venerdì 27 giugno 2014

70 anni di "Rinascita"

L’Italia libera in rivista

Settanta anni ci separano dalle vicende da quel Movimento di Liberazione (1943-45) che sconfiggendo il fascismo e contribuendo a cacciare l’invasore tedesco gettò le basi della libera repubblica. È opportuno che le riflessioni su questo lungo anniversario, di cui si stanno occupando (a volte un po’ stancamente) i giornali, le istituzioni, il mondo della cultura, si allarghino a considerare la molteplicità dei fatti che posero i tasselli al mosaico  della nuova Italia tutta da inventare e ricostruire. Fra questi va annoverata, nel giugno 1944, la pubblicazione della rivista «Rinascita», che, fondata da Palmiro Togliatti e rivolta non solo agli iscritti del Pci, il cui numero era in rapida crescita, ma ai simpatizzanti e agli interlocutori, avrebbe costituito per quasi mezzo secolo un luogo autorevole di elaborazione politica e culturale. 
«I primi quattro numeri – ha scritto Giorgio Bocca nella sua tutt’altro che apologetica biografia di Togliatti – destano un’impressione enorme: il livello culturale è alto, il più alto mai toccato da una rivista politica italiana».  Il titolo – «La Rinascita» (con l’articolo, che sparirà nel 1945) – allude com’è chiaro a quel “secondo Risorgimento” di cui l’Italia deve rendersi artefice sulle ceneri del regime mussoliniano, e di cui il movimento operaio sarà finalmente protagonista. L’operazione politico-culturale assai ambiziosa risponde alla strategia perseguita da Togliatti dopo l’arrivo a Napoli nel marzo ’44: egli assume la guida operativa del Pci, sblocca con la «svolta di Salerno» la questione istituzionale accelerando l’ingresso dei partiti nel governo di unità nazionale e, mentre i comunisti danno un apporto decisivo alla guerra partigiana, getta le basi di quel “partito nuovo” che sarà un soggetto politico di massa e un collettore di energie intellettuali. L’obiettivo del leader comunista è di mettere in campo un’alternativa credibile non soltanto al ventennio di cultura fascista, ma anche al pensiero borghese-liberale che proietta sul futuro post-fascista la propria vocazione egemonica.  «Rinascita» – stampata dapprima a Napoli, poi trasferita a Roma – apre le sue pagine scagliando quasi programmaticamente un attacco contro Benedetto Croce, il “papa laico”,  accusato di aver beneficiato di un atteggiamento compiacente da parte della dittatura. Figura di riferimento  dell’antifascismo nel Sud liberato dagli Alleati, il filosofo abruzzese era stato il capo morale del Congresso dei CLN a Bari nel gennaio ’44; Croce e Togliatti erano entrambi ministri del governo Badoglio (fino all’8 giugno) e del governo Bonomi (dal 18 giugno), ma ciò non impedì l’aspra critica del leader comunista nei confronti dell’anziano senatore. Questi si risentì al punto da far temere una crisi di governo, tanto che nel numero 2 della rivista Togliatti fu costretto a chiedere scusa. La critica però non atteneva soltanto all’atteggiamento politico, ma si estendeva al sistema di pensiero del grande intellettuale meridionale: nel numero 1 appariva un gruppo di lettere di Antonio Gramsci, scritte in carcere e incentrate sull’analisi critica del pensiero crociano; e aveva inizio in tal modo la “scoperta” del pensatore sardo, il capo comunista segregato in prigione quasi fino alla morte, autore delle lettere e dei quaderni che Togliatti avrebbe pubblicato negli anni seguenti, presentando Gramsci come l’ “Anticroce” e facendone il perno di un nuovo progetto intellettuale ispirato al marxismo. 
Gramsci e Togliatti in un disegno de "l'Unità"
Del resto, la convinzione che le avanguardie operaie dovessero disporre di un giornale culturale di ampio respiro era già insita proprio ne «L’Ordine Nuovo» di Gramsci  (1919-1925), su cui Togliatti aveva tenuto una rubrica polemica, «la battaglia delle idee», ora riproposta con lo stesso titolo in «Rinascita». Nel febbraio ’45 il mensile ristampa Alcuni temi della quistione meridionale, il saggio gramsciano incompiuto già apparso sul periodico clandestino «Lo Stato operaio» ma ora messo a disposizione del grande pubblico. Il meridionalismo diventa un punto di forza di questo marxismo italiano che – senza poter rinunciare allo  stalinismo e a certi  cascami dogmatici – inizia nondimeno a fare propria la lezione critica di Gramsci. Guido Dorso, il meridionalista “rivoluzionario”, scrive a «Rinascita» e Togliatti risponde. Al mensile collaborano, sotto la vigile regia del leader comunista, alcuni dirigenti di vecchia data del Pci (fra cui Di Vittorio, che svolge il tema dell’unità sindacale), nonché intellettuali di fede comunista antica e nuova, o vicini al partito, che dibattono su cultura e scuola, su arte e letteratura, da Concetto Marchesi a Franco Rodano a Lucio Lombardo Radice, Bianchi Bandinelli, Moravia, Vittorini, Mafai, Sapegno.
Con il suo spessore qualitativo e con la sua storia non breve (le pubblicazioni cessarono nel 1991) «Rinascita» ha contribuito a far nascere il mito della presunta «egemonia comunista» nella cultura italiana, un argomento agitato dalla destra specie in anni recenti. Un’egemonia a ben vedere inesistente: perché il senso comune popolare è stato in larghissima maggioranza plasmato dalla cultura cattolica prima, poi dall’immaginario televisivo; e perché la sinistra italiana e, almeno dagli anni ’60, lo stesso Pci – una minoranza per quanto significativa – hanno conosciuto un notevole pluralismo di idee, in cui confluivano  le tematiche azioniste, le varie anime del socialismo e, a seguire, il terzomondismo, la New Left e i “movimenti” americani. È vero peraltro che l’elaborazione culturale della sinistra – e «Rinascita» mensile dell’immediato dopoguerra ne è la riprova – ha saputo lanciare una sfida temibile alla tradizione e ha comprensibilmente suscitato i timori, le reazioni e anche le recriminazioni postume degli avversari. 

Pasquale Martino 


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 giugno 2014

giovedì 12 giugno 2014

La Settimana Rossa

7-14 giugno 1914:
quando l'Italia fu «sull'orlo del socialismo»


