venerdì 23 gennaio 2015

Porrajmos

Quel genocidio rom divorato dai silenzi


«Prima vennero a prendere gli zingari, ma io non dissi niente, perché rubacchiavano»: il celebre incipit, variante dell’aforisma attribuito al teologo Martin Niemöller, descrive adeguatamente la condizione storica di rom e sinti, tipico oggetto di pregiudizi e quasi cavia sperimentale di campagne persecutorie. Fino ad arrivare alla più grave e più grande violenza da loro subita: il genocidio nazista; quello che in lingua romanì è chiamato Porrajmos, «il divoramento». Dobbiamo ricordarcene, quando le cronache ripropongono i rom come paradigma di una diversità che non piace e di un’integrazione ritenuta impossibile. Eppure questo è l’unico popolo che non ha mai fatto guerra a nessuno e non ha mai avuto un esercito, tanto che Fabrizio De Andrè e Moni Ovadia hanno immaginato che gli fosse conferito il premio Nobel per la pace.

Furono i rom i primi a essere internati in un lager tedesco, nel 1936 – a Marzahn, periferia di Berlino – anche se non si trattava ancora di sterminio. Fra le vittime del nazismo gli zingari sono gli unici, con gli ebrei, la cui soppressione sia stata motivata da discriminazione razziale. I nazionalsocialisti incominciarono a definirli asociali, criminali congeniti, tarati da un «istinto di nomadismo» (Wandertrieb); pretesti simili avevano già causato ai rom angherie e vessazioni. Poi la pseudo-scienza nazista si applicò a individuare nella irregolarità degli zingari la matrice di una «razza degenerata». Il fastidioso dettaglio dell’origine di rom e sinti (provenienti dall’India del Nord, e quindi, secondo le stesse teorie razziste, “ariani”!) veniva soppiantato dalla “mescolanza” irreversibile che avrebbe imbastardito i nomadi gitani nei loro spostamenti. Idee che attecchiranno anche fra i teorici italiani della «difesa della razza». In Germania, il carattere razziale della persecuzione è sancito nel 1938 da un decreto del capo della polizia Himmler; nel 1941 gli zingari vengono equiparati giuridicamente agli ebrei. Un’équipe di antropologi, medici, psicologi si mette all’opera, facendo capo all’«Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara», al fine di “studiare” i rom segregati, classificarli, imporre loro esperimenti genetici e interventi di sterilizzazione: un genocidio differito nel tempo. Alcuni riuscirono a emigrare, qualcuno si rifugiò in America.

Lo scoppio della guerra nel 1939 determina il salto di qualità nella strategia dello sterminio. La Polonia occupata è il territorio in cui vengono convogliati gli zingari tedeschi oltre agli ebrei. Treblinka, Chelmno, Belzec, Sobibor, Maidanek diventano la destinazione finale di entrambe le “razze inferiori” mandate a morire. La tragica sorte degli zingari si compie anche nei lager di Germania e Austria, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Ravensbrück, Bergen Belsen, e a Theresienstadt in Cecoslovacchia. Erano contrassegnati anch’essi da un triangolo di stoffa: talvolta quello nero degli “asociali” (ma con l’iniziale Z di Zigeuner), talvolta quello marrone a loro riservato. È documentata la deportazione e morte per gas di almeno duecentomila rom e sinti europei. Nel contempo l’invasione dell’Urss spalanca alla Germania hitleriana lo “spazio vitale” dove consumare interminabili massacri di popolazioni slave; si ritiene che in questa ecatombe, per mano di unità operative di assassini chiamate Einsatzgruppen, sia perita circa una metà degli zingari sul numero totale del Porrajmos: cosicché questo si avvicina, secondo il calcolo più diffuso, a mezzo milione su un popolo che contava da 1,5 a 2,5 milioni di individui in Europa.
Si sa qualcosa in più su Auschwitz, la fabbrica della morte per eccellenza. Concentrati nel campo B2e o Zigeunerlager di Birkenau, i rom erano sottoposti a lavoro forzato e a esperimenti medici ma, a differenza degli ebrei, restavano uniti in gruppi familiari e non erano periodicamente selezionati per il gas. I tedeschi decisero la liquidazione del campo nel maggio 1944, ma una rivolta disperata degli zingari li dissuase dal tentativo; un fatto più unico che raro nella storia dell’Olocausto. Ci riprovarono con successo nella notte del 1° agosto ’44, simulando un viaggio di trasferimento e distribuendo cibo agli internati; ciononostante, incontrarono resistenza e impiegarono molto tempo nel condurre alla morte i 4.000 prigionieri. Il 27 gennaio 1945, quando i sovietici liberarono Auschwitz, i rom superstiti erano quattro. «Tutti morti», Samudaripen: un altro termine romanì, agghiacciante, per indicare il Porrajmos.

