martedì 18 marzo 2014

Cremuzio Cordo

I libri colpevoli
Tacito, Annales IV, 34-35
Cremutius Cordus

J. W. Godward, Bellezza classica
Alla metà del principato di Tiberio (14-37 d.C.), nel 25, si colloca l’emblematica vicenda di Aulo Cremuzio Cordo: il processo per lesa maestà, il suicidio dell’imputato che previene la condanna, il rogo dei libri di storia da lui scritti; una tragedia che sarà solo in parte alleviata dalla riabilitazione e ripubblicazione postuma dell’opera. Piuttosto che soffermarsi in modo ampio sulla vicenda, i cui particolari possiamo comunque arricchire grazie ad altre fonti, Tacito decide di far precedere il racconto da un solenne proemio interno (capitoli 32-33) in cui s’interroga sul significato della storiografia quando l’argomento di studio è un’epoca di tirannide (non a caso, anche Cremuzio Cordo era uno scrittore di storia), e sceglie poi di incentrare il racconto stesso quasi soltanto sulla oratio recta che riproduce il discorso di Cordo davanti ai senatori.
L’orazione esordisce col rilevare come l’accusa non concerna un atto criminale, ma le parole di un libro. Un reato d’opinione, si direbbe oggi: precisamente, le lodi tributate a Bruto e Cassio, campioni della libertas repubblicana in nome della quale uccisero Cesare. Il discorso prosegue considerando come in un recente passato sia stato consentito ad altri scrittori e storici, Livio e Pollione, Cicerone e Messalla Corvino, di esprimere aperta simpatia per gli avversari del principato – Pompeo, Bruto, Cassio, Catone e altri – o di criticare gli iniziatori del nuovo regime, Cesare e Augusto (come fecero poeti quali Catullo e Bibaculo) senza subire ritorsioni da parte di quegli uomini potentissimi. E ciò non soltanto per spirito di tolleranza, ma anche e soprattutto per intelligenza politica: reprimere il dissenso, infatti – osserva Tacito per bocca di Cremuzio – , ha l’effetto di ingigantirlo, convalidarne le ragioni, legittimarlo con l’aura del martirio.
La considerazione conclusiva del discorso ha lo scopo di difendere in qualche modo le ragioni dell’attività storiografica: questa non può fare a meno dell’indipendenza di giudizio; essa non è assimilabile alla propaganda politica, finalizzata a suscitare contese civili, poiché la materia di cui si occupa è il passato, che lo storico esamina spassionatamente e con sforzo di obiettività (sine ira et studio: Annales I, 1). Qui ben si intravedono l’attualità di tale atteggiamento per lo stesso Tacito – il quale scrive la sua opera storiografica quando le speranze nel nuovo corso del principato adottivo si sono andate decisamente affievolendo – nonché la rivendicazione di una superiore dignità della storiografia senatoria, che non può non valorizzare le testimonianze della libertas dovunque si manifestino, con buona pace dei vertici istituzionali del principato: per quanto indispensabili alla stabilità del sistema, essi non dovrebbero presumere di poter cancellare la memoria degli uomini illustri, che a loro volta si riconoscono nella tradizione repubblicana.


Statua di Tiberio
da Priverno
A determinare il processo di Cremuzio Cordo concorrono l’iniziativa di Seiano, il quale vuole sbarazzarsi in maniera esemplare di chi ostacola la sua ascesa, e la volontà di Tiberio di ridimensionare quella parte dell’aristocrazia senatoria che custodisce con un certo senso di superiorità il retaggio ideale della tradizione repubblicana. Cordo si era lasciato andare a giudizi sprezzanti sul prefetto del pretorio, e a battute sarcastiche sulla sua pretesa di imporre la propria effigie statuaria nel nuovo Teatro di Pompeo appena restaurato: non era questa la rinascita di quell’annoso monumento – aveva commentato il senatore – ma anzi la sua rovina definitiva. Nel 25 d.C. Seiano è in auge, al punto da tentare (per quanto senza successo, data l’opposizione di Tiberio) di perpetuare il proprio potere chiedendo in matrimonio la vedova di Druso Cesare; tuttavia, il prestigio dell’uomo politico non è una motivazione sufficiente a incriminare chi si esprime troppo liberamente nei suoi confronti: la condanna di Cordo sarà infatti sostenuta da ben altra argomentazione.

