giovedì 15 ottobre 2020

Processi per ricostituzione del partito fascista

 Una norma costituzionale da osservare e applicare

    




Il processo per ricostituzione del partito fascista, intentato dal procuratore aggiunto Roberto Rossi ad esponenti di CasaPound a Bari, ha rari precedenti. Il suo fondamento è nelle «disposizioni transitorie e finali» della Costituzione italiana, articolo XII: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Disposizione da intendersi non già come «transitoria», bensì come «finale» (ordinanza 325 della Corte costituzionale, 1988). Durante i lavori della Costituente era stato Palmiro Togliatti a proporre che il divieto fosse collocato in sede separata, per non diminuire la solennità dell’art. 49, che sancisce la libertà di associarsi in partiti. Nel dibattito della commissione preparatoria l’interpretazione più esplicita e netta era venuta da Lelio Basso: «Si sappia che tutto ciò che è stato fascista è condannato. Bisogna fare in modo che il popolo abbia la sensazione precisa che la Repubblica segna una data nuova nella storia d'Italia». 

     La legge attuativa arriva nel 1952 sotto il nome del ministro dell’Interno Mario Scelba. La maggioranza centrista guidata dalla Democrazia cristiana ha come principale avversaria l’opposizione di sinistra, ma vuol coprirsi le spalle a destra dove il partito fascista ricostituito esiste già da anni: il Movimento sociale italiano è composto da reduci della repubblica di Salò e non nasconde né i richiami, né i programmi, né la simbologia del fascismo. La legge Scelba intende “tenere a bada” il Msi configurando in maniera articolata il reato di ricostituzione del partito fascista (comprendente l’uso e l’esaltazione della violenza, la denigrazione della Resistenza, il razzismo, l’apologia e le manifestazioni esteriori di carattere fascista). In realtà il Msi, pur controllato a distanza, resta una riserva del centrismo tanto da essere chiamato nel 1960 ad appoggiare l’effimero governo Tambroni. 

     La questione si pone drammaticamente negli anni ’70, al tempo della strategia della tensione. Nel 1973 incomincia a emergere chiaramente il ruolo che in quella escalation di stragi sta svolgendo il movimento neofascista extraparlamentare Ordine Nuovo, in un rapporto ambiguo da un lato col Msi, dall’altro con i servizi segreti italiani e con alcuni settori dei partiti di maggioranza. Trenta dirigenti di Ordine Nuovo vengono condannati per violazione della legge Scelba; subito dopo, il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani decreta lo scioglimento di quel gruppo per ricostituzione del partito fascista. Taviani – ex partigiano, spesso però criticato per aver autorizzato la mano dura della polizia contro manifestanti di sinistra – provava così, con un decisione non priva di coraggio, a mettere al riparo il governo e la Dc dalle accuse di connivenza con gli stragisti che venivano rilanciate da Pasolini sulle colonne del «Corriere della Sera». In quegli anni è invocato da più parti anche lo scioglimento del Msi: lo chiede, nel 1977, un gruppo di personalità fra cui Umberto Terracini, già presidente dell’Assemblea costituente, dopo l’assassinio del giovane antifascista barese Benedetto Petrone, quando la magistratura chiude per qualche tempo la sede del Msi di Bari dove è stata rinvenuta l’arma del delitto. Proprio a Bari si tiene un anno dopo un altro processo per ricostituzione del partito fascista, imputazione formulata dal sostituto procuratore Nicola Magrone contro esponenti della sezione Passaquindici del Msi, autori di aggressioni sistematiche. Gli imputati vengono assolti per il reato più grave, ma condannati a pene miti per «attività fasciste».

     Nei decenni successivi l’accusa – rafforzata dalla legge Mancino del 1993 – è mossa ulteriormente contro altri soggetti, come il movimento Fascismo e Libertà di Giorgio Pisanò; la risposta difensiva si trincera dietro il “reato di opinione”. Ma il crinale fra opinione, propaganda e incitamento a mettere in atto quanto propagandato è assai sottile. Il neofascismo e il neonazismo sono diffusi in Europa – come denunciato da una risoluzione del parlamento europeo del 2018 – e negli Usa, e fungono oggi da ala estrema dell’odio nazional-populista che si nutre di demagogia contro migranti e profughi. In Grecia il movimento neonazista Alba Dorata è stato condannato pochi giorni fa in quanto «organizzazione criminale» responsabile di un omicidio, due tentati omicidi e una serie infinita di violenze.

     In Italia, CasaPound nasce circa a metà anni ’90; si fa conoscere per le violenze commesse in varie città – fra cui l’eccidio di due senegalesi a Firenze nel 2011 – , per le prolungate occupazioni di immobili pubblici ingiustificatamente tollerate, nonché per qualche amicizia politica di troppo. Fino a poco tempo fa nel proprio sito web ha dichiarato matrici ideali che includono Gentile, Mussolini e perfino il fanatico repubblichino Pavolini, capo delle brigate nere; nomi che compaiono anche nel programma elettorale del 2013, depositato al ministero dell’Interno. Oggi, nel sito web si leggono frasi come questa: «la forza quando scaturita da un ordine verticale e da un principio gerarchico è destinata a dominare le barbarie, anche se in numero inferiore»; e si insiste, inoltre, sul «ritorno» della nazione a un’epoca mitizzata ed esaltata: «Per la sua storia e per il suo destino, l’Italia deve tornare a esercitare una funzione avanguardista nel mondo, tornare ad essere faro di civiltà, esempio». Il lessico e i concetti rimandano alla presunta gloria dell’impero mussoliniano. La magistratura giudicherà sui fatti accaduti a Bari nel 2018 e sui reati ascritti a CasaPound. Da parte nostra, dovremmo cogliere l’occasione per comprendere il fenomeno e affinare le armi della critica contro i fascismi che in forme molteplici si ripresentano.

 Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 15 ottobre 2020      

 

martedì 8 settembre 2020

Pugliesi all'alba della Resistenza

Quel settembre 1943, dopo l'armistizio



Quale fu l’inizio? Chi e quando incominciò – all’indomani del tragico 8 settembre 1943 – a scrivere le prime parole su quella pagina senza precedenti che è stata la Resistenza al nazifascismo? In realtà, di inizi ce ne furono parecchi, scollegati e in luoghi diversi ma in tempi ravvicinati, tali da configurare uno slancio inconsapevolmente corale.

