giovedì 16 febbraio 2017

Debra Libanos

La strage dei cristiani nell’Africa italiana
80 anni fa l’eccidio ordinato da Graziani


Si arriva a Debra Libanos – un centinaio di chilometri a nord di Addis Abeba – percorrendo nell’ultimo tratto una strada costeggiata da mercatini a disposizione di chi va in pellegrinaggio al più importante monastero copto d’Etiopia. La grande chiesa è sempre piena, molti fedeli si assiepano fuori dei cancelli e sui declivi circostanti per partecipare alle funzioni. Un monaco accompagna i visitatori nelle stanze del museo annesso al convento: vi si racconta la storia del «Monte Libano» (questo è in lingua amarica il significato del nome) fondato nel XIII secolo da Tecla Haimanot, il più venerato santo nazionale.
A Debra Libanos non c’è un visibile ricordo del massacro di 80 anni fa; a parte, in modo indiretto, il tempio ricostruito da mano italiana dopo la guerra: una parziale e tacita espiazione per l’atroce rappresaglia di Rodolfo Graziani. Ad Addis Abeba invece gli eccidi perpetrati dopo l’attentato del 19 febbraio 1937 al viceré italiano sono ricordati da un obelisco con altorilievi nella centrale piazza Yekatit 12 (che indica la stessa data nel calendario etiope). 
Erano trascorsi meno di dieci mesi dall’occupazione dell’Abissinia; l’impero italiano combatteva con pugno di ferro contro una resistenza armata ininterrotta. La conquista dell’Etiopia era stata, insieme, l’ultima guerra del vecchio colonialismo e la prima guerra di aggressione del fascismo europeo, condotta con una mobilitazione straordinaria dell’apparato militare-industriale e con metodi di sterminio. Allo stesso modo, la gestione del paese conquistato era affidata a un regime militare che praticava la sistematica liquidazione dei capi ribelli, la persecuzione della classe dirigente indigena e la discriminazione razziale. La “normalizzazione” era guidata dal maresciallo Graziani, pupilla del fascismo, già distintosi per avere represso la rivolta della Cirenaica deportando in campi di concentramento quasi l’intera popolazione. Quando due oppositori eritrei, quel 19 febbraio, lanciarono bombe a mano durante una cerimonia del regime ad Addis Abeba, causando sette morti e numerosi feriti (fra questi ultimi anche Graziani), si scatenò una barbara caccia all’uomo: per tre giorni i residenti italiani della capitale, soldati e civili, furono chiamati a raccolta dalle camicie nere per scatenare la devastazione nei quartieri indigeni, il linciaggio e il massacro di innocenti. Le vittime furono decine di migliaia secondo le fonti etiopi, almeno tremila accertate secondo Angelo Del Boca, il massimo studioso del nostro colonialismo. Fu una vendetta su vasta scala e senza alcun fondamento legale, apertamente riconosciuta dal federale fascista di Addis Abeba che il 21 febbraio affisse un manifesto per ordinare la cessazione della rappresaglia. Ma era solo l’inizio di una lunga strage, che proseguirà con centinaia di esecuzioni sommarie, con le deportazioni e il tentativo di decapitare l’intellighenzia etiope e il clero copto, eliminando perfino i cantastorie ambulanti, rei di profetizzare poeticamente la fine del dominio italiano. Un’operazione che oggi si definirebbe di pulizia etnica, anticipatrice degli orrori della Seconda guerra mondiale.

Al culmine c’è Debra Libanos. Tre mesi dopo l’attentato, a freddo, le truppe del generale Pietro Maletti vengono inviate a regolare i conti con i vertici della chiesa nazionale, attaccando il grande monastero dove – secondo il risibile pretesto – avrebbero trovato rifugio gli attentatori di febbraio. Il 19 maggio i monaci vengono imprigionati nella chiesa; il giorno dopo sono trasferiti a gruppi, con i camion, in una località scelta appositamente; qui, allineati, coperti da un telone, vengono fucilati, quindi finiti con il colpo di grazia. La stessa sorte tocca poi a tutti i giovani diaconi. Mai prima un massacro è stato altrettanto chiaramente documentato come questo, di cui resta lo scambio di telegrammi e dispacci fra Maletti, Graziani e Mussolini. Gli stessi massacratori forniscono la cifra di 449 fucilati: sono le Fosse Ardeatine del fascismo italiano. Ed è il più grande eccidio di cristiani consumato in Africa, per eseguire il quale furono coinvolti ascari libici e somali, in modo da fomentare sanguinosi odî tra fedi diverse. Le ricerche successive, condotte sul campo dagli storici Ian Campbell, inglese, e Degife Gabre-Tsadik, etiope, attestano che le vittime furono molte di più, il triplo o il quadruplo.
La memoria dimenticata (in Italia) è stata però rievocata da un bel documentario di Antonello Carvigiani, a cura di Dolores Gangi e per la regia di Andrea Tramontano (Debre Libanos, 2016, trasmesso da Tele2000 e ora visibile su Youtube). Certo l’Etiopia dopo la fine del conflitto mondiale è stata magnanima con gli italiani, pur chiedendo vanamente di processare Badoglio e Graziani come criminali di guerra. Numerosi nostri connazionali sono rimasti lì a lavorare in pace. Non lasciano indifferenti le immagini finali del film, che ritraggono Sergio Mattarella in visita ufficiale in Etiopia, mentre incontra i vecchi partigiani superstiti della guerriglia anti-italiana. Ora sono altri tempi; dei quali fa parte, però, anche l’odierna cooperazione italo-etiope per la costruzione di impianti idroelettrici nella Valle dell’Omo – una sorta di “colonia interna”, un “Sud” geografico e metaforico sempre penalizzato dalla classe dirigente ahmara e tigrina. Lo sviluppo accelerato delle produzioni agroindustriali sta rovinando l’agricoltura e la pastorizia tradizionali, le comunità primitive, i villaggi, esacerbando i conflitti sociali ed etnici. Ma questa è un’altra storia, che racconteremo un’altra volta.             

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 15 febbraio 2017  

Immagini: Debra Libanos negli anni 1930.