sabato 7 giugno 2014

Una satira di Giovenale

La misera condizione degli intellettuali



La rappresentazione vivace e articolata della condizione di precarietà in cui versano le professioni intellettuali costituisce il pregio e il grande motivo di interesse della satira VII di Giovenale. 
Dopo aver rivolto un apprezzamento – almeno apparentemente speranzoso – all’imperatore, l’unico che ormai possa prendere a cuore le sorti della cultura sostenendo materialmente il lavoro dei letterati (vv. 1-21), l'Autore incomincia a distendere il suo ampio affresco, esaminando la dura vita dei poeti contemporanei – compresi i grandi, come Stazio – che hanno difficoltà a sostentarsi con la sola poesia, e che, nella migliore delle ipotesi, per campare devono scrivere versi per il teatro popolare (vv. 22-97). All’inizio di questa sezione riservata alla professione poetica, Giovenale si rivolge a un certo Telesino, che potrebbe risultare dunque il dedicatario della satira. A seguire, vengono delineate le situazioni di altre categorie intellettuali: gli storici, universalmente disprezzati e giudicati inutili (vv. 98-105); gli avvocati, che si affaticano per tentare di vincere piccole cause guadagnando una miseria, mentre paradossalmente i clienti piú danarosi sono attratti solo dagli avvocati che sono già ricchi, o che, meglio, fanno un’astuta esibizione di ricchezza (vv. 106-149); i retori, il cui insegnamento, un tempo prestigioso e fondamentale, è sottovalutato dai genitori degli allievi, e perciò mal retribuito (vv. 150-214). La rassegna è chiusa dai grammatici: maestri di scuola cui i genitori non sono disposti a riconoscere compensi dignitosi, ma dai quali pretendono tutto, fino alla vigilanza sui buoni costumi dei figli (vv. 215-243).
Secondo lo stile tipico di Giovenale, la settima satira sviluppa una scoppiettante sequenza di immagini comiche e grottesche mettendo a nudo aspetti paradossali della vita quotidiana nell’Urbe, e restituendo in tal modo al lettore un quadro umano e uno spaccato sociale di straordinaria vitalità. 
Ci si è interrogati se la vasta rappresentazione dell’umiliante condizione di vita del ceto intellettuale, giocata fra un registro ironico e una serie di pennellate quasi patetiche, rifletta un sentimento che potremmo definire di partecipazione, di condivisione da parte del poeta, oppure se sia da leggere come satira corrosiva a tutto campo, che travolge aspramente la stessa categoria di letterati cui pure Giovenale appartiene. Senza voler sviluppare tale discussione in questa sede, si può affermare che la commiserazione e la critica, la pietà e il sarcasmo non si escludono a vicenda. Non va dimenticato che Giovenale – come appare chiaramente dall’esordio della satira I – non pensa a se stesso come a uno scrittore paragonabile ai poeti di professione, cioè a quelli come Stazio; anzi, costoro sono oggetto dei suoi strali polemici. Semmai il calore dell’umana partecipazione del poeta satirico sembra emanare soprattutto dai versi che trattano degli avvocati e dei retori: figure che Giovenale sente piú vicine a sé perché egli ha studiato retorica (e forse ha provato anche a insegnarla) e ha esercitato l’avvocatura.


Ma soprattutto, come è stato giustamente osservato, il vero bersaglio di questa satira sono le classi abbienti, che hanno abdicato a ogni forma di mecenatismo. Un tema in verità assai sentito e ricorrente nella letteratura d’età imperiale, sebbene svolto con tale ampiezza soltanto da Giovenale; il mito nostalgico è ovviamente quello del circolo di Mecenate, al quale però l’Autore accosta i nomi di altri protettori delle lettere e promotori di cultura, appartenenti a un passato ormai lontano: oggi i ricchi spendono somme spropositate per i loro volgari riti di ostentazione, per le loro ridicole pacchianerie, mentre nei confronti dei letterati si mostrano vergognosamente spilorci ed esosi. Da parte sua, la plebe disprezza gli intellettuali e osanna i cantanti e i campioni dello sport. Ne consegue come necessaria la già citata premessa della satira: il riconoscimento a «Cesare», unica speranza degli intellettuali; un riconoscimento che peraltro suona piuttosto come un appello se non addirittura come un’amara constatazione: bene o male il solo imprenditore culturale rimasto sulla piazza è lo Stato, nella figura dell’imperatore. Il che riflette una situazione reale se si pensa alle politiche attuate, con varia larghezza e intelligenza, dai Giulio-Claudii e dai Flavi prima ancora che dagli imperatori adottivi. 

Non è detto chi sia questo imperatore a cui è affidata la speranza della rinascita delle arti: dovrebbe trattarsi di Traiano o, secondo alcuni, piú verosimilmente di Adriano che esplicitò un programma mecenatistico. Meno accreditata è l’ipotesi che il poeta si riferisca a Domiziano: poiché si ritiene che Giovenale abbia cominciato a pubblicare le satire dopo la fine della dinastia flavia, è improbabile che egli abbia rivolto un elogio a un imperatore ormai universalmente deprecato. Tuttavia l’“ambientazione” è di età domizianea (si citano Stazio e Quintiliano) e l’identificazione del «Cesare» con l’ultimo dei Flavi potrebbe reggere se si leggesse anche questo passo in chiave satirica; come a dire, i letterati non possono sperare che nelle sovvenzioni statali: come si sono ridotti! 

Pasquale Martino

Dai materiali online di Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina, D’Anna casa editrice (imparosulweb.it).

Immagini: dipinti di Lawrence Alma Tadema