro è doppiamente nuova: per la prima volta appare una storia letteraria estesa a tutta la penisola; in secondo luogo, l’attività delle lettere non vi abbraccia solo la poesia o la prosa narrativa, ma ogni testo scritto, inclusi i trattati storici e scientifici. Ampio spazio vi trovano la Nuova Scienza, Galilei, il metodo sperimentale, nonché la storia generale della cultura e delle istituzioni culturali: scuole, accademie, biblioteche, stamperie e case editrici. Il disegno storico di Gimma – che apre la strada alla similare e più fortunata storia della letteratura scritta mezzo secolo dopo dal gesuita bergamasco Girolamo Tiraboschi – intende affermare la continuità e il primato della cultura italiana, polemizzando in maniera programmatica e quasi ossessiva con i denigratori francesi. Il suo punto di riferimento però, diversamente dalla storiografia romantica e da De Sanctis, non è l’unità linguistica, bensì quella geografico-culturale: che parte dagli Etruschi, dalla Magna Grecia e dai Latini. Ciò non toglie che la storia di Gimma sia stata interpretata come un’avvisaglia del Risorgimento: per celebrare i 150 anni dell’Unità nazionale (2011) l’editore Cacucci ne ha pubblicato un’ampia silloge a cura di A. Iurilli e F. Tateo.     

Pasquale Martino 

«La Gazzetta del Mezzogiorno» 17 agosto 2014  
(serie «Ritratti e radici» dedicata a personaggi della storia di Bari)