Quel genocidio rom divorato dai silenzi
«Prima vennero a prendere gli zingari, ma io non
dissi niente, perché rubacchiavano»: il celebre incipit, variante dell’aforisma attribuito al teologo Martin
Niemöller, descrive adeguatamente la condizione storica di rom e sinti, tipico
oggetto di pregiudizi e quasi cavia sperimentale di campagne persecutorie. Fino
ad arrivare alla più grave e più grande violenza da loro subita: il genocidio
nazista; quello che in lingua romanì è chiamato Porrajmos, «il divoramento». Dobbiamo ricordarcene, quando le
cronache ripropongono i rom come paradigma di una diversità che non piace e di
un’integrazione ritenuta impossibile. Eppure questo è l’unico popolo che non ha
mai fatto guerra a nessuno e non ha mai avuto un esercito, tanto che Fabrizio De
Andrè e Moni Ovadia hanno immaginato che gli fosse conferito il premio Nobel
per la pace.
Furono i rom i primi a essere internati in un lager
tedesco, nel 1936 – a Marzahn, periferia di Berlino – anche se non si trattava ancora
di sterminio. Fra le vittime del nazismo gli zingari sono gli unici, con gli
ebrei, la cui soppressione sia stata motivata da discriminazione razziale. I nazionalsocialisti
incominciarono a definirli asociali, criminali congeniti, tarati da un «istinto
di nomadismo» (Wandertrieb); pretesti simili avevano già causato ai rom angherie e vessazioni. Poi
la pseudo-scienza nazista si applicò a individuare nella irregolarità degli
zingari la matrice di una «razza degenerata». Il fastidioso dettaglio
dell’origine di rom e sinti (provenienti dall’India del Nord, e quindi, secondo
le stesse teorie razziste, “ariani”!) veniva soppiantato dalla “mescolanza”
irreversibile che avrebbe imbastardito i nomadi gitani nei loro spostamenti.
Idee che attecchiranno anche fra i teorici italiani della «difesa della razza».
In Germania, il
carattere razziale della persecuzione è sancito nel 1938 da un decreto del capo
della polizia Himmler; nel 1941 gli zingari vengono equiparati giuridicamente agli
ebrei. Un’équipe di antropologi,
medici, psicologi si mette all’opera, facendo capo all’«Ufficio centrale
per la lotta alla piaga zingara», al fine di “studiare” i rom segregati, classificarli,
imporre loro esperimenti genetici e interventi di sterilizzazione: un genocidio
differito nel tempo. Alcuni riuscirono a emigrare, qualcuno si rifugiò in
America.
Lo
scoppio della guerra nel 1939 determina il salto di qualità nella strategia
dello sterminio. La Polonia occupata è il territorio in cui vengono convogliati
gli zingari tedeschi oltre agli ebrei. Treblinka, Chelmno, Belzec, Sobibor,
Maidanek diventano la destinazione finale di entrambe le “razze inferiori”
mandate a morire. La tragica sorte degli zingari si compie anche nei lager di
Germania e Austria, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Ravensbrück, Bergen Belsen,
e a Theresienstadt in Cecoslovacchia. Erano contrassegnati anch’essi da un
triangolo di stoffa: talvolta quello nero degli “asociali” (ma con l’iniziale Z
di Zigeuner), talvolta quello marrone
a loro riservato. È documentata la
deportazione e morte per gas di almeno duecentomila rom e sinti europei. Nel
contempo l’invasione dell’Urss spalanca alla Germania hitleriana lo “spazio
vitale” dove consumare interminabili massacri di popolazioni slave; si ritiene
che in questa ecatombe, per mano di unità operative di assassini chiamate Einsatzgruppen,
sia perita circa una metà degli zingari sul numero totale del Porrajmos: cosicché questo si avvicina,
secondo il calcolo più diffuso, a mezzo milione su un popolo che contava da 1,5
a 2,5 milioni di individui in Europa.
