Novanta anni dopo Gentile
La scuola che ricomincia il suo ciclico cammino, sotto il segno di inveterate paure e di speranze ridotte, farà bene a riflettere sulla propria storia. Per esempio, sui novant’anni compiuti, nel 2013, dalla riforma Gentile: che, con la sua compatta sequenza di regi decreti varati nel 1923 (gli ultimi, il 30 settembre e il 1° ottobre), resta lo sforzo più impegnativo e organico di dare un ordinamento al sistema scolastico nazionale. Ebbe un bel dire Mussolini – del cui primo governo, nato dopo la Marcia su Roma, Gentile era ministro – che quella era «la più fascista delle riforme»: essa era, in realtà, il capolavoro della filosofia idealistica italiana, e segnatamente dell’ala hegeliana, che allo Stato etico assegnava anche il compito di guidare, con pugno accentratore, la formazione della classe dirigente e l’istruzione delle classi popolari. Il fascismo eclettico avventurosamente giunto al potere cercava consensi nel mondo intellettuale e chiedeva perciò aiuto alla personalità di Giovanni Gentile; il quale, coadiuvato da un esperto come Giuseppe Lombardo Radice, produceva un esito apprezzato da Croce e da molti altri; non da Gobetti, non da Gramsci.
Un grande docente come Augusto Monti scrisse su «La Rivoluzione Liberale» (aprile 1923) che quella di Gentile era «scuola dei padroni e scuola dei servi». Un giudizio acuto ed essenziale. L’impronta destinata a caratterizzare la riforma era in effetti la separazione classista fra il curriculum della élite, imperniato sul ginnasio-liceo, e il curriculum dei ruoli subordinati o manuali, basato sull’istruzione tecnica e sulla scuola complementare. Dando il colpo di grazia alla vecchia cultura positivista, Gentile confermava il predominio assoluto della formazione umanistica, confinando il sapere scientifico in un livello subordinato e staccandolo a sua volta dalla formazione tecnica. Creava quindi il liceo scientifico e l’istituto magistrale come strutture gregarie della scuola umanistica. Istituiva gli esami di Stato e, infine, introduceva l’insegnamento della religione cattolica, ma soltanto nella scuola elementare: la visione religiosa conferiva il senso morale alle intelligenze ancora spontanee mentre quelle più mature, nei licei, avrebbero studiato la filosofia; materia che venne allora abbinata con la storia, e questa coppia sarà uno dei lasciti duraturi della scuola gentiliana.

Questa doveva rispondere al nuovo dettato costituzionale: la rimozione degli ostacoli che frenavano l’accesso all’istruzione. Ma per arrivare a una riforma di portata significativa si dové aspettare la scuola media unica del 1962, che faceva saltare la separazione precoce fra i due curricula, anche se non garantiva né l’adempimento dell’obbligo né il diritto allo studio, come denunciò anni dopo don Milani. Fu comunque una delle riforme importanti di quel centro-sinistra (sollecitata dalla domanda popolare di istruzione e favorita da un’opposizione comunista intelligente), cui si aggiunse nel 1968 la scuola materna statale, che Gentile aveva trascurato. I Decreti Delegati del 1974 non incisero sugli ordinamenti scolastici, ma introdussero gli organi collegiali e le assemblee (strumenti presto sviliti e depotenziati). Vaghi sprazzi si intravidero ancora negli anni ’80 (piano di informatica, piano di edilizia scolastica, perfino qualche lira in più per gli insegnanti). Nel decennio seguente ebbe inizio la «scuola dell’autonomia», che purtroppo coincise con la crisi del debito pubblico e con la micidiale sequenza di tagli alla spesa che arriva fino ai nostri giorni. L’«autonomia» diventò un rompete le righe: ogni scuola doveva provvedere da sé alla propria sopravvivenza. Certo non mancarono interventi, ma la logica di fondo era quella. Delle cosiddette “riforme” degli anni 2000 – rimaneggiamenti maldestri e vendicativi – non è nemmeno il caso di parlare.
Non ci azzardiamo a fare pronostici. Ma il quadro politico odierno non è in grado di garantire nulla. Gentile aveva alle spalle una tradizione culturale e pedagogica; il centro-sinistra degli anni ’60 aveva un’ispirazione ideale e una propensione riformatrice. Vi erano progetti di scuola, rispondenti a diverse fasi dell’economia e della società. E almeno si credeva che la scuola pubblica fosse strategica, e si era conseguenti quando si trattava di scrivere il bilancio. Oggi, esiste un’idea che non sia il mercato flessibile dell’istruzione e lo «Stato sociale minimo»? E su quali forze intellettuali, morali e politiche – non retoriche – può contare la smarrita scuola italiana?
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno» 12 settembre 2013