Il prefetto «dà in regalo» Cordo – secondo l’efficace immagine di Seneca – a due suoi clientes, Satrio Secondo e Pinario Natta, i quali muovono l’accusa contro il senatore (col manifesto sostegno di Seiano) proponendosi, in base alla legge vigente, di incamerare una quota dei suoi beni qualora riescano a ottenerne la condanna a morte.
Il reato ascritto risponde al crimen maiestatis (lesa maestà): una fattispecie penale che da Augusto in poi si estende a chi oltraggia o minaccia l’autorità dello Stato nella persona del principe. Cordo si sarebbe macchiato di tale crimine nella stesura dei suoi annales sull’età delle guerre civili. In quest’opera scritta parecchi anni prima le figure di Cesare e Augusto, gli iniziatori del principato, non erano certo presentate in una luce favorevole (per esempio, Cordo raccontava come Augusto facesse perquisire tutti i senatori prima di ammetterli alla seduta assembleare), ma neppure venivano denigrate; tanto che  – riferisce Cassio Dione – lo stesso Augusto aveva letto a suo tempo quegli annali senza nulla eccepire. La prova del reato è pertanto cercata altrove, e individuata nelle parole di caldo elogio riservate alle figure dei cesaricidi, Bruto e in particolare Cassio (definito da Cordo «l’ultimo dei Romani», cioè dei cittadini liberi, degni di questo nome). La causa dell’incriminazione è dunque un giudizio storico-politico, del quale si rileva la pericolosità per l’ordinamento vigente.
Non è invero la prima volta che ciò accade. Nel 12 d.C., tredici anni prima, vivente Augusto, sono stati condannati al rogo i libri dell’oratore e storico Tito Labieno, di famiglia repubblicana e filopompeiana. Non l’uomo è stato colpito, bensí la sua opera; ma Labieno non ha voluto sopravvivere: chiusosi nel sepolcro, si è lasciato morire. Ora sono invece a rischio di condanna tanto i libri (che infatti verranno bruciati) quanto l’autore. Alla consapevolezza di Cremuzio, il quale comprende che l’odio dell’“uomo forte” del regime gli lascia ben poche speranze, si aggiunge – racconta Tacito – l’ostilità che traspare dal volto di Tiberio, l’unico che potrebbe mitigare la condanna già scritta. Al vecchio senatore non resta che pronunciare il suo ultimo discorso davanti al consesso dei colleghi e all’imperatore in persona: Tacito sicuramente rielabora e in parte inventa – col pensiero ai frangenti politici da lui vissuti (dall’età di Domiziano a quella di Adriano) – ma qualcosa della sostanza di quella orazione deve essersi riversata nella composizione tacitiana. 
Il grande storico latino non descrive la morte di Cremuzio (riserverà narrazioni dettagliate ad altri suicidi, come quelli di Seneca e di Trasea Peto), si limita ad registrarne la notizia: il senatore si uccide per abstinentia, digiunando a oltranza. È proprio Seneca, invece, a raccontare distesamente la vicenda: Cremuzio si chiude in casa, nascondendo il proposito suicida alla figlia Marcia, che altrimenti vi si opporrebbe – ma fino a un certo punto, nobile e forte com’è: infatti ella stessa si rende conto che il padre «non ha altra via per sfuggire alla schiavitú» (illam unam patere servitutis fugam). Quando diventa ormai chiaro e di pubblico dominio che l’imputato sta morendo, sottraendosi cosí al processo e alla condanna, gli accusatori tentano di correre ai ripari, temendo che venga loro contestato il diritto di riscuotere quanto di loro spettanza dei beni di Cremuzio (questa norma odiosa che premiava i delatori era infatti molto criticata, e solo pochi mesi prima Tiberio aveva dovuto porre un freno alla proposta di renderla inapplicabile in caso di morte di un imputato prima della condanna). Come somma ingiuria verso Cremuzio, gli si vorrebbe perfino impedire di suicidarsi, ma per fortuna è ormai troppo tardi. I libri invece vengono per senatoconsulto consegnati agli edili che li gettano nelle fiamme.
Nondimeno, non si può certo rintracciare e distruggere tutte le copie esistenti, per quanto poche esse siano: Marcia ne conserva accuratamente una e qualche altra è in buone mani. L’opera storica di Cremuzio viene riabilitata dopo la morte di Tiberio, nel 37, quando il successore Caligola allenta la morsa repressiva e censoria e consente la circolazione degli scritti di Cremuzio, Labieno e altri (sebbene, a detta di Quintiliano, imponendo l’espunzione dei passi piú contestati).



LE FONTI: Seneca, Consolatio ad Marciam 1 e 22; Quintiliano, Institutio oratoria X, 1, 104; Tacito, Annales IV, 30 e 34-35; Svetonio, Divus Augustus 35 e Caligula 16; Cassio Dione, Storia di Roma LVII, 24. 

Pasquale Martino

Dai materiali online di Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina, D’Anna casa editrice (imparosulweb.it).