Si sa qualcosa in più su Auschwitz, la fabbrica
della morte per eccellenza. Concentrati nel campo B2e o Zigeunerlager di Birkenau, i rom erano sottoposti a lavoro forzato
e a esperimenti medici ma, a differenza degli ebrei, restavano uniti in gruppi
familiari e non erano periodicamente selezionati per il gas. I tedeschi
decisero la liquidazione del campo nel maggio 1944, ma una rivolta disperata
degli zingari li dissuase dal tentativo; un fatto più unico che raro nella
storia dell’Olocausto. Ci riprovarono con successo nella notte del 1° agosto
’44, simulando un viaggio di trasferimento e distribuendo cibo agli internati;
ciononostante, incontrarono resistenza e impiegarono molto tempo nel condurre
alla morte i 4.000 prigionieri. Il 27 gennaio 1945, quando i sovietici
liberarono Auschwitz, i rom superstiti erano quattro. «Tutti morti», Samudaripen: un altro termine romanì, agghiacciante,
per indicare il Porrajmos.
Norimberga e il processo Eichmann sfiorarono appena
il tema dell’“altra” Shoah. Gli zingari non furono mai risarciti, perché – si
diceva – erano stati nei lager come criminali e non per la razza, e inoltre non
avevano uno Stato o un organismo nazionale cui indirizzare il risarcimento. I
capi dell’ufficio anti-zingari furono blandamente processati, assolti per
insufficienza di prove e reintegrati nella pubblica amministrazione. Risultò difficile
anche ricostruire la memoria: condizionati da quella riluttanza dei
sopravvissuti a raccontare, di cui ha parlato Primo Levi, i rom erano adusi inoltre
a una tradizione orale che faceva raramente ricorso alla scrittura. Nel 1980 la
Germania riconobbe finalmente il carattere razzista dello sterminio degli
zingari. La prima celebrazione della memoria del Porrajmos avvenne nel 1994
negli Stati Uniti. Un memoriale dell’olocausto zingaro è stato eretto nel 2013
a Berlino di fronte al Bundestag, vicino a quello della Shoah; vi sono incise
fra l’altro parole dell’artista rom-italiano Santino Spinelli.
Pasquale
Martino
Immagini: le prime due riproducono foto segnaletiche tedesche di una donna e una bambina rom, la terza raffigura uomini rom internati a Dachau.
I Lager in Italia
I Lager in Italia
Anche il fascismo concentrò i rom in numerosi campi
durante la guerra – a Boiano (Campobasso), Agnone (Isernia), Tossicia (Teramo),
Gonars (Udine) e altrove – e inoltre in Sardegna e nelle Tremiti, già colonia
di confino per oppositori, omosessuali e libici. In alcuni comuni sono state
poste targhe commemorative. Gli zingari furono liberati dopo l’8 settembre, dopodiché
molti furono arrestati nella zona della Rsi e mandati nei lager tedeschi. Nei
registri risultano mille rom internati provenienti dall’Italia. Parecchi rom e
sinti parteciparono alla guerra di liberazione, militarono fra i partigiani e
caddero in combattimento. Il contribuito zingaro alla Resistenza antinazista è
documentato in tutti i paesi d’Europa.
Il portale www.porrajmos.it ospita un museo virtuale con una raccolta
di documenti e testimonianze.
Riguardo al Porrajmos, una storia emblematica è
quella di Aliah Halilovic. Rom bosniaco, era bambino quando i
tedeschi occuparono i Balcani; sfuggì fortunosamente alla deportazione e allo
sterminio che gli portò via parte della famiglia. Il nonno morì ad Auschwitz.
Nel 1967 Aliah emigrò in Italia e con due fratelli lavorò come operaio per la
Fiat; dopo sei mesi fu però licenziato in quanto immigrato irregolare.
Trasferitosi a Roma, fece il violinista di strada riscuotendo apprezzamenti e
simpatie. Attivamente impegnato nella memoria dell’olocausto, partecipò a varie
manifestazioni della comunità ebraica. Morì il 13 gennaio 1995 nel rogo del
campo di via Rapolla a Quarto Miglio.
P.M.