      Uno di quegli inizi fu a Bari, il 9 settembre, e nello stesso giorno 20 chilometri più a sud, a Bitetto. I fatti di Bari hanno sempre trovato accenni assai parsimoniosi nella storiografia nazionale, se si eccettuano gli studi locali; pure, la prima importante storia della Resistenza, quella di Roberto Battaglia (Einaudi 1964, I ediz. 1953), dice brevemente l’essenziale: «a Bari il generale Bellomo con pochi ardimentosi, marinai, soldati e operai, assicurò la difesa del porto». Nella più recente opera generale sulla lotta di Liberazione, firmata da Marcello Flores e Mimmo Franzinelli (Laterza 2019), il riferimento all’evento barese – qualificato comunque come episodio di «resistenza» – è se possibile ancor più fugace. Una bella sorpresa è contenuta nel libro per ragazzi apparso in piena quarantena (Lucia Vaccarino, Stefano Garzaro, O bella ciao, Il battello a vapore - Piemme, 2020), dove per la prima volta in un’opera non locale un intero capitolo è dedicato alla vicenda del quindicenne Michele Romito e dei “guaglioni” che dalle mura di Bari Vecchia contrastarono con le bombe a mano le truppe tedesche; racconto basato sulla testimonianza di uno di quei ragazzini, il vivo e vegeto Michele Mancini. Contemporaneamente usciva Noi partigiani di Gad Lerner e Laura Gnocchi (Feltrinelli 2020) che nell’elenco finale delle centinaia di registrazioni di interviste a protagonisti viventi della Liberazione – di cui solo una minima parte è confluita nel volume – cita anche i testimoni della giornata di Bari, allora poco più che bambini: riconoscimento non piccolo nel memoriale audiovisivo della Resistenza consegnato all’Anpi, e acquisizione eis aèi («per sempre»; non sembri enfatico citare Tucidide).

     Bari come inizio, dunque: al porto e – ricordiamolo – alle poste, dove pure si combatte. Bari che ha sei caduti in battaglia, mentre Bitetto ne ha ben 18, militari che prendono l’iniziativa di sparare su un reparto tedesco dedito alla razzia, e sono coadiuvati da civili, alcuni giovanissimi. Due città che ricevono la medaglia d’oro al merito civile, e Bitetto prima di Bari (1999 e 2006). Mentre gli Alleati avanzano da sud, la Wehrmacht germanica si ritira lentamente verso nord seminando distruzioni, eccidi e crimini di guerra. Già il 10 settembre aggredisce Barletta, dove uccide negli scontri a fuoco e nei bombardamenti decine di militari e civili, fino alla atroce rappresaglia di due giorni dopo, quando 12 fra vigili urbani e netturbini vengono messi al muro e falciati. La Puglia e la Basilicata sperimentano fra le prime, dopo l’armistizio, la nuova linea di condotta nazista verso gli italiani, assunti nel novero dei “traditori” e delle “razze inferiori” di cui il Reich fa sistematico scempio. Matera insorge il 21: ed è un altro inizio, che annuncia le quattro giornate di Napoli (27-30 settembre), prima grande insurrezione antinazista in Italia e in Europa. Barletta, Matera, Napoli: medaglie d’oro al merito civile e militare.

    




Il dramma già iniziato diventa orrore e dolore senza fine a nord della linea Gustav, che corre dal Garigliano al Sangro. Qui i tedeschi non si ritirano più, ma occupano stabilmente il territorio come una immensa fortezza, serviti dal fascismo collaborazionista. Uno dei primissimi atti di resistenza, forse il primo in assoluto, si deve ancora una volta a un pugliese, e avviene a Genova il 9 settembre, nello stesso giorno in cui si combatte a Bari e a Bitetto. Il carabiniere Ludovico Patrizi, 42 anni, nato a Cursi in provincia di Lecce, s’imbatte in un gruppo di tedeschi che nel quartiere Pontedecimo ha appena trucidato un militare italiano rifiutatosi di consegnare le armi; Patrizi apre il fuoco contro i nemici, ne uccide due e ferisce un terzo, prima di essere a sua volta abbattuto da una granata. La sua memoria è insignita di medaglia d’argento, e Genova gli ha intitolato un ponte nel luogo della morte eroica.

     Dopo il disorientamento e lo sbandamento dell’8 settembre, dopo i gesti individuali ed esemplari, in tutte le regioni dell’Italia sottoposta al nazifascismo incominciano ad aggregarsi i partigiani. Molti pugliesi fra loro. È ancora settembre quando i fratelli foggiani di famiglia operaia Vincenzo e Luigi Biondi, civili di 19 e 16 anni (pochi di più dei ragazzi baresi), si uniscono alla banda partigiana di Colle San Marco appena raccoltasi ad Ascoli Piceno. Non si sa quando e perché abbiano lasciato Foggia, straziata dai bombardamenti alleati (e poi insignita anch’essa di medaglia d’oro), se poco prima o poco dopo l’8 settembre. Si fermano nelle Marche a combattere. Partecipano alla battaglia di Bosco Martese il 25 settembre, ed è la prima volta (un altro inizio!) che una formazione ribelle costringe i tedeschi alla ritirata. Ma il 2 ottobre Colle San Marco è circondato dalla divisione di paracadutisti Hermann Göring, che attacca con l’artiglieria. Alcuni partigiani riescono a sganciarsi, 13 muoiono, 14 vengono presi vivi e subito fucilati. I fratelli Biondi cadono in combattimento a cento metri l’uno dall’altro. Ascoli e Foggia li hanno onorati con monumenti.

     Molti inizi: dappertutto i pugliesi c’erano, con gli altri italiani. È bene non dimenticarlo, nel 77° anniversario di un giorno che poteva segnare l’affondamento irreparabile di un intero Paese e che invece fu il principio di una storia di libertà e democrazia. La Puglia non ha subìto una storia fatta altrove: ha contribuito a farla, la storia d’Italia, grazie ai suoi figli e figlie che compirono improvvisamente un gesto, che scelsero un cammino difficile e giusto.  

