Così
Bari nutre la geografia della memoria
Una sorta di geografia della memoria storica va prendendo forma a Bari. Esposizioni e monumenti realizzati in periodi e in modi diversi ma che potrebbero essere letti come un insieme coerente. All’interno di questa mappa, trova spazio una topografia della memoria antifascista che si è andata disegnando nel tempo, quasi a confutare l’annosa taccia di Bari «città fascista»: un cliché nato da un cedimento conformistico all’immobilismo storico; un affronto alla città da cui partivano gli appelli radiofonici alla Resistenza, e che era stata una infrastruttura vitale degli Alleati nella guerra antinazista. Anche per influenza del quadro politico postbellico, quella memoria restava come sommersa, inespressa, assai poco alimentata dalle istituzioni rappresentative. Negli anni ’70 le epigrafi firmate in solitudine dall’Anpi presso il palazzo della Dogana del Porto e all’interno della Posta centrale –per coloro che il 9 settembre ’43 si erano opposti ai tedeschi – testimoniavano da un lato la tenacia dell’associazione partigiana, dall’altro la prudente distanza delle amministrazioni pubbliche. Del resto, non è casuale che la medaglia d’oro per la Resistenza alla città di Bari sia arrivata soltanto nel 2006, nella stagione, cioè, di un’operosa sensibilità istituzionale. Ma era appunto, ormai, un’altra epoca; in cui la lunga semina dell’impegno civico, della ricerca storiografica, del lavoro delle scuole produceva frutti maturi. A questa fase è ascrivibile fra l’altro il progetto delle «pietre d’inciampo» – ispirate agli Stolpersteine dell’artista Gunter Demnig – realizzato nel 2010-2013 dal Comune in collaborazione con l’Anpi, l’Ipsaic e la Camera del Lavoro-Cgil. Parole di pietra e di ottone, che nominano fatti e caduti dell’antifascismo nel 1922 e nel ’43. E dal 2014 una targa nell’aula consiliare barese reca doverosamente il nome di Filippo D’Agostino – deportato e ucciso dai nazisti – che fu eletto in quel consiglio prima della dittatura.
Nello
svolgimento complesso e problematico del rapporto fra città e storia, la vicenda
delle commemorazioni di Benedetto Petrone, il giovanissimo antifascista ucciso
il 28 novembre 1977 (ne ricorre il 38° anniversario), è quasi un paradigma. Dopo
il processo, un velo di silenzio si stende sulle memorie individuali che molti
continuano a custodire, mentre lo stesso antifascismo dà risposte sporadiche. Rimane
l’icona di un volto fiero che a Bari tutti identificano immediatamente, anche gli antipatizzanti e gli
indifferenti. Resiste l’epigrafe in piazza Libertà, messa dai compagni di
Benedetto, documento che la quotidianità opacizzante non ha potuto riassorbire.
Resta – lo si dovrà riconoscere – la duratura pedagogia civile di un libretto
collettivo, Le due città, che passa
di mano in mano fra le generazioni di giovani che non c’erano, ma vogliono
sapere. Poi, forze politiche riscoprono l’esempio del ragazzo assassinato da
neofascisti, dando vita alle manifestazioni rievocative, preparando il terreno.
Ed è in coincidenza con la rifioritura civica di cui abbiamo detto, che le commemorazioni
di Benny diventano parte integrante del discorso pubblico. Fino a culminare nel
2009, con l’intitolazione a Petrone della via d’accesso a piazza Chiurlia, per
decisione del Comune che accoglie la proposta del Comitato 28 Novembre. A Benedetto
sono stati dedicati siti internet, film, spettacoli, recital, fra cui una
ballata del compianto Enzo Del Re, e molteplici iniziative di giovani in tutta
la Puglia.
Per
questo ci sembra che un ulteriore e significativo evento si compia, oggi, grazie
a una intelligente scelta dell’Arci. Nella sede di Bari Vecchia, l’associazione
culturale istituisce, con il Comitato 28 Novembre, una mostra fotografica permanente
sui giorni di Benedetto Petrone. Messa insieme collettivamente l’anno scorso
per una esposizione provvisoria, la mostra prende ora il suo posto di rilievo
nella geografia della coscienza storica barese, non diversamente – a ben vedere
– dal Museo civico appena risistemato e dalla esposizione stabilmente allestita
in Casa Piccinni. Tanto più se si considera la proprietà comunale
dell’immobile, confiscato alla criminalità. Non è soltanto una vittoria conclusiva
sulla menzogna che pretendeva di delegittimare Benny e i suoi amici come
teppistelli «barivecchiani»: è giustizia per quei ragazzi che, riconoscendosi
nel movimento operaio e nella democrazia, volevano sottrarre la città vecchia a
un destino di povertà e devianza. Ma la
mostra ha per protagonista soprattutto la cittadinanza, colta nella sequenza del
cordoglio, della rabbia, del ricordo. Uno specchio di corpi e facce in cui la
città odierna potrà guardarsi, trovando conferma che quella non è una storia estranea,
ma è la sua storia.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 24 novembre 2015