Il centenario della Settimana Rossa a Ravenna.
Gli insorti piantano l'albero della libertà
La «settimana rossa» di cento anni fa – un moto semi-insurrezionale che scosse l’Italia alla vigilia della Grande Guerra – generò da un lato, nell’universo popolare, l’epopea leggendaria e durevole della rivolta che per poco non aveva abbattuto la monarchia e lo Stato borghese, e a cui bisognava continuare a ispirarsi, dall’altro il mito negativo della minaccia sovversiva incombente, da cui ci si doveva difendere ad ogni costo. 
Tutto ebbe inizio dalle lotte contro la guerra che s’erano sviluppate fin dall’invasione della Libia (1911) spingendo a forme d’unità d’azione le diverse componenti del movimento operario: anarchici, socialisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari. Il 7 giugno 1914 la forza pubblica sparò contro una manifestazione antimilitarista ad Ancona uccidendo tre dimostranti; erano presenti il vecchio dirigente anarchico Enrico Malatesta e il giovanissimo Pietro Nenni, allora repubblicano. La reazione di protesta fu dappertutto impetuosa, irrefrenabile, da Milano a Genova, da Torino a Firenze, da Roma a Napoli a Bari: scioperi, barricate e scontri si susseguirono fino al 14 giugno.  Il bilancio fu di una trentina di morti (fra cui alcuni poliziotti), centinaia di feriti e di arrestati. Il movimento si spense senza ottenere risultati pratici perché alla notevole partecipazione e spontaneità della rivolta non corrispose una guida politica e tanto meno un preciso progetto. Forse gli unici ad avere le idee chiare erano gli anarchici: rivoluzione fino alla vittoria, come sempre avevano voluto e sperato. Ma il partito socialista era incerto, in gran parte colto di sorpresa dall’ampiezza della sollevazione, e la CGL, il sindacato socialista, tagliò la testa al toro revocando lo sciopero dopo alcuni giorni. Mussolini, allora direttore dell’ «Avanti!», polemizzò con i dirigenti sindacali, ma egli stesso non aveva saputo proporre sbocchi ai lavoratori in lotta. La vastità e la forza del sussulto rivoluzionario trovarono spazio sulle influenti riviste di cultura: Papini scrisse su «Lacerba», Prezzolini su «La voce», Salvemini su «l’Unità», segnalando la carenza di direzione. 
Lapide commemorativa ad Ancona
D’altro canto, apparve straordinario il successo elettorale del Psi nel voto amministrativo che si svolse in quegli stessi giorni (da poco era stato introdotto il suffragio allargato): i socialisti conquistarono Ancona, Milano, Bologna, Reggio Emilia, Novara, Verona e molti altri comuni (Andria e a Cerignola in Puglia), dando inizio a un’esperienza amministrativa dai caratteri sociali avanzati, la cui tradizione si perpetuerà oltre e nonostante il ventennio fascista.  A Bologna fu eletto primo cittadino Francesco Zanardi che il popolo chiamerà il “sindaco del pane”; a Milano diventò sindaco Emilio Caldara, che gli avversari soprannominarono Barbarossa (perché, come l’imperatore Federico I, avrebbe distrutto la città lombarda!). Si prefigurava in Italia un’alternativa politica, la cui massima responsabilità era affidata al Psi, quale partito capace di attrarre il consenso delle masse operaie, di porsi alla testa di grandi scioperi e di amministrare importanti città: pochi mesi prima, proprio ad Ancona, il XIV congresso socialista aveva messo a fuoco il governo degli enti locali e i temi connessi, dall’igiene pubblica alle municipalizzazioni dei servizi.  

A meno di quindici giorni dalla settimana rossa, l’attentato di Sarajevo produsse la scintilla del primo conflitto mondiale. Il Paese che, a giugno, si trovava «sull’orlo del socialismo» (Fernand Braudel), come del resto la Germania e altre nazioni europee, cambiò repentinamente orizzonte entrando nel vortice di quella guerra che, fra le altre conseguenze, avrebbe mandato in rovina la Seconda Internazionale e i partiti socialisti. Da quel momento il dibattito pubblico veniva polarizzato dalla scelta fra intervento e neutralità, e significativi esponenti della sinistra – Mussolini e Salvemini fra gli altri – si schieravano nel fronte interventista. Ma l’insieme del Psi guidato da Lazzari, Turati, Serrati, restò ancorato alla propria tradizione antibellicista: il che lo aiutò a sopravvivere nel naufragio del socialismo europeo arruolatosi sotto le bandiere contrapposte degli Stati nazionali. In effetti, la partecipazione alla guerra era il tentativo della borghesia italiana di risolvere le contraddizioni della società spostando bruscamente la vita della nazione sul terreno dell’unità belligerante: si voleva così porre rimedio al fallimento del riformismo giolittiano nonché della guerra libica che non aveva dato nessuna risposta all’emergenza occupazionale (anzi, nel 1913 l’emigrazione italiana aveva toccato l’apice). La guerra era una reazione opposta e contraria all’avanzata del socialismo e della democrazia. Già nell’agosto 1914 il governo Salandra diramò ai prefetti il divieto di tenere comizi. E in seguito, durante la tragica vicenda bellica e specialmente dopo il disastro di Caporetto, si agitò lo spauracchio permanente del pacifismo socialista e si temette più d’ogni cosa il ritorno di fiamma della Settimana Rossa.  

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 giugno 2014


sabato 7 giugno 2014

Una satira di Giovenale

La misera condizione degli intellettuali



La rappresentazione vivace e articolata della condizione di precarietà in cui versano le professioni intellettuali costituisce il pregio e il grande motivo di interesse della satira VII di Giovenale. 
Dopo aver rivolto un apprezzamento – almeno apparentemente speranzoso – all’imperatore, l’unico che ormai possa prendere a cuore le sorti della cultura sostenendo materialmente il lavoro dei letterati (vv. 1-21), l'Autore incomincia a distendere il suo ampio affresco, esaminando la dura vita dei poeti contemporanei – compresi i grandi, come Stazio – che hanno difficoltà a sostentarsi con la sola poesia, e che, nella migliore delle ipotesi, per campare devono scrivere versi per il teatro popolare (vv. 22-97). All’inizio di questa sezione riservata alla professione poetica, Giovenale si rivolge a un certo Telesino, che potrebbe risultare dunque il dedicatario della satira. A seguire, vengono delineate le situazioni di altre categorie intellettuali: gli storici, universalmente disprezzati e giudicati inutili (vv. 98-105); gli avvocati, che si affaticano per tentare di vincere piccole cause guadagnando una miseria, mentre paradossalmente i clienti piú danarosi sono attratti solo dagli avvocati che sono già ricchi, o che, meglio, fanno un’astuta esibizione di ricchezza (vv. 106-149); i retori, il cui insegnamento, un tempo prestigioso e fondamentale, è sottovalutato dai genitori degli allievi, e perciò mal retribuito (vv. 150-214). La rassegna è chiusa dai grammatici: maestri di scuola cui i genitori non sono disposti a riconoscere compensi dignitosi, ma dai quali pretendono tutto, fino alla vigilanza sui buoni costumi dei figli (vv. 215-243).
Secondo lo stile tipico di Giovenale, la settima satira sviluppa una scoppiettante sequenza di immagini comiche e grottesche mettendo a nudo aspetti paradossali della vita quotidiana nell’Urbe, e restituendo in tal modo al lettore un quadro umano e uno spaccato sociale di straordinaria vitalità. 
Ci si è interrogati se la vasta rappresentazione dell’umiliante condizione di vita del ceto intellettuale, giocata fra un registro ironico e una serie di pennellate quasi patetiche, rifletta un sentimento che potremmo definire di partecipazione, di condivisione da parte del poeta, oppure se sia da leggere come satira corrosiva a tutto campo, che travolge aspramente la stessa categoria di letterati cui pure Giovenale appartiene. Senza voler sviluppare tale discussione in questa sede, si può affermare che la commiserazione e la critica, la pietà e il sarcasmo non si escludono a vicenda. Non va dimenticato che Giovenale – come appare chiaramente dall’esordio della satira I – non pensa a se stesso come a uno scrittore paragonabile ai poeti di professione, cioè a quelli come Stazio; anzi, costoro sono oggetto dei suoi strali polemici. Semmai il calore dell’umana partecipazione del poeta satirico sembra emanare soprattutto dai versi che trattano degli avvocati e dei retori: figure che Giovenale sente piú vicine a sé perché egli ha studiato retorica (e forse ha provato anche a insegnarla) e ha esercitato l’avvocatura.


