
Il 7 e il 14 maggio i lavoratori
attuarono due scioperi di 24 ore, ma non ottennero l’apertura di un serio
negoziato; quindi passarono immediatamente a una forma di lotta piú incisiva,
peculiare nel biennio ’68-69: lo «sciopero articolato», che si svolgeva a
rotazione nei reparti, un’ora per ciascuno. Era un sistema di sciopero che
intaccava in misura minima il salario ma infliggeva danni devastanti alla
produzione. La direzione aziendale denunciò l’illegalità di questa forma di
lotta, e contrattaccò prendendo di mira i delegati sindacali della commissione
interna: il segretario dell’organismo fu licenziato in tronco, ad altri tre
membri furono comminati provvedimenti disciplinari e un quinto ricevette una
diffida. Cinque su sette delegati furono colpiti. La prima reazione dei
lavoratori fu un'altra astensione dal lavoro di 24 ore, attuata il 22 maggio;
la direzione replicò ancora a muso duro, mettendo in atto la serrata della
fabbrica il 24 e il 25 maggio. A questo punto, il 27 maggio alle ore 14, alla
fine del primo turno di lavoro, gli operai occuparono la fabbrica. La richiesta
non era piú soltanto l’accoglimento in toto della piattaforma
rivendicativa, ma anche la revoca di tutti i provvedimenti disciplinari.
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La Breda Fucine Meridionali nel 1962 (foto dal sito ufficiale) |
L’occupazione delle Fucine
Meridionali durò 47 giorni (dal 27 maggio all’11 luglio): fu una grandissima
prova di forza, l’inaugurazione e il vero atto costitutivo del movimento
operaio nelle fabbriche baresi. Secondo la «Gazzetta del Mezzogiorno» (28.5.1968) gli occupanti
erano quattrocento (dunque, la stragrande maggioranza dei lavoratori). Erano
tutti uomini, per lo piú giovani sulla trentina d’anni. Scattò subito una
campagna di solidarietà: delegazioni di lavoratori della Pignone Sud e della
Breda Hupp portarono cibo, sigarette, coperte e altri generi di conforto;
furono avviate sottoscrizioni in molte fabbriche. Le mogli degli occupanti
furono ricevute ripetutamente nel Comune, e ottennero aiuti, latte e zucchero
per i bambini, buoni viveri, erogazioni straordinarie tramite l’ufficio
assistenza. Il consiglio comunale di Bari e il consiglio provinciale
approvarono ordini del giorno di solidarietà. La domenica il parroco della
Cattedrale, sacerdote attento alla questione operaia, celebrava la messa dentro
la fabbrica occupata.
Una pattuglia di studenti
universitari si recò alle Fucine fin dal primo giorno di occupazione. Apparve
subito che l’incontro non sarebbe stato facile. Gli studenti avevano contatti
soprattutto con giovani operai di sinistra, alcuni dei quali sarebbero
diventati quadri dirigenti della Fiom, della Cgil e del Pci. Ma l’occupazione
era rigorosamente chiusa e gli estranei vi erano ammessi eccezionalmente; la
direzione unitaria di Cgil Cisl Uil era rigida e ben organizzata. Diverso e piú
spontaneo diventerà il rapporto negli scioperi dell’autunno ’68, quando la
presenza degli studenti sarà necessaria per rafforzare i picchetti operai
davanti alle fabbriche (come era accaduto alla Fiat di Torino). Per le Fucine
il «movimento studentesco in lotta» organizzò volantinaggi di solidarietà e fu
presente nei cortei cittadini a sostegno della vertenza. A parecchi quel ruolo
sembrò puramente accessorio e decorativo; tanto che in seguito alcuni si
espressero severamente in termini di «deflusso del movimento studentesco».
Si imbastirono a ripetizione
trattative lunghe e stremanti in prefettura e anche a Roma presso il ministero
del lavoro, ma la posizione intransigente dell’azienda e dell’associazione
delle industrie pubbliche, l’Intersind, era irremovibile, specialmente riguardo
al ritiro dei provvedimenti disciplinari. Il 6 giugno i lavoratori delle
aziende a partecipazione statale effettuarono uno sciopero generale di 24 ore
in tutta la provincia. Un corteo di almeno cinquecento persone attraversò le
vie di Bari. Un secondo sciopero con le stesse caratteristiche si tenne il 18
giugno, e di nuovo i lavoratori manifestarono nella città. Questa volta
parteciparono anche gli operai della Firestone Brema, che il 29 maggio avevano
scioperato per una vertenza aziendale. [...]