 

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 8 settembre 2020

 

   

 

 

 

 

sabato 1 agosto 2020

La rivolta di Reggio Calabria

La calda estate sullo Stretto

Cinquant’anni da quei moti eccentrici e neri 

che raccontavano un altro Sud


 


La rivolta di Reggio Calabria sorprese l’Italia cinquant’anni or sono. Fu un unicum nella nostra storia, per la durata (6 mesi con strascichi di oltre un anno), il largo coinvolgimento popolare e interclassista, l’impiego di armi ed esplosivi, la durezza della risposta repressiva dello Stato (esercito e carri armati), il collegamento con la destra neofascista, con l’eversione nera e con i disegni della criminalità mafiosa. Quei “moti” ebbero i tratti di una vicenda “meridionale” di protesta e disperazione, e gettarono un’ombra preoccupante sulla nascita dell’ordinamento regionale che nel 1970 intendeva attuare la Costituzione nel segno della partecipazione democratica. Nonostante la sua eccezionalità, la rivolta ha trovato poco spazio nella memoria pubblica nazionale e nella storiografia: l’unico studio storico approfondito lo si deve a Luigi Ambrosi (Rubettino 2009, con prefazione di Salvatore Lupo). Il sociologo reggino Tonino Perna ha trasposto la memoria della sommossa in un romanzo uscito l’anno scorso.

     La scintilla dell’incendio fu la designazione del capoluogo di Regione. Reggio si considerava candidata naturale per tradizione e numero di abitanti; un accordo fra esponenti calabresi del governo e dei partiti di centro-sinistra assegnò invece a Catanzaro il capoluogo e a Cosenza la istituenda università, tagliando fuori la città dello Stretto. La reazione dei reggini fu, il 14 luglio – giorno di insediamento del consiglio regionale – la rabbia e la ribellione. Si indice lo sciopero generale, e il giorno dopo, in seguito agli scontri con la polizia, si ha il primo morto. Insorgono i quartieri popolari di Sbarre e Santa Caterina, si innalzano le barricate, il confronto è sempre più violento. Nell’opinione pubblica del Paese, nella stampa e nel giudizio dei partiti nazionali, la rivolta è subito isolata e bollata di campanilismo, il che inasprisce il risentimento dei reggini. Ma dietro alla questione del capoluogo vi sono decenni di emigrazione, una crescita esponenziale della disoccupazione (che affligge anche i giovani laureati e diplomati), la delusione per il mancato sviluppo industriale; in una città “terziarizzata” l’unica speranza di lavoro e di miglioramento della qualità di vita è riposta nell’attesa degli uffici regionali e di sviluppo della burocrazia. A questa convinzione radicata si unisce la riscoperta di un senso di identità cittadina che si fa risalire a un’antica storia.


    Sul genuino sentimento popolare d’una cittadinanza offesa si inserirono fin dall’inizio disparati gruppi politici e clientelari, di volta in volta concordi o in concorrenza: il sindaco democristiano dà il la alla protesta, il vescovo la benedice, il sindacalista di estrema destra Ciccio Franco diventa l’agitatore più noto, imponendo lo slogan dannunziano «Boia chi molla!». La rivolta non fu “fascista” come è stata definita, anche se l’assenza di gruppi dirigenti seri e lungimiranti favorì man mano l’egemonia dei neofascisti e l’affermarsi di una demagogia senza prospettive. In seguito e ancor oggi la cultura di destra ha presentato i moti di Reggio come «il ’68 del Sud» (Marcello Veneziani) quasi un risarcimento del tentativo neofascista, frustrato, di cavalcare la contestazione studentesca.   


     Del ’68 quei moti riproducevano la radicalità e alcune forme di lotta, non gli obiettivi. Lo storico Guido Crainz li ha classificati tra i “conflitti spuri”, lontani dalla omogeneità delle lotte operaie e studentesche. Peraltro gli operai reggini avevano preso parte attiva alla lotta contro le zone salariali che fu, questa sì, il vero ’68 del Sud. Tuttavia il sindacato di sinistra, la Cgil, e il Partito comunista che avevano condiviso il movimento del biennio ’68-69 non riconobbero legittimità alla protesta reggina, nonostante l’adesione a essa di molti lavoratori comunisti (fra cui la “storica” cellula del deposito ferroviario). Questo ripudio alimentò il populismo antipartito e l’astio verso il Pci. Dalla sinistra eretica si guardava a quei ribelli con occhio più comprensivo: un’acuta analisi della rivolta fu pubblicata da Valentino Parlato, meridionalista gramsciano, sul «Manifesto» settimanale (novembre ’70). Intanto anche gli strateghi della tensione e la criminalità giocano le loro carte: a ottobre del ‘69 i vertici della ‘ndrangheta si riuniscono sul vicino Aspromonte mentre il “principe nero” Junio Valerio Borghese raduna i suoi a Reggio, e prepara il golpe romano (fallito) del dicembre ’70. Il 22 luglio, a pochi giorni dallo scoppio dei moti, una bomba fa deragliare presso Gioia Tauro il direttissimo Palermo-Torino causando sei morti e decine di feriti: molti anni dopo i responsabili della strage verranno individuati tra i neofascisti di Avanguardia nazionale. Cinque giovani anarchici di Reggio, che hanno militato nella rivolta, raccolgono documenti sulla infiltrazione neofascista e sulla strage e partono in automobile il 26 settembre per consegnarli a Roma ai redattori del libro La strage di Stato, ma periscono tutti in un incidente stradale assai sospetto; le carte spariscono.

     La fine della rivolta arriva a gennaio quando l’esercito penetra nelle roccaforti ribelli, la sconfitta è sancita a febbraio: un compromesso conferma Catanzaro capoluogo e sede della giunta, assegnando a Reggio la sede del consiglio regionale. Permangono scampoli di conflitto; nell’abbandono generale i ribelli rifluiscono, l’estrema destra resta sola in campo: ostacola la manifestazione nazionale dei sindacati confederali indetta a Reggio il 22 ottobre 1972, disturbando il corteo, dopo che numerosi attentati non hanno fermato i treni dei manifestanti. La prova di forza sindacale e antifascista ha la meglio, ma la maggioranza della città la subisce con freddezza, come un intervento estraneo. La ribellione del Sud più emarginato e il movimento organizzato dei lavoratori non si sono incontrati.

 

Le vittime

Durante gli scontri di piazza a Reggio Calabria morirono 5 persone in circostanze diverse: Bruno Labate, ferroviere, Angelo Campanella, autista, Vincenzo Corigliano, poliziotto, Antonio Bellotti, poliziotto, Carmine Iaconis, barista.

     Le 6 vittime della strage di Gioia Tauro (tutte siciliane, di cui 5 donne): Rita Cacicia, Adriana Vassallo, Letizia Palumbo, Nicolina Mazzocchio, Rosa Fazzari, Andrea Cangemi. 

     I 5 anarchici della Baracca (così chiamati dalla vecchia villa Liberty in cui si riunivano) morti il 26 settembre ’70: Angelo Aricò, Annalise Borth, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso.