Ma soprattutto, come è stato giustamente osservato, il vero bersaglio di questa satira sono le classi abbienti, che hanno abdicato a ogni forma di mecenatismo. Un tema in verità assai sentito e ricorrente nella letteratura d’età imperiale, sebbene svolto con tale ampiezza soltanto da Giovenale; il mito nostalgico è ovviamente quello del circolo di Mecenate, al quale però l’Autore accosta i nomi di altri protettori delle lettere e promotori di cultura, appartenenti a un passato ormai lontano: oggi i ricchi spendono somme spropositate per i loro volgari riti di ostentazione, per le loro ridicole pacchianerie, mentre nei confronti dei letterati si mostrano vergognosamente spilorci ed esosi. Da parte sua, la plebe disprezza gli intellettuali e osanna i cantanti e i campioni dello sport. Ne consegue come necessaria la già citata premessa della satira: il riconoscimento a «Cesare», unica speranza degli intellettuali; un riconoscimento che peraltro suona piuttosto come un appello se non addirittura come un’amara constatazione: bene o male il solo imprenditore culturale rimasto sulla piazza è lo Stato, nella figura dell’imperatore. Il che riflette una situazione reale se si pensa alle politiche attuate, con varia larghezza e intelligenza, dai Giulio-Claudii e dai Flavi prima ancora che dagli imperatori adottivi. 

Non è detto chi sia questo imperatore a cui è affidata la speranza della rinascita delle arti: dovrebbe trattarsi di Traiano o, secondo alcuni, piú verosimilmente di Adriano che esplicitò un programma mecenatistico. Meno accreditata è l’ipotesi che il poeta si riferisca a Domiziano: poiché si ritiene che Giovenale abbia cominciato a pubblicare le satire dopo la fine della dinastia flavia, è improbabile che egli abbia rivolto un elogio a un imperatore ormai universalmente deprecato. Tuttavia l’“ambientazione” è di età domizianea (si citano Stazio e Quintiliano) e l’identificazione del «Cesare» con l’ultimo dei Flavi potrebbe reggere se si leggesse anche questo passo in chiave satirica; come a dire, i letterati non possono sperare che nelle sovvenzioni statali: come si sono ridotti! 

Pasquale Martino

Dai materiali online di Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina, D’Anna casa editrice (imparosulweb.it).

Immagini: dipinti di Lawrence Alma Tadema

lunedì 2 giugno 2014

Quei ventenni della Fiat

Storie operaie a Bari


Nella storia di riscatto del mondo del lavoro, la Puglia fu sino alla fine degli anni ‘70 la terra del bracciantato. L’uomo simbolo dell’epopea popolare era Giuseppe Di Vittorio, bracciante autodidatta che guidò durissime lotte e divenne dirigente sindacale e politico di prim’ordine. Ma c’erano stati anche i lavoratori del mare, categoria sui generis, sparpagliata, protagonista di grandi scioperi in tempi lontani. Dagli anni ’50, inoltre, la figura del lavoratore nei principali centri urbani ma anche nei piccoli aveva preso le sembianze dell’operaio edile: forza lavoro che, decisiva nel boom economico e nel tumultuoso rifacimento edilizio, agli inizi del decennio ’60 si ribellò al supersfruttamento con sorprendente energia. E in quegli stessi anni nascevano in Puglia i poli industriali: figli delle politiche per il Mezzogiorno avviate dai governi democristiani e rilanciate dal nascente centro-sinistra; effetto, dunque, di una modernizzazione “neocapitalista” (come si diceva allora) e, d’altronde, risposta a nuovi bisogni sociali che esigevano occupazione, reddito, partecipazione al benessere.  
A Bari e nel suo entroterra c’erano nuclei di industria preesistenti. A parte alcuni opifici pubblici come la storica Manifattura dei Tabacchi, si trattava di piccole e medie industrie private, alcune delle quali competitive e relativamente moderne. Basti pensare alle Ferriere di Giovinazzo, che introdussero in Puglia la produzione dell’acciaio prima che negli anni ’60 sorgesse l’Italsider a Taranto – città, peraltro, che non aveva dovuto aspettare il Moloch siderurgico per diventare “operaia”, essendo tale già da lungo tempo grazie alla combattiva classe lavoratrice dell’Arsenale. Non a caso proprio dalle AFP giovinazzesi provenne un lavoratore battagliero – Tommaso Sicolo – che diventò stimato sindacalista, dirigente politico e parlamentare. Nella zona industriale fra Bari e Modugno, accanto alle aziende private locali – Calabrese, Balsamo, Uniblok – incominciarono a sorgere gli stabilimenti delle partecipazioni statali o comunque a capitale pubblico – dal gruppo Breda al Pignone Sud – che affiancarono quelli già attivi come la Stanic. Senza dimenticare l’Hettemarks, la fabbrica svedese di abbigliamento a prevalente manodopera femminile, che pure intraprese la sua attività a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. L’arcipelago della nuova città industriale – ai cui margini spuntavano quartieri abitativi altamente problematici come il San Paolo e il Villaggio del Lavoratore – fu anche il luogo (o il non-luogo, per certi versi) dove si formò una giovane classe operaia di provenienza mista, fatta di contadini, muratori, apprendisti e studenti, che dové imparare da sola a riconoscere i propri diritti e a farli valere. Una classe operaia che solo in parte poteva ricorrere a memorie di scioperi bracciantili o di vertenze urbane del recente decennio, e per il resto faceva i conti con radici democristiane o cattoliche, talora fasciste o qualunquiste, con il clientelismo di certe assunzioni, con un paternalismo padronale che svelava facilmente il suo volto dispotico.
Ma questa generazione di lavoratori e lavoratrici fu educata dalla scossa della contestazione nel biennio ’68-69: che non era soltanto rivolta intellettuale di studenti universitari, ma fu anche ondata di rifiuto dei meccanismi autoritari della fabbrica oltre che rivendicazione di salari e condizioni di lavoro migliori. Nelle lotte contro le gabbie salariali, per la riforma pensionistica (quando il concetto di «riforma» non era ancora stato stravolto), per il rinnovo del contratto nazionale, gli operai di Bari trovarono anche la strada per contrastare l’arbitrio inveterato delle gerarchie interne e per costruire i primi elementi di potere contrattuale e di democrazia sindacale. E nell’incontro con il movimento studentesco, davanti ai cancelli degli stabilimenti e dentro i cortei cittadini, scoprirono ragioni per alimentare la coscienza di classe e la voglia di essere culturalmente all’altezza della controparte. Dall’interno stesso dei reparti, dal quotidiano fronteggiare il capo, il tecnico che taglia i tempi, il direttore del personale che infligge provvedimenti disciplinari, si andava selezionando una nuova leva di leader sindacali naturali, che avrebbero rinnovato la struttura dei sindacati e grazie alla quale si sarebbe verificato un avanzamento inaudito della sinistra nel mondo del lavoro.


