La misera condizione degli intellettuali
La rappresentazione vivace e articolata della condizione di precarietà in cui versano le professioni intellettuali costituisce il pregio e il grande motivo di interesse della satira VII di Giovenale.
La rappresentazione vivace e articolata della condizione di precarietà in cui versano le professioni intellettuali costituisce il pregio e il grande motivo di interesse della satira VII di Giovenale.
Dopo
aver rivolto un apprezzamento – almeno apparentemente speranzoso –
all’imperatore, l’unico che ormai possa prendere a cuore le sorti della cultura
sostenendo materialmente il lavoro dei letterati (vv. 1-21), l'Autore incomincia a distendere il suo ampio affresco, esaminando la dura vita dei
poeti contemporanei – compresi i grandi, come Stazio – che hanno difficoltà a sostentarsi
con la sola poesia, e che, nella migliore delle ipotesi, per campare devono
scrivere versi per il teatro popolare (vv. 22-97). All’inizio di
questa sezione riservata alla professione poetica, Giovenale si rivolge a un
certo Telesino, che potrebbe risultare dunque il dedicatario della satira. A
seguire, vengono delineate le situazioni di altre categorie intellettuali: gli
storici, universalmente disprezzati e giudicati inutili (vv. 98-105);
gli avvocati, che si affaticano per tentare di vincere piccole cause
guadagnando una miseria, mentre paradossalmente i clienti piú danarosi sono
attratti solo dagli avvocati che sono già ricchi, o che, meglio, fanno un’astuta esibizione di ricchezza (vv. 106-149); i retori, il cui insegnamento, un tempo prestigioso e fondamentale, è
sottovalutato dai genitori degli allievi, e perciò mal retribuito (vv. 150-214).
La rassegna è chiusa dai grammatici:
maestri di scuola cui i genitori non sono disposti a riconoscere compensi
dignitosi, ma dai quali pretendono tutto, fino alla vigilanza sui buoni costumi
dei figli (vv. 215-243).
Secondo
lo stile tipico di Giovenale, la settima satira sviluppa una scoppiettante
sequenza di immagini comiche e grottesche mettendo a nudo aspetti paradossali
della vita quotidiana nell’Urbe, e restituendo in tal modo al lettore un quadro
umano e uno spaccato sociale di straordinaria vitalità.
Ci
si è interrogati se la vasta rappresentazione dell’umiliante
condizione di vita del ceto intellettuale, giocata fra un registro
ironico e una serie di pennellate quasi patetiche, rifletta un sentimento che
potremmo definire di partecipazione, di condivisione da parte del poeta, oppure
se sia da leggere come satira corrosiva a
tutto campo, che travolge aspramente la stessa categoria di letterati cui pure Giovenale
appartiene. Senza voler sviluppare tale discussione in questa sede, si può
affermare che la commiserazione e la critica, la pietà e il sarcasmo non si
escludono a vicenda. Non va dimenticato che Giovenale – come appare chiaramente
dall’esordio della satira I – non pensa a se
stesso come a uno scrittore paragonabile ai poeti di professione, cioè a quelli
come Stazio; anzi, costoro sono oggetto dei suoi strali polemici. Semmai il
calore dell’umana partecipazione del poeta satirico sembra emanare soprattutto
dai versi che trattano degli avvocati e dei retori: figure che Giovenale sente
piú vicine a sé perché egli ha studiato retorica (e forse ha provato anche a insegnarla)
e ha esercitato l’avvocatura.
Ma
soprattutto, come è stato giustamente osservato, il vero bersaglio di questa
satira sono le classi abbienti, che hanno abdicato a ogni forma di mecenatismo. Un tema in verità assai sentito e ricorrente
nella letteratura d’età imperiale, sebbene svolto con tale ampiezza soltanto da Giovenale; il mito nostalgico
è ovviamente quello del circolo di Mecenate, al quale però l’Autore accosta i
nomi di altri protettori delle lettere e promotori di cultura, appartenenti a
un passato ormai lontano: oggi i ricchi spendono somme spropositate per i loro volgari
riti di ostentazione, per le loro ridicole pacchianerie, mentre nei confronti
dei letterati si mostrano vergognosamente spilorci ed esosi. Da parte sua, la plebe disprezza gli
intellettuali e osanna i cantanti e i campioni dello sport. Ne consegue come
necessaria la già citata premessa della satira: il riconoscimento a «Cesare»,
unica speranza degli intellettuali; un riconoscimento che peraltro suona piuttosto
come un appello se non addirittura come un’amara constatazione: bene o male il
solo imprenditore culturale rimasto sulla piazza è lo Stato, nella figura
dell’imperatore. Il che riflette una
situazione reale se si pensa alle politiche attuate, con varia larghezza e
intelligenza, dai Giulio-Claudii e dai Flavi prima ancora che dagli imperatori
adottivi.
Non è detto chi
sia questo imperatore a cui è affidata la speranza della
rinascita delle arti: dovrebbe trattarsi di Traiano o, secondo alcuni, piú
verosimilmente di Adriano che esplicitò un programma mecenatistico.
Meno accreditata è l’ipotesi che il poeta si riferisca a Domiziano: poiché si ritiene che Giovenale abbia cominciato a
pubblicare le satire dopo la fine della dinastia flavia, è improbabile che egli
abbia rivolto un elogio a un imperatore ormai universalmente deprecato. Tuttavia l’“ambientazione” è di età domizianea (si citano
Stazio e Quintiliano) e l’identificazione del «Cesare» con l’ultimo dei Flavi
potrebbe reggere se si leggesse anche questo passo in chiave satirica; come a
dire, i letterati non possono sperare che nelle
sovvenzioni statali: come si sono ridotti!
Pasquale Martino
Dai materiali online di Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina, D’Anna casa editrice (imparosulweb.it).)
Immagini: dipinti di Lawrence Alma Tadema
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