  

Pasquale Martino  

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 1 agosto 2020

 

 

 

 

 

 


sabato 11 luglio 2020

Luglio '60, la Resistenza continua



L'antifascismo che salvò la giovane repubblica

La nostra repubblica non ha avuto vita facile. La democrazia non è stata acquisita una volta per tutte dopo la guerra e la Liberazione. Sessanta anni fa l’appena quattordicenne repubblica italiana, che si era data una carta costituzionale democratica da soli dodici anni, visse una grave crisi che avrebbe potuto metterne in pericolo la sopravvivenza. Furono i giorni del luglio ’60, quando il neofascismo stava andando al governo e la protesta antifascista l’ebbe vinta non senza un nuovo sacrificio di giovani vite.  
     L’Italia viveva il miracolo economico, usciva dal decennio della ricostruzione e del rilancio; s’intravvedevano il benessere e segnali di sviluppo del Mezzogiorno; ma il sistema politico non rispondeva. La formula di governo centrista non reggeva di fronte alle urgenze delle società. Nel partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, si faceva strada l’idea di una necessaria apertura a sinistra, verso il Partito socialista fino a quel momento alleato all’opposizione con i comunisti. Un’idea avversata dalla gran parte più conservatrice dello stesso partito cattolico, oltre che dalla classe imprenditoriale e agraria, perché ciò avrebbe comportato il rischio delle sempre odiate riforme sociali e del riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori. In questo frangente critico viene escogitata a marzo del ’60 una soluzione che non risolve, che anzi va nel senso opposto: un governo monocolore democristiano, presieduto da Fernando Tambroni e retto dal voto parlamentare del partito neofascista, il Msi, mentre tutti gli altri partiti (compresi gli ex alleati della Dc) votano contro. Per la prima volta (e unica, fino al 1994) gli eredi politici di Mussolini entrano nella maggioranza di governo, e con un peso determinante. 
     Il tentativo suscita nel Paese l’opposizione di tutte le forze antifasciste, ma il governo resta in piedi qualche mese finché non è proprio il Msi a compiere il passo più lungo della gamba: sfida l’antifascismo annunciando il proprio congresso nazionale il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Memore di aver costretto i tedeschi alla resa nel ‘45, Genova insorge; il 25 giugno incominciano gli scioperi, che si allargano. La risposta del governo è insensata: vengono opposti intralci e divieti alle manifestazioni antifasciste, un corteo di giovani viene caricato dalle camionette della polizia. Genova resiste e il 28 è il partigiano Sandro Pertini, futuro presidente della repubblica, a pronunciare dal palco parole di sdegno dinanzi a una folla di decine di migliaia di persone. La rivolta si estende nel Paese, si intreccia con le proteste sindacali e soprattutto con la vertenza nazionale dei braccianti, che in Puglia arriva al culmine di un anno di conflittualità; a San Ferdinando la polizia spara e ferisce tre braccianti, facendo temere il tragico ripetersi dell’eccidio ivi perpetrato nel 1948 per mano di squadristi fascisti che assalirono lavoratori dei partiti di sinistra. Ancora spari e una vittima a Licata, in Sicilia; a Roma (dove fervono i preparativi per le Olimpiadi) i carabinieri a cavallo guidati dall’olimpionico Raimondo D’Inzeo caricano i manifestanti, come nell’Ottocento, la polizia arresta il deputato comunista Ingrao. La tragedia arriva il 7 luglio, a Reggio Emilia, dove la sparatoria delle forze dell’ordine falcia cinque dimostranti; e si ripete a Palermo e a Catania, con altre tre vittime. A questo punto il movimento di opposizione diventa generale. Il congresso del Msi salta, nel parlamento il ministro dell’Interno Spataro è duramente criticato, le federazioni giovanili di tutti i partiti antifascisti (Dc compresa) chiedono le dimissioni di Tambroni e lo scioglimento del Msi in quanto ricostituito partito fascista. A Bari il consiglio comunale viene interrotto in segno di lutto, a Napoli durante il comizio di protesta prende la parola Eduardo De Filippo. E finalmente, il 27 luglio, Tambroni cade. L’irresponsabile esperimento fallisce, la presidenza del consiglio passa a Fanfani il quale, con l’astensione socialista, prepara il centro-sinistra “organico” (Psi nel governo) che si realizzerà con Moro nel 1963 dopo essere stato “anticipato” al comune di Bari nel 1962. E sarà l’inizio di un’altra storia, non priva di aspre contraddizioni, e tuttavia in consonanza con il rafforzamento dei diritti, con l’allargamento della partecipazione, grazie anche agli spazi che l’opposizione politica e sociale poté conquistarsi.   
     Quella del luglio ’60 fu la vittoria a caro prezzo di una ricostituita unità antifascista («la Resistenza continua», proclamava uno striscione genovese), che vide fra i protagonisti l’Anpi, l’associazione partigiana (il cui presidente Arrigo Boldrini ebbe l’abitazione incendiata dai neofascisti in quei giorni), non solo custode della memoria, ma attiva propugnatrice della Costituzione. Soprattutto, fu il momento rivelatore di una nuova generazione, i giovani dalle “magliette a strisce”, operai e studenti che nella eredità della lotta di Liberazione credettero sul serio. Fiorì il canto sociale: dal gruppo di Cantacronache (cui collaboravano scrittori come Calvino, Fortini, Eco) nacque nel 1960 la canzone Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei, che diventò l’inno antifascista dei giovani del ‘68 («Di nuovo come un tempo sopra l’Italia intera / urla il vento e soffia la bufera /… Uguale è la canzone che abbiamo da cantare: / Scarpe rotte eppur bisogna andare!»). Nei decenni seguenti, gli attentati contro la democrazia si ripeterono, dal “piano Solo” del 1964 alla bomba di piazza Fontana, dal disegno  stragista e terrorista degli anni ’70 alla loggia P2. La democrazia ha resistito. Poi ha avuto inizio una storia diversa e complicata, quella recente, che non dobbiamo raccontare qua.