Tale era la situazione quando nel capoluogo pugliese – come racconta Giovanni Spilotros – si apriva, nel 1970-71, lo stabilimento Fiat. E fu subito un salto di qualità. La più grande industria privata italiana decentrava parte delle sue produzioni nel Meridione, a Bari come a Termini Imerese e a Cassino (cui si aggiungeva l’Alfa Sud di Pomigliano, che, partecipata da Finmeccanica, sarebbe poi entrata nel gruppo Fiat), ovviamente col decisivo sostegno pubblico. Era un modo per decongestionare Torino, negli anni in cui a Mirafiori, al Lingotto, a Rivalta esplodeva incontenibile la ribellione operaia; ma era anche il frutto di una politica industriale, in tempi in cui lo sviluppo manifatturiero e la crescita del movimento operaio procedevano di pari passo (cosa che oggi suonerebbe come paradosso improbabile e irripetibile). La Fiat Sob prendeva posto nel sistema delle fabbriche baresi affermando immediatamente un ruolo di peso, in qualche modo egemone: per il carattere avanzato della produzione; per la costellazione da cui era accompagnata, di fabbriche ruotanti attorno al gruppo Fiat (OM e Riv Skf), sicché l’insieme veniva a costituire la più importante presenza industriale a Bari; e infine per l’alto numero degli addetti, molti dei quali formati a Torino a ridosso dell’«autunno caldo» (è ancora Spilotros a ricordarlo).
Il salto qualitativo era evidente pure nel tangibile contributo dei lavoratori Fiat alla dinamica della lotta operaia a Bari; dentro un movimento sindacale che era divenuto rapidamente adulto nell’ultimo biennio dei ’60, gli operai Fiat conquistavano nondimeno e ben presto un’autorevolezza significativa: incominciando, per prima cosa, a prendere le misure della dura situazione in fabbrica e a dispiegare una serie di vertenze che avrebbero migliorato sensibilmente le condizioni di lavoro. Nel frattempo, il contesto stava cambiando. Agli inizi degli anni ’70 il movimento studentesco spontaneo e assembleare aveva ceduto il posto ai gruppi strutturati, da un lato Pci-Fgci, dall’altro sinistra extraparlamentare (dal Circolo Lenin al Comitato Antifascista Antimperialista, a Lotta Continua). Erano prevalentemente questi gruppi a militare in modo continuativo davanti ai cancelli degli stabilimenti, distribuendo volantini quasi quotidianamente e rafforzando i picchetti nei giorni di sciopero. Ciò non toglie che, in quegli anni, nuove leve di studenti si susseguissero incessantemente nella “scoperta” della zona industriale, non appena si appassionavano agli scenari della politica intesa come conflitto, partecipazione e progetto rivoluzionario-utopico. E se ad avere difficoltà di relazioni con queste masse giovanili era soprattutto l’apparato tradizionale del Pci (sebbene percorso, esso stesso, da visibili mutamenti), importantissimo era invece l’atteggiamento dialogico degli operai. Questi avevano imparato molto dalla radicalità degli studenti, all’inizio; poi avevano compreso di esercitare a loro volta sugli agglomerati di giovani intellettuali un irresistibile ascendente ideologico e culturale, quasi mitologico. Perciò li accettavano e sapevano ricondurli alla buona causa della lotta operaia; ne tolleravano perfino gli eccessi riassorbendoli nella faticosa gestione quotidiana del conflitto. Emblematico è un episodio ricordato da Spilotros: le file di automobili dei crumiri vandalizzate nel parcheggio esterno della Fiat per mano di “estremisti”; azione non richiesta e non voluta dagli operai; i quali però dovettero constatare nei giorni successivi (non senza una tacita soddisfazione, immaginiamo) che il tasso di crumiraggio era precipitosamente calato.
La comunanza di esperienza e di sentimento era un dato assolutamente reale, per lo meno nei momenti acuti del conflitto e nei grandi riti collettivi, i picchetti, le manifestazioni. Lo era nel ricorrente “fronte a fronte” con le forze dell’ordine che tentavano regolarmente di tenere aperti i cancelli durante gli scioperi, al fine di garantire il “diritto al lavoro”. Ci si sentiva senza dubbio più affratellati quando tutti insieme, lavoratori e studenti, si era stati il bersaglio di una violenta carica di polizia con i lacrimogeni nel piazzale davanti alla Fiat, seguita da un’accanita caccia all’uomo per tutta la zona industriale. In definitiva, gli operai erano attori di una profonda spinta unitaria: slogan quali «operai-studenti uniti nella lotta», «fabbrica-scuola una lotta sola», come d’altronde «Nord e Sud uniti nella lotta», non erano pura retorica;  erano interpretazioni del proprio agire pubblico, chiavi di lettura, espressioni di senso.  
È attraverso questo ineguagliabile tirocinio di operai ventenni che si consolida un’ampia avanguardia legata alla massa dei lavoratori da quella connessione sentimentale che sorreggerà tutti nei decenni successivi, nella quotidianità dell’esperienza lavorativa vissuta con intatta dignità, nei momenti critici tanto quanto nei successi faticosamente strappati, e nelle proiezioni “esterne”, politiche: le manifestazioni contro l’assassinio di Benedetto Petrone (1977), contro il rapimento e l’assassinio di Moro (1978), la grande campagna di solidarietà durante i fatidici 35 giorni della Fiat torinese nel 1980; e, nello stesso anno, la straordinaria carovana di roulotte che parte dalla Fiat di Bari per soccorrere i terremotati dell’Irpinia. Tutta la pluridecennale vicenda rievocata da Giovanni Spilotros disegna un’immagine della classe operaia che richiama l’idea antica del proletariato come «classe generale»; un soggetto cosciente che si pone per quanto è possibile alla direzione della società; che si fa carico di problemi generali a partire da un’ottica alternativa rispetto a quella del padronato. L’operaio che diventa detentore di un’orgogliosa professionalità; che ama la sua fabbrica dopo aver lottato per cambiarla; che tratta da pari a pari con l’azienda imponendo la propria logica ma contribuendo a migliorare l’organizzazione del lavoro, a qualificare la produzione, a risolvere problemi tecnici; l’operaio che si fa dirigente nel medesimo tempo in cui si fa sindacato e si fa partito.
Certo, sembra ora di essere distanti anni luce da quel clima e da quelle idealità. Certo, nell’epoca recente della crisi, delle chiusure di stabilimenti e cessioni di rami aziendali, del lavoro flessibile e precario, delle politiche antisindacali sfacciatamente esibite, quella che fu la Fiat di Bari sembra comunque aver vissuto come un’oasi nel deserto: o meglio, come un’isola nella tempesta, che più  di altre realtà del grande gruppo automobilistico (per non parlare di tante aziende della zona industriale barese) ha saputo difendere il difendibile e limitare il danno. I ventenni sono diventati sessantenni, attraversando molte peripezie. Nel corso del tempo si sono anche separati, perché la Fiat Sob è diventata Magneti Marelli e un pezzo d’azienda è andata a far nascere lo stabilimento Bosch. Così Giovanni si è diviso dal non dimenticato Stefano Netti, come lui operaio cólto, ragionatore, di raffinata preparazione politica. Qualcuno è andato in pensione, altri sono rimasti “sul pezzo”. Perché la guerra di posizione non è mai finita.

