sabato 12 luglio 2014

Scuola e riforma

Tutta l'ingiustizia che resta fra i banchi
L'illusione della riforma a costo zero


La Scuola di Barbiana

«La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde». A distanza di quasi mezzo secolo, l’aforisma di don Milani è ancora pertinente. È vero che negli anni che seguirono Lettera a una professoressa (1967) la scuola pubblica ridusse le diseguaglianze; poté farlo grazie a riforme sia pure disorganiche volute da chi credeva all’aspra critica di Barbiana,  nonché grazie all’impegno e alla sensibilità democratica di un paio di generazioni di docenti. Tempo pieno, scuola dell’infanzia, educazione degli adulti, sostegno al diritto allo studio, lotta alla dispersione e all’evasione scolastica, inserimento dei disabili, accoglienza degli immigrati, sono state le innovazioni che hanno modificato l’originaria natura classista della vecchia scuola quale organo destinato alla mera selezione e alla riproduzione delle gerarchie sociali.  
Ma è altrettanto vero che siamo ancora lontani da qualsiasi soddisfacente realizzazione del diritto allo studio prescritto dalla Costituzione; se ne accorge chi non distoglie gli occhi da una società sempre più impoverita, lo sa bene chi opera “sul campo”: le scuole delle periferie urbane, gli uffici scolastici, gli assessorati comunali, la magistratura minorile. Chiunque si proponga di cambiare in meglio il sistema scolastico dovrebbe mettere al primo posto il rafforzamento delle azioni che mirano a includere, a “non perdere ragazzi”; in particolare, dovrebbe avere a cuore il potenziamento della fascia da 0 a 6 anni (asilo nido e scuola d’infanzia): un servizio di livello qualitativo alto, offerto però, tuttora, a una minoranza di bambini. E resta d’altronde la necessità di prolungare l’obbligo scolastico.
Tutto ciò è impossibile senza risorse finanziarie; invece sembra ottenere consensi la strana (ma non nuova) idea delle “riforme a costo zero”, che si possano finanziare attuando risparmi all’interno degli attuali stanziamenti, già poco dignitosi e assottigliati dai tagli dell’ultimo ventennio. Soltanto in un ambito si profila un aumento delle risorse: quello dell’edilizia scolastica. Si parla invero, per lo più, dello sblocco del patto di stabilità per progetti già avviati dai comuni. Non si dimentichi però che si tratta di tutt’altro capitolo di spesa, cioè di investimenti in conto capitale, sempre graditi perché, al pari di un ponte o di un’autostrada, danno “lavoro alle imprese”. I giganteschi sperperi di denaro nei lavori pubblici (che trapelano periodicamente dalle inchieste sulle grandi opere) non scandalizzano più di tanto; la spesa corrente è invece dipinta come  il covo diabolico degli sprechi.  In proposito, due concetti vanno per la maggiore: abbreviare il corso di studi e allungare l’orario di lavoro dei docenti a parità di retribuzione. La prima idea trova sostegno nel presupposto indimostrato che cinque anni nelle scuole superiori siano troppi, e si avvantaggia di una sorta di mitologia della velocità, nonché del sottinteso che a sbrigarsela in quattro anni possano essere i più dotati. Motivazioni non dissimili suffragarono dieci anni fa gli “anticipi” della scuola d’infanzia (un modo per sopperire alla carenza di asili nido), che trascinavano dietro di sé l’anticipo anche nella scuola primaria. 

Scuola d'infanzia a Reggio Emilia (dal sito di Lo stupore del conoscere)
La seconda idea si alimenta della convinzione diffusa che gli insegnanti lavorino poco e che in fondo, per lo stesso stipendio, potrebbero anche degnarsi di fare un sforzo in più. Un convincimento che nasce da scarsa riflessione: si generalizza erroneamente l’esistenza di docenti inadeguati; invece, la scuola statale funziona soprattutto perché nella pluralità del gruppo docenti di ciascuna classe gli insegnanti capaci sopperiscono alla manchevolezza di altri. I modi per gratificare la bravura e scoraggiare l’inoperosità non possono essere né il premio salariale deciso dai presidi, o legato a certe prestazioni organizzative (questi incentivi già ci sono, ma molti ottimi docenti non svolgono tali mansioni), né tanto meno l’imposizione di svolgere dentro la scuola operazioni pomeridiane come la correzione dei compiti o la preparazione delle lezioni (in quali spazi riservati? in quali biblioteche aggiornate, con quali strumenti?). Tenere aperte le scuole fino a sera – cioè, generalizzare il tempo pieno (già messo recentemente a dura prova) – se non è demagogia significa personale ulteriore, mense, servizi e costi aggiuntivi. Fermo restando che aumenti contrattuali di base sono dovuti all’intera categoria dei lavoratori della scuola, l’incentivazione della qualità non dovrebbe dipendere dal numero di ore, ma da un complesso di fattori: per esempio, la disponibilità dei docenti più bravi a ruotare fra le scuole dopo aver compiuto un ciclo didattico, a condividere la loro esperienza, a portarla in territori difficili.   

Pasquale Martino 
  

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 luglio 2014