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 luglio 2020

martedì 19 maggio 2020

Ovidio e Augusto



      Storia di una eterodossia riluttante 

-        
                  -     Lei ha letto il libro del poeta latino Ovidio, L’arte di amare?
-        -   Non è quello che è finito così male, tutto solo, a piagnucolare continuamente, e lamentarsi per il clima che era davvero pessimo?
-             -      Sì, ma prima si era divertito molto, divertito davvero.
              (Stanley Kubrick e Frederic Raphael, Eyes Wide Shut,1999)


Dei rapporti fra Ovidio e Augusto sappiamo meno di quanto si possa credere. Il poeta stesso, principale fonte di notizie sulla propria vita, non parla diffusamente di sé nei versi che precedono l’esilio. C’è il congedo degli Amores (III, 15) in cui l’Autore dichiara di essere nato nella terra dei Peligni, da famiglia di antico rango equestre, e prevede che la natia Sulmona ottenga gloria da lui come Mantova e Verona l’hanno ottenuta rispettivamente da Virgilio e da Catullo. Oltre a questo, ben pochi cenni biografici si possono leggere sparsi nelle opere. È soltanto a partire dall’8 d.C., dopo la condanna, che il tema autobiografico diventa prioritario, dominante e pressoché unico: per finalità su cui ci soffermeremo più avanti, i versi dell’esilio narrano la condizione attuale di Ovidio, ripercorrono le relazioni con gli amici e con la società letteraria di Roma, e rimandano ai rapporti con il principe.

Ma quali erano stati e come si erano venuti definendo tali rapporti? Quando Publio Ovidio Nasone incomincia a pubblicare, circa nel 15 a.C., sono già apparse le grandi opere letterarie della età augustea: i poemi virgiliani, le satire e i primi tre libri delle odi di Orazio, le elegie di Tibullo e Properzio. Virgilio e Tibullo non sono più in vita, Properzio muore pure intorno al 15 a.C., poco dopo l’uscita del suo IV libro. Ovidio presenta se stesso come l’ultimo poeta elegiaco in una serie di quattro (i primi tre sono Cornelio Gallo, Tibullo e Properzio), ma in realtà è un radicale innovatore di quel genere letterario ed è oltretutto poeta non solo elegiaco, visto che si cimenta egregiamente con altri generi come la tragedia e l’epos mitologico. Il suo esordio cade a un quindicennio della fine delle guerre civili; il ricordo di esse si va attenuando nella società e lascia spazio da un lato al sentimento di una pace realizzata – accortamente coltivato dalla propaganda augustea – , dall’altro alla domanda di una produzione letteraria interessante e più ricca, che non conservi le cicatrici di quelle dolorose vicende. Si va stabilizzando la nuova formula del potere – il principato che convive con la sopravvivenza formale delle istituzioni repubblicane; il programma augusteo di restaurazione ideologica e morale è in via di avanzata attuazione: l’Ara Pacis progettata nel 13 a.C. e inaugurata nel 9 a.C. consacra il beneficio della pax Augusta e attraverso il «potere delle immagini» dà forma di monumento a una cultura nazionale romana. Negli stessi anni Augusto aggiunge alle sue cariche il pontificato massimo (12 a.C.), assumendo la veste istituzionale di sommo tutore dei riti e del patrimonio religioso.
La poesia di Ovidio sembra a prima vista estranea a un tale progetto, o almeno al suo nucleo ideologico più forte; la proposta ovidiana di letteratura edonistica, disimpegnata, che rielabora l’enorme bagaglio della mitologia greca rendendolo fruibile a un pubblico più vasto, risponde però a un disegno che non è avulso dalla complessità della politica culturale augustea, articolata su più livelli. La varietà e pluralità della offerta letteraria soddisfa le richieste di una società mondana che desidera giovarsi dei frutti di una ritrovata concordia in seno alle classi benestanti. Il pubblico di Ovidio, inoltre, è specificamente un pubblico di lettori, non di uditori. Il volume come oggetto di consumo culturale si diffonde in una fascia più ampia che accede anche a biblioteche pubbliche ormai esistenti oltre che a biblioteche domestiche.
Nei componimenti dell’esilio, in particolare nelle Epistulae ex Ponto, Ovidio fa mostra di una molteplicità di relazioni che lo legano in vari modi con letterati e poeti e con la nobiltà romana vecchia e nuova; una nobiltà che ruota ormai in cerchi concentrici più o meno vicini alla domus imperiale. Ma con una famiglia soprattutto il poeta di Sulmona rivela di aver intrattenuto rapporti molto simili a quelli di clientela e di patronato: la nobile casata di Marco Valerio Messala Corvino, il “mecenate” della elegia latina. Antico oppositore di Ottaviano, poi suo tiepido sostenitore, Messala protegge nel proprio cenacolo una poesia amorosa come quella di Tibullo e di Sulpicia lontana da ideali patriottici e, a detta di Ovidio, incoraggia e accompagna i primi passi del quarto poeta elegiaco. Il Sulmonese si avvicina dunque all’entourage augusteo in modo indiretto (sebbene sua moglie Fabia sia stata benvoluta dalla zia di Ottaviano) e sviluppa una autonoma linea letteraria che trova posto a lungo nella cultura dell’epoca e non è considerata deviante o pericolosa nei riguardi della politica culturale ufficiale. Tuttavia a questa autonomia e “diversità” il poeta ama alludere con toni di irriverente leggerezza che talora sfiorano la rivendicazione: at Venus Aeneae regnat in urbe sui, «nella città del suo Enea, Venere regna»; non Marte, dio della potenza militare che è il fondamento reale dell’impero, impegnato però lontano da Roma per le residue guerre (nunc Mars externis animos exercet in armis: Amores I, 8, 41-42); e nemmeno una astratta Pax, conforme alla narrazione augustea: bensì Venere, Aeneadum genetrix – è vero – e quindi progenitrice anche di Augusto, ma soprattutto dea della bellezza e degli amori. Perfino il dio Giano, punto di riferimento e caposaldo della tradizione religiosa latina, deve ammettere con realismo e buon senso: «lodiamo i tempi andati, ma ci adattiamo ai nostri» (laudamus veteres, sed nostris utimur annis: Fasti I, 225). E però lodare i tempi andati è in qualche modo esattamente il programma ideologico retrospettivo di Augusto.