Pasquale Martino


Postfazione a: Giovanni Spilotros, Fabbrica. Storie e lotte alla Fiat di Bari, Edizioni dal Sud, Bari, 2014 

80 anni dell'Orazio Flacco



Al tempo dell’inizio 
Memorie del liceo classico 



Schizzo del liceo Domenico Cirillo (da www.artefascista.it)
Chi si iscriveva al liceo-ginnasio Quinto Orazio Flacco all’inizio degli anni ’60 del Novecento – l’epoca del boom economico e della modernizzazione – entrava in una scuola che non aveva compiuto un trentennio di vita. Che, per intenderci, era meno vecchia di quanto non sia oggi il liceo classico Socrate nato a metà degli anni ’70 come filiazione dell’Orazio Flacco. Quella scuola ancora giovane era tuttavia già segnata a fondo dalla storia, avendo rappresentato nella sua età aurorale, al tempo del fascismo e della lotta antifascista, uno spazio importante della vita pubblica barese: docenti e studenti di quel liceo avevano molto contribuito a preparare l’opposizione intellettuale e a realizzare la coraggiosa manifestazione del 28 luglio 1943, stroncata dall’eccidio che rimane uno snodo ineludibile e irrisolto nella storia di questa città. Alcuni protagonisti di quella stagione erano tuttora piú che mai attivi fra i docenti del liceo statale cittadino: Fabrizio Canfora e Rosa Cifarelli, Michele D’Erasmo e Raffaele Perna (questi andò in pensione nel 1961), e altri ancora. Ma dei ragazzi che arrivavano nel 1960-62 si può dire che veramente pochi avessero coscienza dello spessore storico insito nel luogo di studio di cui entravano a far parte.
Tanto meno erano al corrente che la loro scuola aveva avuto originariamente il nome dello scienziato, patriota e rivoluzionario meridionale Domenico Cirillo; che, subito, questa intitolazione era stata derubricata e – per attenuare il torto fatto al martire della rivoluzione napoletana – trasferita al convitto nazionale che sorgeva oltre i binari tra periferia e campagna; mentre al liceo-ginnasio statale eretto in una prestigiosa localizzazione – il prolungamento del nuovo lungomare –veniva assegnato in via definitiva il nome di Quinto Orazio Flacco, ritenuto piú consono a una classicità di regime oltre che riferibile alle glorie dell’antica Apulia. Ma il torto fu fatto involontariamente anche all’illustre scrittore latino, poiché né gli studenti, né (per lo piú) i docenti, né tanto meno l’immaginario della città si identificarono mai col poeta di Venosa, e la voce comune chiamò il liceo per sempre «Flacco» invece che «Orazio» (quasi che i licei intitolati a Virgilio e a Ovidio venissero solitamente indicati come «Marone» e «Nasone»), ignara peraltro che di Flacci ce n’erano stati altri due o tre nella letteratura latina.
Non pochi di quei ragazzi, inoltre, avevano frequentato la scuola media Giovanni Pascoli sita al pian terreno dello stesso edificio del liceo in quanto erede del vecchio ginnasio inferiore, passando poi ai piani alti dopo la licenza, quasi per naturale evoluzione; e si può dire perciò che gli otto anni trascorsi fra le medesime mura ricalcassero il corso tradizionale degli studi classici: il triennio di I-II-III classe ginnasiale, il biennio di ginnasio superiore, il triennio liceale.
Era un corpo studentesco dalla composizione sociale variegata: non solo alta borghesia e ceti professionali, ma anche piccola borghesia impiegatizia e agraria (diversi ragazzi venivano dall’entroterra) e classi lavoratrici. L’Orazio Flacco incominciava ad aprirsi alla domanda di scolarizzazione superiore che era una conseguenza della svolta di fine anni ’50: il miracolo economico, la società del benessere, il diffondersi dei beni di consumo durevoli, automobili, elettrodomestici, televisori. Attorno alla crescita della scuola c’erano dinamiche non solo nazionali, ma urbane: la trasformazione di Bari in una città semi-industriale con il sorgere delle fabbriche a partecipazione statale a ovest del quartiere Libertà, l’espansione edilizia che distribuiva aumenti di reddito sebbene ineguale a vari strati sociali, la presa di coscienza indotta dalla rivolta degli edili nel 1962, la nascita della prima amministrazione di centro-sinistra nello stesso anno. Attraverso la selezione e la formazione di nuove leve della generazione postbellica, l’Orazio Flacco si poneva come fucina di una classe dirigente locale, di una borghesia intellettuale ben distinta e in qualche modo alternativa rispetto al tipo di classe dirigente che si preparava nel liceo privato dei gesuiti, il Di Cagno Abbrescia da cui lo separavano poche centinaia di metri (l’istituto dell’élite cattolica sorgeva allora all’inizio di via Napoli). D’altra parte, quella oraziana era soltanto una “ipotesi” di classe dirigente, tutta da verificare, per il momento minoritaria (e questa condizione di minoranza era avvertita piú o meno consciamente dei quei giovani): perché il potere, la ricchezza, la familiarità con i meccanismi di decisione della città erano tutte cose che appartenevano all’ambito del liceo rivale. L’Orazio Flacco era comunque una scuola aperta alle donne, come ogni istituto pubblico, laddove i padri gesuiti s’attenevano a un principio di esclusivismo maschile (il liceo classico privato femminile era affidato invece alle suore dell’istituto Margherita di Savoia in corso Sicilia, ora corso Benedetto Croce).

