mercoledì 25 novembre 2015

Dalla Resistenza a Benny


Così Bari nutre la geografia della memoria  


Una sorta di geografia della memoria storica va prendendo forma a Bari. Esposizioni e monumenti realizzati in periodi e in modi diversi ma che potrebbero essere letti come un insieme coerente. All’interno di questa mappa, trova spazio una topografia della memoria antifascista che si è andata disegnando nel tempo, quasi a confutare l’annosa taccia di Bari «città fascista»: un cliché nato da un cedimento conformistico all’immobilismo storico; un affronto alla città da cui partivano gli appelli radiofonici alla Resistenza, e che  era stata una infrastruttura vitale degli Alleati nella guerra antinazista. Anche per influenza del quadro politico postbellico, quella memoria restava come sommersa, inespressa, assai poco alimentata dalle istituzioni rappresentative. Negli anni ’70 le epigrafi firmate in solitudine dall’Anpi presso il palazzo della Dogana del Porto e all’interno della Posta centrale –per coloro che il 9 settembre ’43 si erano opposti ai tedeschi – testimoniavano da un lato la tenacia dell’associazione partigiana, dall’altro la prudente distanza delle amministrazioni pubbliche. Del resto, non è casuale che la medaglia d’oro per la Resistenza alla città di Bari sia arrivata soltanto nel 2006, nella stagione, cioè, di un’operosa sensibilità istituzionale. Ma era appunto, ormai, un’altra epoca; in cui la lunga semina dell’impegno civico, della ricerca storiografica, del lavoro delle scuole produceva frutti maturi. A questa fase è ascrivibile fra l’altro il progetto delle «pietre d’inciampo» – ispirate agli Stolpersteine dell’artista Gunter Demnig – realizzato nel 2010-2013 dal Comune in collaborazione con l’Anpi, l’Ipsaic e la Camera del Lavoro-Cgil. Parole di pietra e di ottone, che nominano fatti e caduti dell’antifascismo nel 1922 e nel ’43. E dal 2014 una targa nell’aula consiliare barese reca doverosamente il nome di Filippo D’Agostino – deportato e ucciso dai nazisti – che fu eletto in quel consiglio prima della dittatura.  
Nello svolgimento complesso e problematico del rapporto fra città e storia, la vicenda delle commemorazioni di Benedetto Petrone, il giovanissimo antifascista ucciso il 28 novembre 1977 (ne ricorre il 38° anniversario), è quasi un paradigma. Dopo il processo, un velo di silenzio si stende sulle memorie individuali che molti continuano a custodire, mentre lo stesso antifascismo dà risposte sporadiche. Rimane l’icona di un volto fiero che a Bari tutti identificano  immediatamente, anche gli antipatizzanti e gli indifferenti. Resiste l’epigrafe in piazza Libertà, messa dai compagni di Benedetto, documento che la quotidianità opacizzante non ha potuto riassorbire. Resta – lo si dovrà riconoscere – la duratura pedagogia civile di un libretto collettivo, Le due città, che passa di mano in mano fra le generazioni di giovani che non c’erano, ma vogliono sapere. Poi, forze politiche riscoprono l’esempio del ragazzo assassinato da neofascisti, dando vita alle manifestazioni rievocative, preparando il terreno. Ed è in coincidenza con la rifioritura civica di cui abbiamo detto, che le commemorazioni di Benny diventano parte integrante del discorso pubblico. Fino a culminare nel 2009, con l’intitolazione a Petrone della via d’accesso a piazza Chiurlia, per decisione del Comune che accoglie la proposta del Comitato 28 Novembre. A Benedetto sono stati dedicati siti internet, film, spettacoli, recital, fra cui una ballata del compianto Enzo Del Re, e molteplici iniziative di giovani in tutta la Puglia.
Per questo ci sembra che un ulteriore e significativo evento si compia, oggi, grazie a una intelligente scelta dell’Arci. Nella sede di Bari Vecchia, l’associazione culturale istituisce, con il Comitato 28 Novembre, una mostra fotografica permanente sui giorni di Benedetto Petrone. Messa insieme collettivamente l’anno scorso per una esposizione provvisoria, la mostra prende ora il suo posto di rilievo nella geografia della coscienza storica barese, non diversamente – a ben vedere – dal Museo civico appena risistemato e dalla esposizione stabilmente allestita in Casa Piccinni. Tanto più se si considera la proprietà comunale dell’immobile, confiscato alla criminalità. Non è soltanto una vittoria conclusiva sulla menzogna che pretendeva di delegittimare Benny e i suoi amici come teppistelli «barivecchiani»: è giustizia per quei ragazzi che, riconoscendosi nel movimento operaio e nella democrazia, volevano sottrarre la città vecchia a un destino di povertà e devianza.  Ma la mostra ha per protagonista soprattutto la cittadinanza, colta nella sequenza del cordoglio, della rabbia, del ricordo. Uno specchio di corpi e facce in cui la città odierna potrà guardarsi, trovando conferma che quella non è una storia estranea, ma è la sua storia.  

