domenica 5 giugno 2016

1936: Italia, Etiopia, Spagna

80 anni fa, dieci prima della Costituente
La guerra fascista, "moderna" e globale 

Obice italiano e reparto di artiglieria in Etiopia 
Celebriamo a giusta ragione il 70° della repubblica e della Costituente, ma facciamo fatica a pensare, nonché a ricordare, che cos’era l’Italia soltanto dieci anni prima: ottanta anni fa, nel 1936, a monte di un decennio terribile. Eppure senza questa memoria non capiremmo davvero il prezzo pagato per la libertà. Quell’anno infatti l’Italia monarchica e fascista – che registrò allora il massimo consenso al regime (lo ha spiegato Renzo De Felice) – dette il suo fattivo contributo alla spinta verso la Seconda guerra mondiale. 
Il 9 maggio, di fronte a una «adunata oceanica», Mussolini proclama la nascita dell’impero. È la vittoria sull’Etiopia: ultima e anacronistica impresa coloniale di una potenza europea, realizzata quando il colonialismo occidentale è in declino e si intravedono ormai quei processi di decolonizzazione che prenderanno piede dopo il ’45. Ma quel conflitto è altresì straordinariamente nuovo e “moderno”: per l’organizzazione logistica meticolosa, per la massiccia mobilitazione (quasi mezzo milione di uomini) e per l’uso spietato della superiorità tecnica sull’avversario (unità motorizzate, carri armati, artiglieria, aviazione, gas letali). Fu «la prima guerra scatenata da un regime fascista europeo», e fu «un evento di portata globale» (Nicola Labanca, La guerra d’Etiopia, Il Mulino, 2015). Una guerra “industriale” – con una sconvolgente sproporzione di caduti  fra le due parti – e un esperimento del grande massacro a venire. Un anno dopo Walter Benjamin concludeva il suo saggio più famoso citando proprio la conquista dell’Etiopia come esemplare riprova della tendenza dei regimi fascisti a fondare il consenso su un’estetica della guerra. Il futurismo di Marinetti incontrava la demagogia mussoliniana del popolo “proletario” che finalmente conquista lo spazio a lui finora negato. Senza contare la svolta razzista che perverrà alle leggi del ’38. Il paradosso è che lo sforzo immane del conflitto abissino, oltre a dissestare il bilancio dello Stato per generazioni (che continueranno a pagare le accise sulla benzina per quella spesa), consegnerà un’Italia militarmente sfibrata e inefficiente all’irresponsabile decisione di condividere la sfida hitleriana. E la prima a cadere sarà proprio la colonia etiope, snervata da indomite formazioni partigiane e, nel 1941, dissolta dall’avanzata inglese. 
Manifesto spagnolo
contro l'intervento italiano 
Ma intanto, nel ’36, il duce si sente un protagonista agli occhi del mondo ed è pronto per un’altra avventura bellica: l’appoggio all’insurrezione franchista in Spagna, due mesi dopo l’ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Già a fine luglio l’aviazione italiana – l’arma considerata “fascista” per eccellenza – protegge il trasferimento delle truppe di Franco, che appoggerà costantemente fino a partecipare con l’aviazione tedesca al bombardamento terroristico di Guernica nel ’37. Senza l’aiuto italiano dei primi mesi, è dubbio che la sedizione militare avrebbe attecchito. Nel corso del ’36 arrivano dall’Italia anche le truppe di terra: composte da “volontari” che non portano le stellette, in omaggio alla finzione di neutralità. Un corpo di spedizione di 50.000 uomini che però finirà sconfitto a Guadalajara, nel marzo ’37.
L’Europa corre ormai verso la guerra e il conflitto spagnolo ne è il banco di prova. L’Italia è stata la prima a destabilizzare la Società delle Nazioni e l’equilibrio precario della pace di Versailles. Nel ‘36 Hitler, emulo di Mussolini, manda l’esercito a occupare la Renania, stracciando il trattato di pace, e minaccia l’Austria con il tacito avallo del duce, che è disposto a cedere molto all’accordo col Terzo Reich. Si arriva, il 25 ottobre, alla nascita dell’«asse» Roma-Berlino, cui si affiancherà a novembre il patto anti-Comintern fra Germania e Giappone (la potenza militarista che nel ’31, invadendo la Manciuria, ha posto un altro tassello della futura guerra globale). Infatti l’unificazione tra le forze nazifasciste mondiali avviene sotto il segno della lotta al principale nemico: il bolscevismo, di cui le democrazie capitalistiche sarebbero – secondo i fascisti – oppositrici pusillanimi se non addirittura complici. Queste sono le basi di una guerra civile internazionale, che sembra ormai in pieno svolgimento: il fronte popolare delle sinistre vince le elezioni del ’36 in Francia oltre che in Spagna, e ad agosto il VII congresso del Comintern propone il fronte popolare antifascista. Ma le democrazie occidentali non aiutano la repubblica spagnola e dialogano con Mussolini e Hitler, nella colpevole presunzione di giocarli concedendo loro qualcosa e con la speranza che essi scarichino la loro aggressività contro la Russia sovietica. 

Combattenti antifascisti in Spagna: al centro Ilio Barontini
con Luigi Longo alla sua destra
Per converso, l’antifascismo italiano si getta nel cimento, vincendo la demoralizzazione causata tra le sue file dal successo africano del regime (si pensi al disorientamento che traspare nel ’36 dall’infelice appello comunista ai «fratelli in camicia nera»). Molti esuli italiani si arruolano subito nelle brigate internazionali, formatesi per combattere contro i franchisti, seguendo l’intuizione ben espressa dallo slogan del leader di Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Fra questi c’è Ilio Barontini, il “garibaldino” comunista che due anni dopo sarà con alcuni compagni in Etiopia a dar man forte alla guerriglia e poi prenderà parte alla Resistenza italiana. A uomini e a donne di tal fatta – inclusi quelli che, anonimi, resistettero in patria con la muta testimonianza e con qualche forma di disobbedienza – si deve se l’Italia del 1936 non fu soltanto quella delle imprese belliche fasciste, della retorica antipacifista e degli osannanti raduni di massa; se, in quell’anno sanguinoso, furono comunque preservati e difesi un pensiero e una moralità che nel ’46 si sarebbero tradotti in un fatto: la nostra pur difettosa democrazia.  

Pasquale Martino    

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 4 giugno 2016