Schizzo dell'Orazio Flacco (arch. C. Petrucci, 1931)
L’Orazio Flacco appariva come un imponente quadrilatero dalla pianta a M. La facciata maestosa prospiciente corso Vittorio Veneto presentava una larga scalinata che conduceva all’ingresso principale, mai utilizzato, ed era racchiusa fra due ampi semicilindri simili a “maschi” che davano all’edificio il vago aspetto di una fortezza, schierata faccia a Oriente, rivolta al mare, come la Legione dei Carabinieri e l’ingresso monumentale della Fiera del Levante. Il colore grigio appesantito dagli anni e le grate metalliche ai finestroni del pian terreno (in realtà sopraelevato) facevano il resto. Nel largo spiazzo racchiuso fra i due torrioni e la scalinata si improvvisavano partite di pallone nei giorni festivi, o di pomeriggio. Quando la palla schizzava verso la strada qualcuno correva a recuperarla noncurante del traffico automobilistico (che era però meno fitto di quello degli anni a venire). In realtà la facciata principale del liceo era percepita dal senso comune degli studenti come il retro, quasi un margine nascosto e pleonastico, allo stesso modo che il rapporto col mare era contraddetto dalla presenza del falso lungomare affiancato da una spessa fascia portuale recintata (una striscia di azzurro increspato si poteva scorgere soltanto dalle finestre dei piani superiori).
Il lato posteriore in via Gioacchino Murat, compreso fra i due piedi della M, era aperto e dava accesso a un vasto cortile protetto da un lungo muro e da una cancellata. La costruzione di nuove aule su questa facciata – chiaro segno dell’accresciuta domanda di iscrizioni – ebbe inizio intorno alla metà degli anni ’60. Dal cancello di via Murat entravano e uscivano i ragazzini della scuola media, mentre i due ingressi laterali erano riservati agli alunni del liceo-ginnasio: via Niccolò Pizzoli per le ragazze, via Giovan Battista Trevisani per i ragazzi. L’ingresso di via Pizzoli era adoperato inoltre da insegnanti e familiari (anche della scuola media).
Sullo slargo adiacente a quest’ultima entrata si raggruppavano i ragazzi prima della campanella di inizio, per assistere all’arrivo delle ragazze (nessuna della quali si tratteneva fuori a discorrere) e nel tentativo di lanciare messaggi con sguardi accesi e con motti fugaci. All’uscita, essi si precipitavano da via Trevisani verso lo stesso slargo per presenziare al deflusso femminile. I piú svantaggiati (ma solo da questo punto di vista) erano gli allievi ginnasiali della inflessibile Rosa Cifarelli Canfora, che li tratteneva in aula sistematicamente per 5-10 minuti in piú; quando uscivano loro, per quanto corressero a perdifiato, via Pizzoli era ormai deserta.
Chi legge avrà inteso a questo punto che le classi erano di composizione monosessuale; esisteva da poco un solo corso sperimentale – e soltanto nel triennio – costituito da classi miste. Per la numerosa maggioranza di sfortunati estranei a quel corso il contatto con l’altro sesso era quasi un miraggio. Le classi maschili erano situate su un piano, quelle femminili su un altro. Farsi sorprendere, sbandati, in territorio proibito era grave rischio e pericolo. Se a qualche classe maschile capitava, per un periodo limitato e per emergenza logistica, l’avventura di essere allocata accanto a una classe femminile, allora si sviluppava una vicenda di attese, incontri, sguardi, scarni messaggi verbali, poetiche scritte sui muri. Pattuglie di studentesse si potevano incrociare altrove, nello struscio di via Sparano, nei pomeriggi, mentre sfilavano ad andatura elevata, allineate, tenendosi a braccetto a due o a tre: allora ci si poteva mettere sulle loro poste e seguirle indiscretamente fin sotto alle rispettive abitazioni. A scuola, s’intende, ci si recava a piedi o con i mezzi pubblici; non si usavano autoveicoli privati, neppure motorini. E se qualche compagno dell’ultimo anno, patentato e di famiglia danarosa, compariva un giorno al volante di un’automobile (dal lato di via Pizzoli, naturalmente, per fare colpo sulle ragazze), si trattava di un raro avvenimento, degno di essere illustrato nelle cronache orali.
L’apartheid era interrotto da saltuarie feste da ballo, che qualche ragazzo organizzava in casa propria disponendo di una sorella iscritta al liceo alla quale chiedeva di invitare le amiche. Ancor meno frequenti erano le gite fuori porta, e perciò fantastiche peripezie nell’universo lontano e nel mondo della diversità di genere per quanto il loro raggio d’azione non spaziasse al di là della Foresta Umbra o di Metaponto. E un’altra cosa: tali escursioni si effettuavano nei giorni festivi, per impulso di studenti intraprendenti e senza responsabilità della scuola: perché simili perdite di tempo non avevano a che fare con lo studio.

Se si volesse individuare un comune sentire nell’insegnamento oraziano di quegli anni si dovrebbe pensare ai valori dell’antifascismo e della laicità: questi erano intesi come grandi ambiti pluralistici entro i quali si potevano riconoscere e confrontare idealità e culture diverse, che erano state unite nella vicenda della Resistenza e della Costituzione, e ora si sfidavano dialetticamente nella temperie riformatrice (in cui entrava di forza anche il Concilio Ecumenico Vaticano II).
L’impianto culturale dell’Orazio Flacco risentiva peraltro abbastanza chiaramente di una prevalenza “laterziana”: un crocianesimo di impronta democratico-liberale, con qualche apertura gramsciana. Laterza aveva pubblicato alcuni libri di testo che lasciarono un segno: prima fra tutti la Breve storia della filosofia di De Ruggiero-Canfora (I edizione 1957), un manuale in cui Fabrizio Canfora non si limitava a una mera riduzione divulgativa della Storia della filosofia di Guido De Ruggiero (l’acuto studioso del liberalismo europeo ch’era stato attivo nel cenacolo antifascista di villa Laterza a Bari) ma procedeva a una propria rielaborazione e a un completamento dell’indagine storica condotta dall’allievo di Croce e Gentile. Fondamentali erano inoltre due antologie laterziane, edite entrambe nel 1962, l’una della critica letteraria, a cura di Giuseppe Petronio, l’altra della critica storica, a cura di Armando Saitta: opere apparentemente sussidiarie, ma che fornivano invece strumenti inestimabili per l’esercizio dello spirito critico e per una prima esperienza di ricerca personale. Saitta era anche l’autore del libro di testo di storia medievale, moderna e contemporanea maggiormente adoperato nel liceo (Il cammino umano, La Nuova Italia, Firenze, II edizione aggiornata 1958): un racconto complesso e accattivante che accompagnava i giovani nel viaggio dentro la storia con lo sguardo unitario del narratore onnisciente. Il manuale di storia antica, esso pure ricco di stimoli e di fascino, era opera di Antonio Brancati e Girolamo Olivati (ancora La Nuova Italia, I edizione 1956-57). Le letterature classiche si studiavano sulle riedizioni dei libri di Concetto Marchesi e di Gennaro Perrotta, ma in qualche sezione si andava affermando il recente manuale di Filippo Maria Pontani (D’Anna, Messina-Firenze, I edizione 1961), uno studioso che avrebbe poi guidato i giovani cultori di letteratura nella scoperta extrascolastica della poesia neogreca da lui tradotta, di Kavafis e di Seferis. Si cercavano libri di testo integrativi o alternativi: Sapegno del commento dantesco ma anche del Disegno storico avidamente consultato, Luigi Russo delle pagine su Verga.
Si muovevano cosí i primi passi negli itinerari personali di lettura, cercando fra le edizioni economiche che si offrivano al nuovo consumo di massa, quelle della «Universale Laterza», di Einaudi e Feltrinelli, oltre che della mitica BUR (settanta lire il volumetto singolo!). Si leggevano con fame onnivora i romanzi di Giorgio Bassani e di Giuseppe Berto, T. S. Eliot e i neonati poeti del Gruppo 63. La proiezione dell’avventura culturale al di fuori delle aule del liceo era in qualche modo congeniale alla condizione studentesca dell’Orazio Flacco e tacitamente approvata (se non incoraggiata) da alcuni docenti. Nell’autunno del 1965 parecchi allievi si recarono per la prima volta in vita loro nell’Ateneo, dove, nell’aula I di Lettere (futura scena della contestazione studentesca), assistettero a una conferenza del grande filologo tedesco Eduard Fraenkel, ebreo perseguitato dal nazismo, che in quel periodo teneva nell’università barese seminari sul teatro antico. La trasmissione dello sceneggiato televisivo I giacobini di Federico Zardi nel 1962, con un magnifico Serge Reggiani nella parte di Robespierre (opera di cui si sono perse colpevolmente le tracce negli archivi Rai) era oggetto in classe di commenti sia pure rapidi e sobri.
Ma furono anche gli anni di una intensa iniziazione alla musica, al teatro, al cinema. La scuola distribuiva a turno gli abbonamenti ai concerti. Il 22 novembre 1963 gli studenti che assistettero all’esecuzione dei Concerti Brandeburghesi di Bach presso la basilica di San Nicola appresero, mentre tornavano a casa, dell’assassinio del presidente Kennedy. Qualche studente frequentava con sacrificio anche il conservatorio Niccolò Piccinni, cosicché accadeva che venissero promossi scambi culturali fra allievi delle due istituzioni. Studenti dell’Orazio Flacco si recavano al conservatorio in qualità di profani interessati, ad assistere a esecuzioni musicali e a conferenze; qualcuna la tennero addirittura loro, sulla letteratura beat (l’America che affascinava) e nientemeno che su Dante (era il 1965, il centenario della nascita). Non c’era ancora l’auditorium Nino Rota dal destino infelice; c’era lui, Nino Rota in persona. Il celebre direttore del conservatorio, quando veniva a Bari, se s’imbatteva in quei giovani che avevano gli amici musicisti, si metteva volentieri a parlare con loro. Quando li incontrava dentro una libreria, regalava loro i libri che avrebbero voluto acquistare. In seguito parecchi di loro – guardati con qualche sufficienza dagli amici musicisti veri – avrebbero imparato a strimpellare gli accordi sulla chitarra, per accompagnare i canti popolari, i pezzi dei cantautori, le melodie dei Beatles.
Il teatro attirava irresistibilmente i giovani: c’era il Piccolo e c’era il Cut. Al Piccinni il Centro universitario teatrale mise in scena L’eccezione e la regola di Brecht; ma il vero evento fu l’Antigone rappresentata dal Leaving Theatre: era ancora l’altra America, amata e studiata, l’America della ribellione, dell’antirazzismo, delle manifestazioni contro la guerra. Riguardo al cinema, dopo la riuscita operazione formativa di film che raccontavano la storia italiana nei modi della commedia e della satira (La Grande Guerra, Tutti a Casa, Il federale), verso la metà dei ’60 destava meraviglia la cinematografia di Pasolini, stupiva il linguaggio di rottura degli «spaghetti western» di Leone, concentrazione di talenti che non avrebbero smesso di sorprendere negli anni; La battaglia d’Algeri di Pontecorvo infiammò di spiriti antimperialisti ma anche di passione per il cinema-reportage di impegno civile, vagamente antesignano del cinema di controinformazione degli anni ’68 e seguenti (in quella stessa chiave di lettura erano state ammirate Le mani sulla città di Rosi).

