domenica 24 novembre 2013

Storia e memoria

Se la memoria diventa monumento
bisogna scavare le radici



Memoria e ricerca storica interagiscono; a volte, se così si può dire, si rincorrono, e a volte divergono. La memoria collettiva si costruisce nel tempo come fattore di coesione di comunità civiche, sociali, nazionali; è un insieme di memorie individuali ma anche una complessa sintesi che seleziona gli elementi fondativi di un racconto corale, di una vicenda di oppressione e di riscatto. Raramente è un patrimonio condiviso, poiché coesiste con memorie “altre”, addirittura confliggenti; si pensi alla compresenza, nella generazione degli anni ’70, di narrazioni del tutto distanti (se ne è avuta una riprova nelle discussioni sollevate dai funerali del brigatista Gallinari). Per questo la storiografia è indispensabile: perché tenta di definire i termini entro i quali il ricordo e il racconto hanno un fondamento attendibile, non sottostanno all’arbitrio di una parzialità. Peraltro, il sapere storico è esso stesso materia di controversia, essendo improntato a punti di vista comunque soggettivi; i quali tuttavia, se ispirati a un metodo serio, devono pur confrontarsi e dare risposte documentate ai punti di vista difformi.

Tutto ciò rischia di complicarsi quando la memoria diventa istituzione; perché tende a irrigidirsi in uno standard, a ripetersi, addirittura a saturarsi. È necessario, certo, che la memoria collettiva venga istituzionalizzata, in un certo senso consacrata, affinché il monumentum sia in pari tempo testimonianza e pubblica ammonizione: ma è proprio allora che la ricerca storica deve giocare al rilancio, per aprire le piste che si dipanano inesplorate; anche se l’esito del cammino introdurrà sensibili varianti nella narrazione originaria. L’istituzionalizzazione, inoltre, comporta quello che è stato chiamato l’«uso pubblico della storia», e dunque l’intreccio inevitabile fra memoria e politica. Per fare un esempio significativo, a lungo la storiografia della Resistenza ha coinciso con la tradizione della memoria antifascista in una rappresentazione sostanzialmente compatta; poi i cambiamenti prodottisi con la fine della guerra fredda hanno frastagliato il racconto; ma non necessariamente in senso “revisionistico”. Una categoria ostica come quella di «guerra civile» è entrata nella storiografia antifascista ma – al netto di una scaltra pubblicistica dedita a deprecare la violenza dei partigiani – ha consentito di sviluppare percorsi conoscitivi intorno alla «moralità della Resistenza» (è il sottotitolo del saggio più noto di Claudio Pavone) indagando inoltre criticamente anche l’“altra memoria”, quella di chi combatté dalla parte opposta. Per converso la Shoah, che fino a un certo punto era stata trattata come un tragico capitolo all’interno della grande epopea internazionale antinazista, ha via via assunto una dimensione autonoma, dispiegando nella rievocazione e nella celebrazione il suo valore prevalente di unicità storica.
È stato giusto fissare la rappresentazione della Shoah, in un certo senso assicurandola, nella giornata del 27 gennaio. Ma poi, la ricerca ha incominciato a scandagliare in profondità la fase storica che ha precorso la «soluzione finale»: in Italia, l’applicazione delle leggi razziali del 1938, il cui ricordo era rimasto a lungo schiacciato dall’enormità dell’Olocausto, apparendo quasi secondario. Parallelamente, la storiografia sta facendo emergere le responsabilità italiane non soltanto nei raccapriccianti eccidi coloniali, ma anche in quelli della seconda guerra mondiale e nella stessa persecuzione degli ebrei; sta destrutturando lo stereotipo «cattivo tedesco, bravo italiano» (è il titolo di un libro di Francesco Focardi appena uscito): un’operazione di verità, doverosa per ripensare l’autobiografia di una nazione che molto spesso è stata incline ad assolversi.


Pola durante l'esodo istriano
Il che ci conduce a un altro «giorno del ricordo»: il 10 febbraio, istituito poco tempo dopo la giornata del 27 gennaio. Per essere portatrice di una catarsi autentica, la rappresentazione delle sofferenze subite dagli italiani vittime delle foibe e dell’esodo non dovrebbe oscurare il contesto della ventennale oppressione fascista ai danni del popolo sloveno, culminata in atroci crimini di guerra. Il paradosso è che in questo caso una commissione storica paritetica italo-slovena ha prodotto nel 2000 un’ampia relazione, soffermandosi sulle responsabilità delle due parti: una rara operazione di anamnesi condivisa, che offre un’importante cornice per la ricerca storiografica, ma che le celebrazioni ufficiali sembrano tenere in poco conto. È il rischio che si corre quando la consacrazione della memoria resta impigliata fra gli steccati dell’opportunità politica contingente, soggiacendo alla tentazione di usare una memoria contro l’altra, per un impossibile bilanciamento delle colpe.

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 9 febbraio 2013