Norimberga e il processo Eichmann sfiorarono appena il tema dell’“altra” Shoah. Gli zingari non furono mai risarciti, perché – si diceva – erano stati nei lager come criminali e non per la razza, e inoltre non avevano uno Stato o un organismo nazionale cui indirizzare il risarcimento. I capi dell’ufficio anti-zingari furono blandamente processati, assolti per insufficienza di prove e reintegrati nella pubblica amministrazione. Risultò difficile anche ricostruire la memoria: condizionati da quella riluttanza dei sopravvissuti a raccontare, di cui ha parlato Primo Levi, i rom erano adusi inoltre a una tradizione orale che faceva raramente ricorso alla scrittura. Nel 1980 la Germania riconobbe finalmente il carattere razzista dello sterminio degli zingari. La prima celebrazione della memoria del Porrajmos avvenne nel 1994 negli Stati Uniti. Un memoriale dell’olocausto zingaro è stato eretto nel 2013 a Berlino di fronte al Bundestag, vicino a quello della Shoah; vi sono incise fra l’altro parole dell’artista rom-italiano Santino Spinelli.

                                                                                                                    Pasquale Martino    

Immagini: le prime due riproducono foto segnaletiche tedesche di una donna e una bambina rom, la terza raffigura uomini rom internati a Dachau.

I Lager in Italia

Anche il fascismo concentrò i rom in numerosi campi durante la guerra – a Boiano (Campobasso), Agnone (Isernia), Tossicia (Teramo), Gonars (Udine) e altrove – e inoltre in Sardegna e nelle Tremiti, già colonia di confino per oppositori, omosessuali e libici. In alcuni comuni sono state poste targhe commemorative. Gli zingari furono liberati dopo l’8 settembre, dopodiché molti furono arrestati nella zona della Rsi e mandati nei lager tedeschi. Nei registri risultano mille rom internati provenienti dall’Italia. Parecchi rom e sinti parteciparono alla guerra di liberazione, militarono fra i partigiani e caddero in combattimento. Il contribuito zingaro alla Resistenza antinazista è documentato in tutti i paesi d’Europa.
Il portale www.porrajmos.it ospita un museo virtuale con una raccolta di documenti e testimonianze.

Riguardo al Porrajmos, una storia emblematica è quella di Aliah Halilovic. Rom bosniaco, era bambino quando i tedeschi occuparono i Balcani; sfuggì fortunosamente alla deportazione e allo sterminio che gli portò via parte della famiglia. Il nonno morì ad Auschwitz. Nel 1967 Aliah emigrò in Italia e con due fratelli lavorò come operaio per la Fiat; dopo sei mesi fu però licenziato in quanto immigrato irregolare. Trasferitosi a Roma, fece il violinista di strada riscuotendo apprezzamenti e simpatie. Attivamente impegnato nella memoria dell’olocausto, partecipò a varie manifestazioni della comunità ebraica. Morì il 13 gennaio 1995 nel rogo del campo di via Rapolla a Quarto Miglio.

P.M.

 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 gennaio 2015 

leggi anche:
Sinti e rom nella Resistenza

domenica 11 gennaio 2015

Il padre di Handala


Naji Al-Ali, 
il vignettista che fu ucciso a Londra


Ventotto anni fa un altro vignettista satirico era stato ucciso a colpi di pistola in una capitale europea. Era il disegnatore palestinese Naji Al-Ali.
Gli spararono in faccia con il silenziatore il 22 luglio 1987, per strada, mentre usciva dall’ufficio londinese del giornale indipendente kuwaitiano «al-Qabas»  (critico verso il governo del Kuwait), su cui pubblicava le sue vignette. Ricoverato in ospedale, morì il 29 agosto. 