Poiché nelle elegie dell’esilio il tema autobiografico è indissolubilmente connesso alla condanna subita e alla battaglia di Ovidio per cancellarla o per attenuarne le conseguenze, è chiaro che il poeta si trova a muoversi su un crinale molto sottile e non privo di rischi: deve difendersi al meglio, ma non può accusare il principe di essere stato ingiusto perché non farebbe che aggravare la propria situazione. Ovidio è stato condannato con un editto monocratico di Augusto e non con un processo davanti al senato (e non è detto che in questo secondo caso gli sarebbe andata meglio, come dimostra quanto accaduto a Cornelio Gallo). La pena comminata non è la più grave: non solo non è la morte, ma è una relegatio che diversamente dall’exilium non comporta la confisca dei beni. Cosicché il principe va addirittura ringraziato, e su questa base gli si può chiedere non solo di non aggravare la pena – mentre qualche mestatore a Roma sta brigando per arrivare all’esproprio – ma di alleviarla, consentendo al condannato un avvicinamento all’Italia. Ciò che il poeta lamenta è soprattutto la spaventosa lontananza della località di confino, Tomi sul Mar Nero, la sua posizione in un territorio barbaro e desolato ai margini del mondo conosciuto.
Nella propria difficile autodifesa Ovidio asserisce, com’è noto, di essere stato rovinato da un carmen e da un error. Il carmen è l’Ars amatoria come più volte egli ha modo di chiarire. In effetti, la massima temerarietà della poesia ovidiana, sul piano esplicito, è quella dell’Ars e dei poemetti connessi (un corpus composto fra 1 a.C. e 1 d.C.): l’invenzione della elegia didascalica e, nel contempo, lo stravolgimento del genere didascalico piegato a insegnare non la filosofia, la natura, l’agricoltura, bensì i metodi e la tecnica per fare conquiste amorose; e spinto per di in più, nel terzo libro dell’Ars, fino a insegnare tali metodi anche alle donne. Inutile è la giustificazione a posteriori secondo cui la donne cui Ovidio si è rivolto sarebbero etère, professioniste ed entraineuses: in realtà il poema disegna comportamenti consueti fra le matrone e le donne della nobiltà e in esse trova lettrici interessate. Notevole è la chiusa: Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea turba, puellae / inscribant spoliis “Naso magister erat” (III, 811-12); «Come prima hanno fatto i giovani maschi, ora voi, ragazze, mia schiera, scrivete sulle spoglie da voi conquistate: Ovidio è stato il mio maestro». Poema provocatorio, insomma; eppure un tale poema circola liberamente per otto anni senza conseguenze, mentre Ovidio compone la sua massima opera, Le Metamorfosi, seguita dai Fasti, e cura l’edizione definitiva delle Heroides. Gli attacchi li aveva comunque già subiti (si difende nei Remedia Amoris, subito dopo l’Ars) evidentemente da parte di ambienti non tanto potenti da farlo cadere in disgrazia, ma almeno abbastanza influenti da indurlo a stare in guardia; e infatti non scrive più di amori. Forse per spiegare questa stranezza – un castigo tanto tardivo – dirà nei Tristia che qualcuno, malevolo, ha fatto leggere fuori tempo quei versi ad Augusto attirandone l’attenzione, mentre il sovrano aveva ben altro da fare che occuparsi di una poesia frivola.
C’è però una seconda causa della condanna: un error; ed è una causa più importante, quella vera (il poema è solo un pretesto); ma Ovidio non può dirla, perché se lo facesse – afferma – rinnoverebbe il dolore di Augusto, e di conseguenza ne accrescerebbe l’ira peggiorando irrimediabilmente la propria sorte. In due o tre passi (Tristia II, 103-104; III, 5, 49-50; III, 6, 27-28) dice non senza oscurità che l’error consiste nell’avere visto qualcosa che non doveva vedere, nell’essere stato testimone (o attore sia pure non protagonista?) di un fatto grave, in danno del principe. L’episodio è identificato plausibilmente con la contemporanea caduta e condanna di Giulia Minore, nipote di Augusto, incolpata come già sua madre per uno scandalo di adulterio che potrebbe nascondere un intrigo politico. Ovidio peraltro accosta prudentemente la propria vicenda a quella ben più grave che oltre un trentennio prima aveva segnato la fine di Cornelio Gallo, potente collaboratore di Augusto oltre che iniziatore dell’elegia latina. Lo fa rilevando la differenza: Gallo è stato punito non per i suoi versi erotici, ma per avere sfrenato troppo la lingua in stato di ubriachezza (Tristia II, 445-446), cioè verosimilmente per avere espresso su Augusto giudizi indipendenti e ritenuti intollerabili; Ovidio, invece, non ha pronunciato parole sacrileghe dopo aver bevuto troppo (Tristia III, 5, 47-48: non aliquid dixive, elatave lingua loquendo est, / lapsaque sunt nimio verba profana mero).
Una volta stabilita questa linea di difesa, che resta sostanzialmente immutata per tutto il decennio dell’esilio – una colpa che il poeta ammette, ma che dichiara essere stata del tutto involontaria – il tema autobiografico si articola nel racconto del viaggio, prima, e della permanenza, poi, in latitudini abissalmente distanti e invivibili. Ma l’apologia di se stesso e – nonostante tutto – della propria capacità di resistenza rimane un Leitmotiv. La lotta di Ovidio per sopravvivere al mare tempestoso e pauroso durante il trasferimento è in qualche modo una metafora della impari lotta per difendersi dal potere che lo perseguita. La tempesta quasi ostacola Ovidio scrittore, non vuole che racconti queste sue sofferenze: improba pugnat hiems indignaturque quod ausim / scribere se rigidas incutiente minas (Tristia I, 43-44). L’esilio minaccia seriamente l’ispirazione e l’agibilità letteraria di Ovidio, togliendogli la serenità necessaria alla sua ispirazione poetica e addirittura costringendolo ad abbandonare al loro destino le amate Metamorfosi, senza la revisione e la indispensabile mano finale. Nei lunghi anni che seguono, è ricorrente la rappresentazione di Tomi come una sorta di fortino circondato da nemici armati fino ai denti, ultimo avamposto della civiltà, pericoloso, gelido e spesso innevato (con evidente iperbole: l’odierna Costanza è una rinomata località balneare…). Ultima me tellus, ultimus orbis habet (Epistulae ex Ponto II, 8, 66). Si innesta così quasi agevolmente il tema mitologico: il riferimento agli Argonauti che pure si spinsero fino al misterioso Ponto Eusino per trovare il Vello d’Oro, a Ulisse che visse tante peripezie lontano dalla patria, con l’ovvia differenza che quegli eroi mitologici, alla fine, tornarono a casa. Ovidio non è attratto da ciò che Baudelaire definirà «orrore simpatico» biasimando nel poeta delle Metamorfosi l’insensibilità al fascino dell’ignoto: «Avido dell’oscuro e dell’incerto / non gemerò come gemette Ovidio /cacciato via dal suo Eden latino» (Fleurs du mal, 82, trad. Luigi de Nardis). Tuttavia alla fine anche l’infelice esule, in un paese dove non si conosce la lingua latina e pochi parlano greco, si adatterà a imparare l’idioma getico, comporrà in getico alcuni versi e sarà stimato e onorato da quella gente barbara che non è incapace di rispetto.
Non va peraltro sottovalutato né tanto meno ignorato il fatto che attraverso il metodico invio a Roma di epistole elegiache – messaggi in qualche modo pubblici, “lettere aperte” che si accompagnano e si integrano con la corrispondenza epistolare vera e propria, privata e riservata – il poeta si propone di conservare e alimentare una attività di relazione con la società romana; intrecciando e consolidando legami pur fra momenti di disperazione e pessimismo, Ovidio persegue alcune ben precise finalità pratiche. La prima finalità è quella che abbiamo già indicato, e che viene apertamente dichiarata: ammorbidire la pena, almeno avvicinarsi a Roma, e nel contempo parare i colpi dei nemici che vorrebbero appropriarsi dei suoi beni. Ma un fine ulteriore, che si rivela non secondario e anzi acquista una rango primario man mano che le speranze in un parziale perdono si affievoliscono, è quello di tutelare la propria opera poetica: sia i libri del periodo felice sia questi ultimi, della «tristezza»; non permettere che i propri rotoli vengano rimossi dalle biblioteche, anzi trovare posto anche per questi che arrivano a Roma dal Ponto; preservare e continuare a costruire la propria fama. Le elegie tristi cercano collocazione nelle biblioteche pubbliche (quelle di Augusto e quella di Asinio Pollione), ma non la trovano: l’auspicio è che siano accolte almeno nelle dimore private (Tristia III, 1, 65 sgg.), magari al posto dei tre volumi di Ars amatoria, messi al bando (Epistulae ex Ponto I, 1, 11-12). La strategia dell’esule implica soprattutto il tentativo di riconquistare qualche considerazione nella casa regnante aggirando l’impraticabile contatto diretto con il principe e cercando spazi di rapporti con l’erede al trono Tiberio e con il successore designato di questo, Germanico, dei quali intende celebrare il trionfo per le campagne in Germania (12 d.C: Epistulae ex Ponto II, 1, 63 sgg.). Dopo la morte di Augusto (14 d.C.) Ovidio si rivolge con reiterata intensità ai due autorevoli personaggi, che già operano per un rinnovamento letterario; a Germanico, poeta lui stesso, è intestata la dedica dei Fasti nella edizione aggiornata cui Ovidio lavora a Tomi. Questa strategia ebbe un parziale ma significativo successo: non nella revoca o attenuazione del bando, che Tiberio non accordò, ma almeno nella riparazione della fama del poeta e nella conservazione dei libri. A Ovidio fu restituita o non fu tolta la considerazione pubblica di sommo artista: tale lo indica lo storico ufficiale dell’età tiberiana, Velleio Patercolo, includendo il Sulmonese fra i perfectissimi, con Virgilio e Tibullo (non Orazio e non Properzio; Historia Romana II, 36); soprattutto, le sue opere si salvarono quasi tutte, compresa l’Ars incriminata.  