Nel campo umanistico l’Orazio Flacco contava indubbiamente su un nutrito drappello di ottimi docenti, fra i quali si distingueva qualche punta di vera eccellenza (abbiamo citato sopra alcuni nomi, ai quali va aggiunto almeno quello di Giovanni Bellardi, traduttore di Cicerone e autore di commenti per la scuola). Ma pure nelle discipline scientifiche il liceo classico barese non aveva molto da invidiare ad altre scuole. Basti pensare soltanto ad Arcangelo Liso, l’energico professore di chimica, biologia, scienze naturali, che lasciò traccia profonda in chi poi intraprese studi universitari di medicina, chimica, fisica, ma anche in tutti gli altri. Negli spaziosi laboratori di fisica e scienze si entrava come in un sancta sanctorum dove – senza rinunciare peraltro all’allegria fanciullesca e alla voglia di scherzare – si potevano contemplare in piccolo i moti dei corpi celesti e osservare le prodigiose reazioni della materia comprovanti formule e teorie scientifiche. Né si passava il tempo oziosamente in palestra (seminterrata: quella scoperta, nel cortile, era di pertinenza della scuola media), dove si scalava la pertica, si saltava la cavallina, ci si esercitava a vari attrezzi e poi si finiva, sí, per giocare l’eterna palla a volo, sotto il comando imperioso di docenti che in quel liceo – per quanto era dato sapere – erano gli unici nostalgici del Ventennio. Nonostante il loro piglio ducesco, però, la squadra di calcio del liceo perdeva (quasi) sempre nei tornei fra le scuole cittadine, facendosi rifilare punteggi tennistici e dovendo subire lo scherno dei ragazzi dell’Istituto tecnico industriale Panetti o del Marconi (Orazio Flacco ancora e sempre minoranza!).
A dire il vero, la modalità autoritaria era di norma adoperata da tutti i docenti, e soltanto alcuni sapevano declinarla come autentica egemonia senza dispotismo. Essa comportava comunque una prassi selettiva che si riteneva fosse connaturata alla scuola e in particolare al liceo; per cui l’operazione maieutica agiva di fatto in superficie, valorizzando i talenti già pronti a esprimersi e ignorando chi aveva difficoltà a farlo; bocciatura e rimandatura erano strumenti ordinari, non costituivano dolorose eccezioni (tanto meno erano vissute come una sconfitta pedagogica). Era, peraltro, quella, ancora la scuola gentiliana nella sua intatta sostanza; anche se, invero, della scuola disegnata dal ministro filosofo quarant’anni prima, il liceo classico rappresentava soltanto uno dei due livelli, quello destinato alle classi dirigenti, l’unico che avesse continuato a funzionare; mentre l’altro livello, quello pensato per le masse popolari, era fallito da tempo. E dal 1962 c’era la scuola media unica. L’aristocratica cittadella dell’istruzione classica era ormai sotto assedio.  

I docenti guardavano con scetticismo e (nel migliore dei casi) con ironia bonaria ai tentativi degli studenti di aprirsi autonome strade nel dibattito culturale e nell’iniziativa civile, in senso lato politica. I detestati scioperi studenteschi erano una rarità assoluta: se ne ricorda uno nel 1962, durante la crisi dei missili a Cuba; e si fa fatica a rammentarne altri (frammenti di tradizione orale e confuse memorie risalivano a quando gli scioperi li facevano studenti di estrema destra, per Trieste, negli anni ’50, o per i martiri di Kindu nel 1961). Un’occasione festosa per marinare la scuola era offerta dalle rarissime nevicate, ma questo è un altro discorso. Per un certo periodo uscí un giornalino, «Il Marsupiale», autofinanziato e prodotto da un gruppo studentesco spontaneo, che ospitava articoli di varia umanità. Nei primi mesi del 1966 si riuní nell’aula magna, affollatissima, un’assemblea studentesca pomeridiana (la prima del liceo, a memoria di molti), che decise la costituzione dell’Organismo studentesco dell’Orazio Flacco (Osof): una novità che sembrava rivoluzionaria e d’avanguardia nel panorama della scuole baresi, ma che appena due anni dopo sarebbe stata travolta dall’insofferenza della contestazione sessantottina verso ogni forma di delega. Nel contempo si svolgevano gli incontri culturali del Circolo Gramsci, rivolti ai giovani, ospitati presso la Sala del Combattente in via Melo da Bari e molto frequentati da ragazzi e ragazze dell’Orazio Flacco. Fu cosí che cadde l’apartheid, fuori e dentro le mura scolastiche.
La nascita del’organismo rappresentativo non fu ostacolata dal preside Tommaso Pazienza («zio Tom»), che anzi, dando prova di flessibilità, concesse l’aula magna tutte le volte che venne richiesta e consentí lo svolgimento delle elezioni dei delegati classe per classe. Ben altrimenti rigido si mostrerà durante il movimento del ’68, in sintonia del resto con la maggioranza del collegio dei docenti, che invocherà l’intervento della polizia per riportare all’ordine la scuola occupata. Ma questo sarà già un altro clima e un’altra storia.
Fra le avvisaglie del sommovimento sessantottesco restò memorabile per molti la dimostrazione contro la guerra del Vietnam, di ibrida ispirazione gandhiano-comunista, che venne inscenata nello slargo dell’Orazio Flacco in via Pizzoli nel 1966, all’orario di entrata. Si dovrebbe dire meglio la «tentata» dimostrazione: perché dopo pochi minuti di sit-in i manifestanti, tutti allievi del liceo, furono aggrediti inopinatamente da un manipolo di giovani piú grandi di loro, estranei alla scuola, capeggiati da uno squadrista che diventerà noto alle cronache nazionali come uno dei piú fanatici militanti neofascisti. I dimostranti dispersi – e, alcuni, contusi – si aggirarono traumatizzati nello spiazzo, prima di varcare in ritardo l’entrata nella scuola, derisi da alcuni docenti e da parecchi compagni di classe contenti del loro fallimento. Ma da quel fallimento essi – e molti ragazzi e ragazze che avevano visto – trassero un insegnamento piú duraturo che se tutto fosse andato liscio: una scelta di impegno civile, se non è retorica, deve mettere in conto l’ostacolo di forze avverse in grado di vanificarla; e ancora: c’è sempre un prezzo da pagare di persona per sostenere una causa giusta.