Pasquale Martino 
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 novembre 2015  
    


domenica 1 novembre 2015

Indonesia 1965

Lo sterminio dimenticato

In un’epoca di memoria istituzionale, punteggiata da giornate che commemorano stragi, una grande dimenticanza copre l’immane carneficina indonesiana del 1965. Joko Widodo, il nuovo presidente di quel popoloso paese (il più vasto a maggioranza musulmana, con una costituzione laica) ha deluso finora le aspettative, non cogliendo l’occasione del cinquantenario per rompere il silenzio pubblico su una storia tragica, tuttora tabù. Un oblio di cui neppure i paesi occidentali sono incolpevoli, in primis gli Usa che sostennero il colpo di Stato del generale Suharto realizzando una vittoria strategica nella guerra fredda. 
In Occidente la vicenda fu rievocata dal lungometraggio di Peter Weir Un anno vissuto pericolosamente (1982) che valse l’Oscar all’attrice Linda Hunt. Ma la trama del film si ferma alla vigilia dello sterminio. Le stime sul numero dei morti oscillano fra il mezzo milione e, più verosimilmente, il milione e oltre. Erano militanti del partito comunista indonesiano (Pki), simpatizzanti, sindacalisti, immigrati cinesi vittime di odî etnici. Fino a quel momento l’Indonesia era governata dal presidente Sukarno, leader dell’indipendenza strappata all’Olanda nel 1945 e cofondatore con Nehru e Tito del movimento dei paesi non allineati, le cui basi furono gettate proprio nell’arcipelago indonesiano, a Giava, con la conferenza di Bandung (1955). Sukarno era inviso agli americani, che avevano già tentato di sbarazzarsene, per il suo neutralismo e per il compromesso interno che aveva raggiunto con i comunisti dopo averli contrastati. Il Pki era il più grande partito comunista fuori dai paesi socialisti, con tre milioni di iscritti e il 16% dei voti nelle elezioni parlamentari del 1955. Protagonista della lotta per la riforma agraria, aveva alcuni viceministri nel governo di Sukarno e si candidava a vincere le elezioni successive. Una prospettiva allarmante per gli Usa, già impegnati in Asia nella guerra del Vietnam e nella contesa regionale con la Cina, oltre che nel confronto globale con l’impero sovietico; uno scenario, peraltro, analogo a quello che si aprirà poco dopo nel Cile di Allende e per altri versi in Italia, negli anni dell’avanzata del Pci. 
Fra l’altro si discutevano in Indonesia ipotesi di nazionalizzazione degli impianti petroliferi e delle piantagioni di caucciù. L’alternativa – come nell’Iran indipendentista di Mossadeq, come in Grecia e in Cile – erano i militari, fra i quali si fece strada il quasi sconosciuto Suharto. Il pretesto fu un controverso colpo di mano avvenuto a Giacarta il 30 settembre ’65, nel quale furono uccisi sei generali. Sebbene il Pki condannasse il complotto, la colpa fu data ai comunisti, come nel 1933 per l’incendio del Reichstag. Suharto esautorò Sukarno e dette il via alla mattanza. Questa fu protratta per mesi dall’esercito con l’aiuto di bande paramilitari, di gruppi di gangster e di supporter anticomunisti d’ogni risma. La propaganda dipinse gli affiliati del Pki come belve sanguinarie e come propagatori dell’ateismo, ottenendo così la complicità degli integralisti islamici e indù (l’induismo è maggioritario a Bali, dove il Pki voleva abolire il sistema delle caste) e perfino di alcune minoranze cristiane. Le donne bollate come comuniste venivano esecrate quali demoni corruttori. Giustificazioni per lo sterminio. La caccia al comunista vero o presunto fu meticolosa, capillare, conclusa da detenzioni violente, torture sistematiche e sadiche esecuzioni in cui il modo più umano era il colpo di pistola, raro. Al placarsi della furia metodica chi era sopravvissuto restò in carcere, privo di ogni diritto. È dimostrato l’intervento della Cia nella preparazione golpista dei militari indonesiani e nella montatura propagandistica anti-Pki, molto probabile è inoltre che l’agenzia statunitense abbia fornito gli elenchi degli iscritti al partito.
Arresto di un militante del Pki da parte dell'esercito
Certo è che gli Usa puntellarono la trentennale dittatura di Suharto, anche quando occupò e annesse Timor Est nonostante la condanna dall’Onu e condusse una campagna di annientamento contro il fronte indipendentista dell’ex colonia portoghese, quasi facendo il bis del massacro indonesiano. Sul quale, intanto, era sceso un silenzio tombale. Dopo la caduta di Suharto (1998) e l’inizio di un processo di democratizzazione, associazioni non governative hanno incominciato a ricostruire la memoria di quei fatti, ottenendo ambigue e inconcludenti risposte dalle istituzioni. Il velo è stato strappato a livello internazionale dal documentario del regista americano Joshua Oppenheimer, The act of killing (2012), coprodotto da Werner Herzog e nominato nella cinquina degli Oscar. Oppenheimer ha rintracciato a Sumatra una comitiva di killers del ’65, criminali che gestivano fra l’altro il bagarinaggio dei cinema e che ancora oggi, da vecchi, taglieggiano i commercianti cinesi. Li ha messi a raccontare davanti alla cineprese, ed è venuta fuori la cronaca surreale e agghiacciante della strage (uno dei testimoni vanta mille omicidi) in nome della “libertà” e con una presunzione di eroismo che soltanto fugacemente è incrinata dall’emergere di un oscuro senso di colpa. È l’intuizione di Claude Lanzmann che in Shoah (1985) intervistò con apparente distacco i carnefici delle SS, elevata però a sistema, per così dire: tanto che gli assassini diventano qui narratori e attori, oltre che beniamini di un’associazione paramilitare dai tratti fascistoidi, la Gioventù di Pancasila, il cui referente politico è stato fino al 2009 il vicepresidente dell’Indonesia. Costoro non hanno mai temuto di essere processati. Invece i cineasti indonesiani che, rischiando, hanno collaborato al film sono citati come «anonimi» nei crediti finali. È duro fare i conti con un passato tanto scomodo. È stata finora sempre osteggiata la proposta di riabilitare le vittime e i loro figli e perfino di dare vita a una commissione per la riconciliazione nazionale.

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 31 ottobre 2015