Si riscontra nelle elegie dell’esilio un singolare contrappunto di sottomissione – che sembra intensificarsi col passare del tempo e diventa molto spesso enfasi encomiastica – e di accenti di protesta, affermazioni di indipendenza. Un contrasto che tradisce la difficoltà e la insostenibilità della situazione in cui il poeta si trova. La protesta è in brevi frasi collocate qua e là, apparentemente sotto tono. Frasi come questa: «Ho subito la pena del mio ingegno» (Tristia II, 11-12: Hoc pretium curae vigilatorumque laborum / cepimus: ingenio est poena reperta meo). Ovidio intuisce forse che questa è la motivazione più nobile del proprio stato di vittima, da indicare alla posterità. Ma così dicendo contraddice l’atteggiamento di accettazione altrove esibito. Ancora più netta è la seguente asserzione: «Sono in compagnia del mio ingegno e ne traggo giovamento; Cesare in ciò non ha potuto avere nessuna giurisdizione» (Tristia III, 7, 47-48: ingenio tamen ipse meo comitorque fruorque: / Caesar in hoc potuit iuris habere nihil). Libertà dello spirito, dunque, che non soggiace alla costrizione della legge e al potere. «La mia mente si è rifiutata di soccombere al male e usando tutta la sua forza si è mostrata invitta» (Tristia IV, 10, 103-104: indignata malis mens est succumbere seque / praestitit invictam viribus usa suis). Doveva già apparire alquanto strano e decisamente temerario il riferimento autobiografico al proprio anno di nascita, il 43 a.C., descritto come «il tempo in cui caddero fatalmente entrambi i consoli» (cum cecidit fato consul uterque pari: Tristia IV, 10, 6). Il console Aulo Irzio (il continuatore del De bello Gallico e del Bellum civile di Cesare) era morto il 21 aprile in battaglia contro Marco Antonio nella guerra di Modena; il collega Gaio Vibio Pansa lo aveva seguito due giorni dopo, stroncato dalle ferite riportate in combattimento. Morti sospette, specie la seconda: grazie alla scomparsa contemporanea di ambedue i massimi magistrati Ottaviano, che combatteva al loro fianco, a soli vent’anni aveva potuto ottenere il suo primo consolato, con le armi in pugno e con una clamorosa forzatura costituzionale. I sospetti coltivati fin da subito a proposito delle due morti opportune sono attestati da Tacito (Annales I, 10). L’ambiguità della allusione, sebbene motivata dalla necessità di indicare il proprio anno di nascita, non poteva sfuggire a Ovidio. Insomma, il poeta di Sulmona ricorda al principe che la propria venuta al mondo è coeva e strettamente congiunta al fatto violento che segna la genesi del trono di Ottaviano.
Non mancano infine i cenni se pure retoricamente dubitativi circa l’onnipotenza del divo Augusto. «Sebbene sia un dio e come tale sappia tutto, Cesare ignora la condizione di questo luogo estremo in cui mi trovo» (Epistulae ex Ponto I, 2, 71-72: Nescit enim Caesar, quamvis deus omnia norit, / ultimus hic qua sit condicione locus). «L’ira di un uomo mite non mi avrebbe mandato qua, se solo avesse saputo quanto basta di questa terra» (ivi, 87-88: Ira viri mitis non me misisset in istam, / si satis haec illi nota fuisset humus). Quel dio non sa tutto, e in particolare sa poco e niente sulle regioni estreme del suo impero. Di conseguenza, anche la decantata pace si svela essere una finzione; in questa scoperta si avverte una sfumatura sarcastica: «credimi, in tutto il mondo non c’è posto che meno di questo goda della Pax Augusta» ( vix hac invenies totum, mihi crede, per orbem / quae minus Augusta pace fruatur humus: Epistulae ex Ponto II, 5, 17-18). E se non c’è qui, nella periferia imperiale, la Pax Augusta probabilmente non c’è neanche altrove; non esiste, non è che è un’invenzione.