Nella vertenza delle Fucine la
resistenza della controparte incominciava a scricchiolare. La direzione dispose
che il pagamento delle spettanze maturate dagli operai fino al 26 maggio (il
giorno precedente l’occupazione) fosse effettuato presso l’ufficio regionale
del lavoro, nella speranza di dividere il fronte e di svuotare l’occupazione;
gli operai che non aderivano all’occupazione andarono subito a riscuotere, gli
occupanti invece vi si recarono alla spicciolata e a turno, senza sguarnire il
presidio interno. Poi la direzione fece filtrare la notizia – prima di avanzare
la proposta al tavolo di trattative – che il licenziamento del segretario della
commissione interna si sarebbe potuto convertire in trasferimento presso
un’altra azienda, e che Cisl e Uil sarebbero state d’accordo; ma queste ultime
smentirono immediatamente, ribadendo la posizione unitaria concordata la Cgil.
Intanto uno sciopero nazionale di
solidarietà previsto per il 28 giugno fu sospeso perché la trattativa era stata
riaperta, e definitivamente fissato per il 12 luglio in caso di nuova rottura.
L’8 luglio si riuní un’assemblea sindacale intercategoriale per preparare lo
sciopero. All’alba dell’11 luglio, in extremis e alla vigilia dello
sciopero generale, dopo dieci ore di trattative notturne fu raggiunto l’accordo
per la vertenza delle Fucine. L’intesa prevedeva: la maggiorazione dei guadagni
di cottimo; la definizione transattiva degli aumenti (da 21,25 lire l’ora per
gli operai specializzati a 16,75 lire l’ora per i manovali comuni); la
liquidazione a ogni dipendente di 85 mila; un anticipo di 11.300 lire sul
premio incentivante; in piú, 30.000 lire per ciascun operaio da rimborsarsi in
dodici rate mensili a partire da settembre. Era un risultato importante sul piano
economico: a parte gli altri emolumenti, l’aumento orario avrebbe accresciuto
la busta paga mensile di 7.600 lire per l’operaio specializzato e di 6.700 lire
per il manovale comune (allora il salario non superava di molto le settantamila
lire mensili, all’incirca). Poi c’erano alcuni impegni: a ridefinire tempi e
tariffe del cottimo; ad esaminare le richieste che sarebbero state presentate
per il passaggio di qualifica; ad affrontare e risolvere entro dicembre la
questione della salute e della nocività negli ambienti di lavoro. Riguardo alle
relazioni sindacali, la direzione accettava il distacco giornaliero, a turno,
di un componente della commissione interna, per i controlli relativi
all’ambiente e alla salute. Infine i provvedimenti disciplinari a carico dei
quattro membri di commissione interna, quantunque non revocati, non sarebbero
stati iscritti nelle cartelle personali; l’operaio licenziato sarebbe stato
collocato in un’altra azienda del gruppo Efim-Breda e avrebbe goduto di una
indennità extracontrattuale di 500.000 lire. Questi ultimi punti consentivano
alla direzione di salvare la faccia.
La stessa mattina dell’11 luglio
gli operai approvarono l’accordo e l’occupazione delle Fucine Meridionali ebbe
termine.
L’impresa senza precedenti di
quei lavoratori sarebbe rimasta a lungo nella memoria operaia, perdurando
miticamente anche nell’immaginario del movimento giovanile di sinistra (se è
vero che negli anni ’90 la prima esperienza di «centro sociale occupato
autogestito» a Bari – antecedente rispetto al Coppolarossa di Adelfia – si
scelse il nome di Fucine Meridionali). Soprattutto, la novità fu la compattezza
dimostrata dai lavoratori, nonostante le differenti appartenenze sindacali e
tendenze politiche, e le oggettive divisioni indotte dal notevole ventaglio
gerarchico di qualifiche (operai specializzati, operai qualificati, operai
comuni di prima, operai comuni di seconda, manovali comuni), le quali, a
dispetto di ciò, spesso non corrispondevano alle mansioni effettivamente
svolte.
Pasquale Martino
da: Bari 1968. Storia di un anno impavido, Laterza, Edizioni della Libreria, Bari, 1968