sabato 23 novembre 2013

Catullo


 

Il viaggio di Berenice nella letteratura

Berenice II, Gipsoteca di Monaco
Ciò che rende famosa La Chioma di Berenice è in primo luogo la storia singolare di questo testo che, nato nel III secolo a.C. da un’invenzione di Callimaco – del quale però si è quasi del tutto perso l’originale greco – viene travasato due secoli dopo in un diverso contenitore linguistico, la versione  latina di Catullo, che gli consente di percorrere una tradizione di quasi due millenni, dopodiché rivive in una lingua moderna grazie alla bella traduzione di Ugo Foscolo.
L’idea nasce in ambiente alessandrino, assecondando parecchi caratteri tipici della poesia ellenistica e specialmente della poetica callimachea: in particolare il gusto per una poesia dotta, scientifica, «eziologica» (che spiega le origini di un mito raro o di un nome geografico, indagando l’àition o «causa»). Callimaco, letterato della corte di Alessandria, intende comporre un poema di chiara finalità encomiastica in onore della regina Berenice II, già principessa di Cirene, la quale, sposando nel 246 a.C. il re Tolomeo III Evergete, ha posto fine ai dissidi fra i due paesi e ha portato la propria terra in dote all’Egitto; un poema che, dunque, in pari tempo celebri la fusione fra Egitto e Cirenaica (patria di Callimaco oltre che di Berenice) ed esalti il ruolo che i Cirenei svolgono nel grande regno ellenistico. Inserito da Callimaco alla fine dei suoi IV libri di Àitia in distici elegiaci, il poemetto si propone di spiegare, appunto, la «causa» per la quale una costellazione celeste ha preso il nome di Chioma di Berenice.
Johannes Hevelius, Uranographia, 1690 
L’aneddoto, raccontato anche da Igino (De astronomia II, 4), è il seguente. Subito dopo aver sposato Berenice, Tolomeo Evergete parte per una guerra contro Seleuco II di Siria: in questa occasione la regina fa voto di tagliarsi i capelli se lo sposo tornerà vincitore. Al verificarsi dell’evento auspicato, la ciocca (o treccia) di capelli viene consacrata e collocata nel tempio di Venere Arsinoe Zefiritide; ma il giorno seguente scompare misteriosamente. Il re è molto contrariato da tale circostanza, ma a questo punto interviene opportunamente lo scienziato e astronomo Conone di Samo, il quale rivela che la chioma è stata assunta fra gli astri: e indica un gruppo di stelle collocate in coda al Leone, fino a quel momento rimaste senza nome. Da allora gli astronomi identificano una nuova costellazione, appunto la Chioma di Berenice: è l’operazione che i Greci chiamavano katasterismós, «collocazione fra le stelle».
L’originale greco del componimento callimacheo, in distici elegiaci, ci è pervenuto in pochi frammenti, uno dei quali, il piú cospicuo, rinvenuto su un papiro (Aitia, IV, fragm. 110 Pfeiffer). Sicché la versione catulliana costituisce una preziosa fonte per ricostruire il poemetto alessandrino e, là dove è possibile, confrontare la versione latina col testo greco frammentario, per apprezzare la qualità di Catullo come traduttore. A quanto dice lo stesso poeta latino (carme 65), la traduzione dell’elegia callimachea risponde a una sollecitazione di un amico, che per lo più viene identificato  con il celebre oratore Q. Ortensio Ortalo; questi, poeta egli stesso, ha chiesto in dono dei versi a Catullo; il giovane veronese riferisce a Ortensio che il suo stato d’animo è ora pervaso da una tristezza infinita a causa della morte del fratello. Ciononostante Catullo, se anche non riesce a comporre propri versi, manda all’amico la traduzione del poemetto di Callimaco. Tutto ciò è raccontato in una elegia di 12 distici (carme 65), raccolta nel liber catulliano subito prima della Chioma di Berenice, della quale costituisce la dedica indirizzata per l’appunto a Ortensio Ortalo.
Nel preteso carattere occasionale che Catullo dà alla pubblicazione (e forse anche alla composizione) del carmen doctum, come se non si trattasse di uno sforzo letterario notevolissimo, è da vedere il consueto atteggiamento, per cosí dire, “minimalista” del poeta novus che connota la propria fatica poetica come un’attività di natura privata e di ambito limitato, un contributo di affetto fra amici. Per altri versi la dedica a Ortensio non sembra affatto occasionale: infatti proprio l’oratore-poeta rappresentava, in seno alla poesia dotta romana, un indirizzo sostanzialmente anticallimacheo, tollerante nei confronti dei vasti componimenti epico-storici che Callimaco aborriva. La composizione e la dedica della Chioma di Berenice appaiono pertanto conseguenze di una consapevole valutazione militante, di battaglia letteraria.
Certo la trattazione dell’argomento astronomico è di per sé in linea con la vocazione dotta della poesia ellenistica: già Arato, contemporaneo di Callimaco, aveva pubblicato un poemetto scientifico che dava ampio spazio all’astronomia, i Fenomeni, molto lodato dallo stesso Callimaco (epigramma 27) e – proprio nell’età di Catullo – tradotto a Roma da Cicerone e imitato dal poeta novus Varrone Atacino; in età augustea, Manilio comporrà il poema Astronomica. Ma il tratto piú squisitamente callimacheo e neoterico della Chioma di Berenice è nella levitas ed eleganza che assortisce leggiadramente la dottrina astronomica, il mito, l’attualità e infine l’intensità dell’eros temperata dal pudore coniugale: temi questi ultimi molto cari a Catullo, insieme con la simpatia per le minuscole entità (qui la ciocca o il ricciolo di capelli femminei) sulle quali si proiettano la venustà e la gentilezza della donna.
Dopo aver contribuito alla fortuna di Catullo specialmente dall’Umanesimo in poi, La Chioma di Berenice ispira nel 1803 la traduzione in endecasillabi sciolti di Ugo Foscolo: un esercizio letterario raffinatissimo, che consente al poeta delle Odi e nei Sonetti (contemporanei alla Chioma) di sperimentare la rivisitazione e l’attualizzazione neoclassica del mito antico, da cui scaturiranno i frutti maturi e gli esiti complessi dei Sepolcri e delle Grazie, nuovi carmina docta in endecasillabi sciolti. E fra le numerose traduzioni poetiche che sono venute in seguito, non va taciuta quella delicata di un altro poeta, Salvatore Quasimodo, cui la lirica antica – nella sua duplice dimensione, di esperienza emotiva e di ricca elaborazione culturale – ha suggerito originali forme di rilettura novecentesca, quasi di «poesia pura» e di «frammento» mitologico.

Pasquale Martino
da: Catullo, Antologia di passi tratti dal Liber, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007