Pasquale Martino


       da Academia.edu, 2018



sabato 18 aprile 2020

Franco Martinelli


Storia del pilota partigiano che diventò pittore


Franco Martinelli, Soldati in ritirata
L’interesse per le vicende biografiche individuali sta alimentando uno dei filoni più proficui della ricerca sulla lotta di Liberazione in Italia. Ricostruire le biografie, far rivivere le persone nella drammaticità e concretezza delle loro scelte e dei loro percorsi, è tentare di comporre le innumerevoli tessere capaci di animare il grande mosaico collettivo della Resistenza. Per quanto riguarda Bari, l’acquisizione recente di maggiore spessore è forse la ritrovata figura di Giuseppe Zannini, morto a Mauthausen (di cui abbiamo scritto più volte su queste pagine nel 2017); e vanno ricordati i lavori di ricercatori dell’Ipsaic, nonché lo sforzo compiuto dallo storico salentino Ippazio Luceri, che ha pubblicato una sorta di dizionario di schede biografiche (migliaia) di partigiani pugliesi, in più volumi dei quali uno riservato a Bari e provincia. Viene alla luce ora – ne parliamo qui in anteprima – la storia di Franco Martinelli, che sua figlia Rita sta raccogliendo pazientemente attraverso il riordino del ricco archivio lasciatole dal padre. La ringraziamo per averci consentito di anticipare qui per sommi capi la vicenda su cui uscirà un volume da lei amorevolmente curato.  
     Franco Martinelli nasce a Turi nel 1917 e muore a Bari nel 1993. Nel 1940, quando l’Italia entra in guerra, è sottotenente dell’aeronautica. Nel 1941, pilota di aerei da ricognizione, compie numerose missioni esplorative in mare aperto, «dimostrando in ogni circostanza perizia e ardimento» (così la motivazione della medaglia di bronzo che gli viene conferita). Promosso tenente, è a Roma quando l’armistizio dell’8 settembre 1943 si abbatte con effetti disastrosi sulle forze armate italiane. Arrendersi o darsi alla fuga individuale verso casa? Resistere ai tedeschi o, al contrario, collaborare con loro e con i fascisti che rialzano la testa? Gravi alternative con le quali si misura allora la coscienza del singolo, poiché le catene di comando sono in crisi. La difesa armata di Roma contro l’occupante tedesco è abbandonata dagli stati maggiori, sebbene molti militari vi partecipino. Un gruppo consistente dell’aeronautica si riorganizza allora su base volontaria come un settore di punta di quello che diventerà il «Fronte militare clandestino della Resistenza» facente capo al colonnello Montezemolo martire delle Fosse Ardeatine; Martinelli prende parte attiva a questa vicenda, in cui il notevole contributo dell’aeronautica è meno conosciuto.
    
Il sottotenente Franco Martinelli nel 1941
Nel Sud occupato dagli Alleati si ricostruisce faticosamente ciò che è rimasto delle forze armate italiane; pur nella cobelligeranza, i velivoli della nostra aeronautica operano per volontà e agli ordini degli angloamericani soltanto al di fuori del territorio italiano. Ma a Roma tenuta in pugno dai nazisti è attiva dal novembre ’43 la rete clandestina dell’aeronautica con a capo il generale Umberto Cappa, organizzata in «bande», «gruppi» e «sottogruppi», uno dei quali è affidato alla guida di Martinelli e ne prende il nome: agisce da servizio informazioni militare, osserva i movimenti dei tedeschi e della polizia fascista, effettua sabotaggi, svolge attività logistiche; previene retate e deportazioni di lavoratori forzati, compie azioni di propaganda e riesce a individuare gli spostamenti notturni di un treno blindato tedesco che trasferisce pezzi di artiglieria. Azioni documentate in una relazione dattiloscritta del capogruppo di Martinelli, tenente colonnello Vincenzo Tabocchini, e in un volume stampato dall’aeronautica subito dopo la guerra. Rita ricorda che il padre – il quale non riservava che sobri e rari cenni a questa esperienza – soleva tuttavia compiere viaggi della memoria, veri pellegrinaggi nei luoghi della Resistenza romana, culminanti nella visita a via Rasella, dove i partigiani eseguirono la loro maggiore azione di guerra contro i tedeschi.  E in proposito va detto che anche l’aeronautica pagò un alto tributo di sangue alla feroce rappresaglia nazista, con 17 vittime delle Fosse Ardeatine. Il fronte militare clandestino – ha scritto Alessandro Portelli – fu «un movimento di colonnelli, tenenti e capitani» che agirono in condizioni materiali e psicologiche simili a quelle dei Gap partigiani, scambiando con questi informazioni e armi.
     Dopo la liberazione di Roma (giugno ’44) Martinelli rientra a Bari dove, congedato, si laurea in giurisprudenza. La sua coscienza antifascista è matura: nel giugno ’45 si iscrive all’Anpi, l’associazione partigiana appena costituita (tessera n. 155 della sezione provinciale barese, firmata dal segretario Raffaele Conte) con la qualifica di «patriota»; nel 1947 la Commissione laziale per il riconoscimento della qualifica di partigiano e patriota gli attribuirà l’ambita qualifica di «partigiano combattente». La sua visione politica lo orienta verso il partito d’azione; a Bologna, dove si reca per esercitare il giornalismo – e dove incontra la futura moglie – è in rapporti e in corrispondenza con personalità come il rettore Edoardo Volterra, vecchio antifascista e partigiano, poi giudice costituzionale, Cipriano Facchinetti e Cino Macrelli, entrambi azionisti e poi repubblicani, entrambi ministri con De Gasperi. Scambia lettere anche col comunista Giuliano Pajetta e frequenta il Fronte della Gioventù, nel quale il Pci è maggioranza. Dedicatosi infine alla famiglia, a Bari, dà spazio nondimeno alla sua vocazione artistica, di pittore e poeta. Ha lasciato manoscritti letterari e un gran numero di tele che ha esposto in più d’una mostra, al celebre Sottano, con Raffaele Spizzico e Guido Prayer. Alcuni disegni a china ritraggono momenti dolorosi della guerra, soldati sofferenti in ritirata, prigionieri suppliziati. Anche questa produzione figurativa Rita Martinelli intende presentare degnamente al pubblico. 

Pasquale Martino       
« La Gazzetta del Mezzogiorno», 18 aprile 2020