Pasquale Martino

Contributo preparatorio per l'incontro La funzione culturale e civile del liceo Orazio Flacco (11 aprile 2014) promosso dalla associazione degli ex alunni e coordinato da Mario De Pasquale; compreso poi nel volume Formazione e impegno. Il liceo ginnasio "Quinto Orazio Flacco" nei racconti degli ex alunni, a cura di Rita Ceglie e con introduzione di Mario De Pasquale, Stilo Editrice, Bari, 2015. 

I decreti delegati

Una riforma a metà
Quarant’anni di democrazia nella scuola


Manifestazione sindacale contro i decreti delegati (Archivio Spi-Cgil Treviso)  




















I «decreti delegati» del 31 maggio 1974 furono il tentativo più organico negli anni ’70 di dare risposte a movimenti sociali che avevano scosso profondamente gli assetti del sistema scolastico italiano. L’iter fu travagliato: nel frattempo erano in corso manifestazioni studentesche e scioperi sindacali degli insegnanti; dure battaglie parlamentari misero ripetutamente in minoranza il governo Andreotti di centrodestra (1972-73), finché il redivivo centrosinistra appoggiato dai socialisti (governo Rumor, 1973-74) approvò la legge delega con l’astensione dei comunisti, agli albori del compromesso storico. Il contesto in cui furono pubblicati i decreti era quello di una lotta politica ad altissima tensione, fra referendum sul divorzio, vinto quasi insperatamente dal fronte contrario all’abrogazione (12-13 maggio) e strage fascista di Brescia (28 maggio), il cui prezzo letale fu pagato specialmente dal mondo della scuola (5 degli 8 manifestanti uccisi erano docenti).
I sei decreti presidenziali (uno dei quali decadde subito perché bocciato dalla Corte dei Conti) erano tuttavia ben lontani dal configurare quella riforma complessiva richiesta dai movimenti della scuola. Nella sequenza delle riforme che quel decennio dette all’Italia, sull’onda di una vivace crescita democratica della società (non furono solo «anni di piombo»!), – dallo statuto dei lavoratori fino alla legge Basaglia – quando la parola riforma non era stata ancora svuotata di senso, i decreti scolastici del ‘74 presentavano una sostanza riformatrice più tenue.  I punti focali erano lo stato giuridico del personale, i diritti sindacali e l’istituzione degli organi collegiali destinati a inverare la democrazia nella scuola. Altri temi quali la modifica degli ordinamenti e dei programmi, il prolungamento dell’obbligo, il diritto allo studio, furono affrontati separatamente, con interventi parziali, sebbene a volte di grande significato: si pensi al tempo pieno nella scuola elementare (1971) e alle 150 ore, ossia al diritto allo studio per i lavoratori (contratto dei metalmeccanici, 1973). I decreti delegati costituivano un compromesso che sanciva indubbiamente alcune novità ispirate al dettato costituzionale ma tagliava fuori le rivendicazioni più avanzate. Furono riconosciuti i diritti sindacali, la contrattazione triennale, il diritto di assemblea del personale (sebbene per un monte ore annuo limitato). Anche gli studenti videro regolamentata quell’assemblea di istituto che avevano di fatto conquistato negli anni precedenti. Vennero soppresse le arbitrarie note di qualifica con cui i presidi valutavano annualmente ciascun insegnante. Non passò invece la proposta più radicale avanzata dai sindacati e dai partiti di sinistra: l’elezione del capo d’istituto da parte del collegio dei docenti. Questi tuttavia eleggevano almeno il gruppo dei collaboratori del preside (una procedura democratica che in seguito verrà soppiantata dalla nomina dall’alto). La libertà d’insegnamento venne sancita, ma «nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni»: formulazione più restrittiva di quella della Costituzione (art. 33: «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento») e decisamente ambigua, poiché lasciava aperta la possibilità di censurare contenuti e metodi didattici non tradizionali, ritenuti trasgressivi.
Luigi Pinto, insegnante,
vittima della strage di Brescia
La democrazia scolastica fu concepita come pariteticità di tre componenti: personale docente e non docente, studenti (nelle scuole superiori) e genitori. Non fu accolta l’idea di far sedere nei consigli di istituto i rappresentanti dei sindacati e degli enti locali. La partecipazione dei genitori in quanto tali istituì una diretta cogestione da parte delle famiglie: per la prima volta la scuola doveva rendere conto all’istituzione familiare piuttosto che allo Stato e alla società strutturata in organizzazioni; si voleva così, inoltre, stemperare la conflittualità e sottrarre spazio a forme di associazionismo troppo caratterizzate a sinistra. Ciononostante, le prime elezioni degli organi collegiali nel 1975 registrarono un notevole successo delle liste di sinistra, spesso denominate di «unità democratica» in quanto aperte, almeno nominalmente, al contributo di tutte le forze antifasciste compresi i cattolici. Erano gli anni della grande avanzata elettorale del Pci, accompagnata dal progetto di un sistema di democrazia diffusa (consigli di fabbrica, comitati di quartiere). 
A distanza di quarant’anni che cosa resta di quello scenario? La macchina degli organi collegiali continua a funzionare come per inerzia, ma la sua obsolescenza è da lungo tempo evidente. Organismi inutili come i consigli distrettuali e provinciali sono stati aboliti. Le assemblee studentesche sono uno stanco rituale con sprazzi di vitalità per una minoranza. I consigli di classe e di istituto si dibattono fra mille difficoltà – a partire dallo scarso interesse dei genitori. Del resto alla visione organicistica e comunitaria della famiglia come funzione interna alla scuola è subentrata l’ideologia neoliberista del «contratto formativo» che colloca i genitori nel ruolo di clienti e utenti di un servizio.  Si è tentato di trasformare il consiglio d’istituto in organo di amministrazione con la presenza di finanziatori privati: ma le scuole sono tutt’altro che vere “aziende” nonostante la retorica dell’”autonomia” e del “preside-manager”, e gli sponsor prendono ciò che vogliono dalle scuole senza perdere tempo a gestirle.  

Pasquale Martino   


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 giugno 2014