Naji Al-Ali era nato nel 1938 in Palestina, fra Tiberiade e Nazareth, da una modesta famiglia contadina. L’esodo palestinese durante la guerra arabo-israeliana del 1948 lo portò a rifugiarsi con i familiari in Libano. Visse in campi profughi (fra cui quello di Shatila, destinato al massacro del 1982) frequentando le scuole e poi l’accademia libanese di belle arti. Scoperto e valorizzato dallo scrittore palestinese Ghassan Kanafani (che verrà ucciso anche lui, a Beirut nel 1971), Naji incominciò a lavorare come vignettista in Libano e in Kuwait, diventando ben presto il più noto e premiato cartoonist arabo. Sgradito al governo kuwaitiano, si trasferì infine a Londra pochi anni prima di morire.
Pubblicò tre libri e creò oltre 40.000 disegni satirici, che avevano come bersaglio l’occupazione israeliana in tutta la sua brutalità, ma anche i regimi arabi, accusati di non essere democratici e di non sostenere realmente la causa palestinese, e la stessa dirigenza dell’Olp cui imputava opportunismo e corruzione. I lettori del mondo arabo davano estrema importanza alle tavole di Al-Ali per formarsi un’opinione sulle vicende in corso: è il caso di dire che una sua vignetta equivaleva a un vero e proprio editoriale.  
Il personaggio più famoso creato da Al-Ali è quello di Handala: un bambino palestinese di dieci anni (quanti ne aveva l’autore all’epoca della Naqba, «la catastrofe» della Palestina), disegnato sempre di spalle e con le mani incrociate dietro la schiena, osservatore innocente e risentito, talora partecipe, degli eventi drammatici del suo tempo. «Handala – affermava Al-Ali – è nato all’età di dieci anni e avrà sempre dieci anni. A quell’età ho lasciato la mia patria. Quando farà ritorno Handala avrà ancora dieci anni, e solo allora incomincerà a crescere».

Naji aveva ricevuto una quantità di minacce anonime, e un autorevole avvertimento – pare – da una personalità dell’Olp. La sua fu veramente una morte annunciata.
Le indagini sull’omicidio costituiscono di per sé una singolare spy story. Scotland Yard arrivò a mettere le mani su uno studente palestinese di 27 anni, Ismail Suwan, nella cui abitazione furono ritrovate armi appartenute al (o ai) killer. L’uomo protestò la propria innocenza e, per difendersi, rivelò di essere un agente del Mossad infiltrato nella rappresentanza londinese dell’Olp. Intervenne allora l’MI5 che chiese al Mossad di aiutare gli investigatori britannici a sbrogliare l’intrigo. Il servizio segreto israeliano rifiutò. Per tutta risposta, la premier Margaret Thatcher espulse due diplomatici dell’ambasciata di Israele e chiuse l’ufficio del Mossad a Londra.
L’affaire Al-Ali fu la goccia che fece traboccare il vaso nei rapporti fra Gran Bretagna e Israele, e fra i rispettivi servizi segreti, assai tesi da quando si era scoperto che il Mossad falsificava passaporti britannici, e soprattutto da quando, nel 1986, il tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu residente in Inghilterra, accusato di aver rivelato segreti militari, era stato attirato con l’inganno a Roma, rapito dal Mossad e imprigionato in Israele*.
Al-Ali era un personaggio scomodo per molti: per il governo israeliano, per alcuni governi arabi, per gli stessi capi dell’Olp. Non aveva scorta e non aveva nessuna vera protezione. È evidente tuttavia che il Mossad era implicato profondamente nella morte di Al-Ali. Ammesso che non fossero stati gli israeliani in prima persona a pianificare l’omicidio, essi sapevano almeno molte cose in proposito, attraverso il doppio agente che aveva contattato gli attentatori. Ma si erano ben guardati dal preavvertire gli inglesi, sia perché la soppressione del vignettista faceva comodo anche e soprattutto a loro, sia perché non intendevano far saltare la copertura dell’infiltrato. E resta sempre la possibilità realistica che Suwan abbia operato come agente provocatore manovrando altri palestinesi, convinti magari di fare un favore a Yasser Arafat.   
Gli assassini di Naji Al-Ali non furono mai individuati. Ma almeno la Thatcher, the bitch, aveva osato cacciare il Mossad dall’Inghilterra. Altri tempi, decisamente. (I rapporti furono normalizzati sotto Tony Blair.)

Nel dicembre 1987, pochi mesi dopo la morte del disegnatore, scoppiò in Cisgiordania la prima Intifada, che avrebbe portato agli accordi di Oslo.
Naji Al-Ali, il vignettista laico e irriverente, e il suo bambino Handala – conosciuti e apprezzati in tutto il mondo – sono tuttora popolari e amati fra i palestinesi e nei paesi arabi.

Pasquale Martino

11 gennaio 2015

* su queste vicende si vedano: