venerdì 27 febbraio 2015

Il Colosseo

L’anfiteatro che vive.
Come Marziale ne raccontò i fasti

Disegno del Colosseo, di autore ignoto
Nessun monumento forse, quanto il Colosseo, gode di una permanente vitalità. Sta saldamente nell’immaginario collettivo, ed è l’oggetto di una discussione sempre aperta sul presente e sul futuro. Un dibattito che si è interrogato a suo tempo sul destino del «più grande spartitraffico del mondo»  e che oggi – per citare i passaggi più recenti – va dalla discussa sponsorizzazione privata dei restauri, all’idea di ripristinare l’arena per farvi svolgere manifestazioni artistiche (ne ha parlato Giuliano Volpe su queste pagine qualche mese fa), alle polemiche sulla qualità del lavoro delle imprese edili non specializzate in restauro, fino alla notizia di qualche settimana fa: l’accordo sindacale per garantire il contratto e la sicurezza dei lavoratori nel cantiere. 
Del resto, anni or sono il Colosseo si è conquistato un posto fra le Sette meraviglie del mondo moderno, a differenza del Cupolone; una ricerca con Google Immagini conferma che il grande monumento  pagano  è paradossalmente il simbolo della Città Eterna ben più delle mirabili architetture cristiane, nonostante la leggenda nera che lo riguarda (ma non c’è nessuna prova storica che i primi cristiani siano stati suppliziati là dentro).   
La nascita del Colosseo testimonia una svolta nella storia urbanistica e sociale di Roma. Il progetto arriva quando la capitale dell’impero è stata sconvolta proprio nei quartieri centrali da due eventi irreparabili: l’incendio del 64 d.C. che distrusse o danneggiò dieci rioni su quattordici; e la susseguente operazione speculativa di Nerone, che si accaparra i suoli devastati a nordest del Palatino per realizzarvi la Domus Aurea,  riservata a lui solo, con lago artificiale e giardini annessi: un’ enorme villa principesca in pieno centro. È il primo sventramento su vasta scala di quartieri popolari nella storia di Roma. Nerone viene rovesciato nel 68; dopo una sanguinosa guerra civile, si instaura con Vespasiano la dinastia dei Flavi, che presenta un programma radicalmente nuovo. Proprio nell’area dove l’ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia aveva privatizzato la città per innalzare il segno del proprio potere sovrumano, i Flavi restituiscono gli spazi al pubblico, realizzando uno stabilimento termale – il quotidiano “dopolavoro” dei Romani – e soprattutto costruendo, sul perimetro del lago neroniano, il magnifico Antiteatro Flavio. Una tipologia architettonica inventata dai Romani, che “raddoppiano” in tal modo lo schema dell’edificio teatrale mutuato dai Greci e modificato secondo le proprie esigenze. Anfiteatri si vedono dappertutto nel territorio imperiale, dalla Tunisia a Israele, da Verona a Pozzuoli, ma il più importante è il Colosseo. Ebbe questo soprannome popolare perché lì nei pressi si trovava la statua colossale di Nerone, alta 35 metri, che Vespasiano non volle abbattere; si limitò a cambiarne l’intestazione: non era più l’imperatore artista, bensì il Sole (nel quale peraltro anche l’estroso figlio di Agrippina aveva inteso identificarsi). A rimuovere il colosso provvide Adriano mezzo secolo dopo, per far posto al tempio di Venere i cui i resti dominano l’estremità del Foro.

Ricostruzione ideale dell'Anfiteatro Flavio accanto alla statua colossale
L’Anfiteatro Flavio era uno degli spazi pubblici principali, ove si radunava gran folla attratta dalla varietà di spettacoli. Progettato nel 70 da Vespasiano, fu completato dieci anni dopo dal suo successore Tito. L’inaugurazione, che si protrasse per lunghi giorni, è raccontata in una singolare cronaca letteraria scritta dal versatile Marco Valerio Marziale. Poeta povero, immigrato dalla Spagna, sempre in cerca di sussidi e protezioni, Marziale ottiene la celebrità nell’80 con la pubblicazione del Liber de spectaculis dedicato a Tito e incentrato appunto sul grande evento popolare: l’apertura del Colosseo.  L’epigramma di esordio di questo instant book dell’antichità – che si suppone sia stato pubblicato poco dopo i festeggiamenti – ha un valore quasi profetico: il maestoso edificio che ora  troneggia in Roma – afferma il poeta – oscurerà le meraviglie del mondo antico e sopravvivrà a esse. Adesso il popolo – continua Marziale – può godere di questi spazi, «delizie che prima erano appartenute a un solo padrone». L’elogio dei Flavi si fa via via più adulatorio, accompagnato però da una vivace descrizione degli spettacoli.  Nella calca che gremisce le conca si distingue gente di ogni latitudine e si odono risuonare parlate diverse.  Si comincia con l’esibizione dei condannati, uno show molto gradito alla massa giustizialista: sfilano gli ex delatori di Nerone, che saranno banditi da Roma; uno schiavo omicida e incendiario viene crocifisso. Poi è la volta della caccia alle belve esotiche, compresi i leoni e i rinoceronti, e un elefante che sembra inchinarsi davanti a Tito. E c’è la battaglia navale, per cui l’arena viene riempita d’acqua. E, naturalmente, i combattimenti gladiatorî. La plebe già beneficata da largizioni alimentari si abbandona al divertimento: panem et circenses, dirà Giovenale, il sarcastico erede di Marziale.


Pasquale Martino     

Questo articolo è stato pubblicato da «La Gazzetta del Mezzogiorno» il 19 aprile 2015

giovedì 19 febbraio 2015

Malcolm X

Il Principe dell’orgoglio nero


L'edizione originale della biografia di Marable
Malcolm X ha un posto significativo tra le icone del Novecento. Una figura affascinante per i giovani ribelli nei decenni ‘60-70; e tutto fa pensare che il leader nero ucciso a 39 anni il 21 febbraio 1965, esattamente mezzo secolo fa, continui a incarnare una leggenda e un principio per la parte più consapevole della popolazione afroamericana. Una celebre fotografia lo ritrae sorridente con Martin Luther King, in occasione del loro unico incontro. Lontani nella filosofia e nel metodo; accomunati da un obiettivo: la liberazione della loro gente; uguali nella morte, venuta da mano assassina (a King toccò tre anni dopo, nel 1968).
Guida autorevole del grande movimento per i diritti civili nei primi anni ’60, il reverendo King aveva visto appannarsi il suo prestigio dopo aver ottenuto una chiara vittoria con il Civil Right Act del 1964, al prezzo però di una riduzione della protesta nera contro la guerra nel Vietnam. A quel punto, Malcolm X (al secolo, Malcolm Little, nato il 19 maggio 1925) aveva già catalizzato su di sé le attese di una lotta più radicale, che non riponeva nessuna fiducia nelle trattative col potere bianco, poco intenzionato ad attuare concretamente la legge anti-segregazione, e faceva appello all’orgoglio nero, alla volontà di autodeterminazione, alla presa di coscienza di una identità storica, nazionale e culturale. Idee per il nascente movimento del Black Power che si sarebbe ispirato in gran parte a questi insegnamenti influenzando una generazione di militanti, intellettuali, artisti afroamericani.  
L’Autobiografia di Malcolm X fu un bestseller per un ventennio. A scriverla materialmente era stato il giornalista Alex Haley, che una dozzina d’anni dopo fece il bis del successo con il romanzo Radici e con l’omonimo sceneggiato televisivo del 1977: l’epopea nera, la storia raccontata dal punto di vista degli ex schiavi, sia pure con la retorica del teleromanzo, entrava nelle case di tutti gli americani e anche degli italiani. Nel 1992 ancora un’altra generazione conobbe Malcolm X, grazie al film (basato sull’Autobiografia) che Il regista Spike Lee collocò al centro di un’ideale storia degli afroamericani narrata attraverso il cinema. Trascorsero altri anni, e lo studioso Manning Marable intraprese la lunga ricerca che avrebbe fruttato nel 2011 la pubblicazione della nuova e monumentale biografia, Malcolm X, tutte le verità oltre la leggenda (titolo italiano, editore Donzelli). Marable – che morì appena prima di vedere la sua fatica data alle stampe – ricostruiva la vita del leader nero sfrondandola degli elementi mitizzanti accentuati da Haley (e voluti in qualche misura dallo stesso protagonista), ma restituendone appieno l’arduo percorso di maturazione umana e politica.
Piccolo criminale cresciuto nel ghetto nero, carcerato, il giovane Malcolm fa i conti con se stesso; studia in prigione, scopre la necessità del riscatto del suo popolo, aderisce alla Nation of Islam: una setta sincretista nata negli Usa circa trent’anni prima – i cui aderenti sono detti Black Muslims – che rilegge la storia del popolo nero come iniziatore della civiltà e della stessa religione islamica, costretto dall’uomo bianco a una misera decadenza. Scontata la pena, Malcolm assume il cognome simbolico di X (in sostituzione dell’ignoto nome originario, cancellato dagli schiavisti) e diventa il più apprezzato e popolare predicatore dei Musulmani neri. Ma ad avere crescente risalto è il senso politico più che religioso dei suoi discorsi: la rivendicazione dell’autonomia afroamericana, che si spinge fino a preconizzare il separatismo nero. Come tutti i leader neri e più degli altri, Malcolm X è oggetto delle invadenti attenzioni dell’FBI. La sua evoluzione politica e la popolarità personale lo rendono inviso anche ai dirigenti dei Black Muslims, con i quali rompe: convertitosi all’Islam sunnita ortodosso, predica ora una visione universalistica, che ammette la collaborazione dei neri con i bianchi nella lotta antirazzista degli oppressi. Viaggia in Africa, va in Egitto e alla Mecca. Attento all’esperienza della diaspora africana, fonda l’Organizzazione per l’Unità afroamericana (OAAU); dialoga con il panarabismo in funzione antimperialista e guarda con simpatia alle rivoluzioni di popolo come quella cubana. Riceve anche un messaggio di solidarietà da Che Guevara; ed è così che Malcolm entra nel pantheon della sinistra rivoluzionaria e internazionalista, nera e bianca.
Marable si sofferma giustamente sulle circostanze della morte, i cui veri responsabili a suo avviso non sono mai stati individuati. Malcolm X fu ucciso a colpi d’arma da fuoco in una sala pubblica a New York, mentre si accingeva a parlare. Furono arrestati tre militanti dei Black Muslims, che per iniziativa personale avrebbero interpretato alla lettera le minacce virtuali scagliate dai vertici della setta. Lo studioso afroamericano ipotizza una verità più complessa, in cui il disegno omicida si situa in una opaca intersezione fra alcuni capi della Nation of Islam da un lato, e l’FBI dall’altro, organizzazione in grado di sapere e di manovrare. In quel momento il servizio di polizia alla manifestazione dell’OAAU era pressoché inesistente.
L’orazione funebre dell’attore Ossie Davis, futuro interprete di Fa’ la cosa giusta, conteneva il seguente passaggio: «Malcolm era il nostro essere uomini, la nostra vita, il nostro essere neri. Un principe: il nostro luminoso principe nero che non ha esitato a morire perché ci amava tanto».

Pasquale Martino     


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 19 febbraio 2015 

mercoledì 11 febbraio 2015

Religione e politica

L'affaire dei baccanali



1  La religione di Roma antica era religione di Stato: un instrumentum regni che salvaguardava l'"unità nazionale" intorno alla classe dominante e ai valori costitutivi della res publica. Non esisteva un alto clero in quanto casta separata: lo stesso ceto politico senatorio ricopriva le principali cariche sacerdo­tali, prime fra tutte quelle del collegio pontificale presieduto dal pontefice massimo. Le cerimonie religiose erano di carattere pubblico e collettivo; le pratiche divinatorie, l'invocazione e il ringraziamento agli dèi scandivano i tempi e le ricorrenze della vita sociale, economica e politica: la semina e il raccol­to, l'entrata in guerra e la conclusione della pace. La relazione con la divinità era di tipo utilitaristico: la comunità sacrificava agli dèi per riceverne in cambio un preciso beneficio dal punto di vista economico o militare. A una tale cultura del sacro era estranea l'idea di un rapporto diretto dell'individuo con la divinità così come quella di un sentimento religioso personale. La stessa religione popolare, fatta di riti agrari e di feste carnevalesche, era sostanzialmente integrata in posizione subalterna nel quadro della religione ufficiale e dei culti statali.
Si è spesso ripetuto che lo Stato romano, la cui teologia era priva di un vero apparato dogmatico, fu tollerante con le altre fedi finché non intraprese a perseguitare il cristianesimo, reo di minare alla base il principio della fedeltà all'imperatore. Ma ciò non è del tutto vero. Se le persecuzioni contro i cristiani assunsero una portata e una entità particolar­mente rilevanti – attestate ed epicamente rivissute dalla letteratura martirologica – ciò fu in ragione della speciale estensio­ne e forza di penetrazione del messaggio cristiano, il quale raccoglieva a sua volta, in buona misura, quanto era stato semi­nato nei secoli precedenti dalle "religioni di salvezza". Nella storia di Roma esistono numerosi precedenti di intervento repres­sivo dello Stato – custode della religione tradizionale – contro i culti stranieri: il più noto è l'affaire dei baccanali, contro i quali si abbatté il maglio di un tribunale speciale istituito dal senato nell'anno 186 a.C.
La vicenda è narrata da Tito Livio in una celebre pagina delle sue storie (libro XXXIX, capp. 8-19 che qui riproduciamo).

2  Bacco era uno dei nomi del dio greco Dioniso, che i Romani identificavano con Libero, divinità popolare indigena. Il culto di Dioniso, dio del vino e dell'ebbrezza, aveva origini orientali e si era affermato fra i Greci non senza conflitti. Nel pantheon ellenico più arcaico, quale ci è tramandato dai poemi omerici, Dioniso – dio non olimpico, ma terreno e itinerante – aveva una posizione marginale; i tragici greci (in particolare Euripide nelle Baccanti) elaborarono poeticamente la memoria degli antichi e drammatici contrasti tra lo Stato e i fedeli della nuova divi­nità: la leggenda della tremenda punizione divina inflitta a Licurgo, il re che si era opposto all'introduzione del culto dionisiaco e aveva scacciato le baccanti, era nota a Roma grazie a una tragedia di Gneo Nevio rappresentata verso la fine del III secolo a.C. (e dunque pochi decenni prima del 186). Come tutte le religioni di salvezza, il culto orgiastico di Dioniso era separato e “alternativo” rispetto a quelli tradi­zionali: in esso gli individui stabilivano una relazione diretta e immediata con la divinità, dalla quale si sentivano invasati; si trattava di una religione misterica, praticata per lo più di notte da una comunità chiusa e fortemente solidale, per accedere alla quale erano necessari riti di iniziazione (mystes è l'ini­ziato). I fedeli del dio appartenevano specialmente alle classi popolari; fra essi figuravano, in posizione rilevante, soggetti che la società e la vita pubblica relegavano a un ruolo subalter­no e dipendente: gli schiavi e soprattutto le donne. Nei misteri dionisiaci la rigidità dei ruoli sociali si allentava e gli oppressi potevano attendersi dal dio la salvezza individuale e il riscatto sociale.
I baccanali (cosìi Romani chiamarono il culto di Dioniso) venivano propagati su tutte le rive del Mediterraneo da una folla di mercanti, schiavi, soldati; essi penetrarono in Italia attraverso la Magna Grecia e l'Etruria, come è adombrato dal racconto di Livio, il quale parla di un indovino greco trasferitosi in terra etrusca e, in seguito, fornisce i nomi di alcuni presunti capi dei baccanali (Paculla Annia, Minio Cerri­nio) di chiara impronta campana e dunque di area sottoposta all’influenza magno greca oltre che etrusca. Alla fine del III secolo a.C. la crisi indotta dalla seconda guerra punica – grazie agli effetti sconvolgenti dell'invasione annibalica – favorì tra le masse demoralizzate la diffusione dei baccanali e di altri culti di origine straniera. È molto difficile ricostruire gli elementi del rituale bacchico, a proposito del quale le fonti, quando non tacciono, tendono a evocare un'atmosfera di grandioso e terrificante stravolgimento dei comportamenti. Ciò appare anche nella narrazione di Livio. Ma, se è del tutto credibile – anche in base all'analogia con moderni rituali folklorici – che le pratiche orgiastiche fossero contraddistinte da convul­sioni, sfrenatezza di gesti, ebbrezza e, in qualche misura, da licenza di rapporti sessuali, non sembra invece plausibile che esse implicassero sistematicamente atti di violenza fisica o addirittura omicidi: ciò non pare in alcun modo conciliabile con la notizia – dataci dallo stesso storico romano – di una diffusione di massa dei baccanali.
Secondo Livio, all'inizio del II secolo a.C. gli affiliati al culto bacchico erano ormai molto numerosi e fra essi figuravano anche esponenti della nobiltà. Ciò costituiva senza dubbio un primo motivo di preoccupazione per il senato: in tal senso èsignificativo quel passo del discorso che Livio fa pronunciare al console Postumio, dal quale traspare il timore – demagogicamente enfatizzato – della "secessione", ossia della costituzione di un "popolo" altro, che si raduni in assemblee eversive rispetto a quelle istituzionali e che possa trovare dei capi in quei nobili che sono diventati fedeli di Bacco.
Ma una seconda e non meno importante causa della svolta repressiva è da individuare nella lotta politica al vertice dello Stato romano. Erano quelli gli anni in cui una parte della nobiltà senatoria, guidata da Marco Porcio Catone, dichiarava guerra all'egemonia degli Scipioni, i quali avevano esercitato a lungo una sorta di ditta­tura di famiglia, occupando le principali cariche pubbliche o facendole assegnare a familiari e amici. Enorme era stato il prestigio di Publio Cornelio Scipione l'Africano, il vincitore di Annibale; sulla sua popolarità si era costruita in gran parte la fortuna degli Scipioni. Ma proprio nel 187 a.C., un anno prima dell'affaire dei baccanali, il fratello dell'Africano, Lucio Cornelio Scipione detto l'Asiatico, era stato messo sotto processo per peculato: l'attacco alla signoria degli Scipioni veniva sferrato anche attraverso la via giudiziaria. Pochi anni dopo, l'Africano si ritirava sdegnosamente a vita privata. Intanto, la battaglia divampava anche sul terreno ideologico e culturale. La campagna antiscipionica di Catone si nutriva della polemica contro il filellenismo attribuito al cosiddetto "circolo degli Scipioni". Gli ambienti vicini a Scipione erano accusati di compiere ecces­sive e pericolose aperture verso la cultura greca e straniera, in nome di un nuovo ideale di humanitas (che sarà propugnato per esempio da Terenzio, il commediografo vicino a Scipione Emiliano) tendente a vanificare i princìpi fondamentali della tradizione romana (il mos maiorum difeso da Catone).
La propaganda catoniana dipingeva la civiltà greca come edonista e sofisticata, effeminata e corrotta: tutto il contrario della austera virilità, propria del costume romano antico e radicato. Scipione e Catone rappresentavano due opposte sensibilità della classe dirigente romana: l'uno intuiva la necessità che Roma, egemone nel Mediterraneo, si  attrezzasse sul piano politico-culturale ad esercitare una signoria ecumenica e multinazionale; l'altro avvertiva i fattori potenziali di disgregazione che il nuovo status di potenza mon­diale generava nella società romana improntata ancora all'ordinamento della piccola città-stato. Il conflitto fra le due visioni preannunciò i termini della lotta politica che nel I secolo a.C. avrebbe visto i capi militari (Pompeo, Cesare, Antonio, Ottavia­no) affermare progressivamente il modello del principato imperia­le di contro ai difensori del senato e della tradizione repubbli­cana.
Scipione era dunque sotto tiro: e l'affaire dei baccanali forniva un ottimo pretesto per un ulteriore rafforzamento della tendenza catoniana. Tra i riti dionisiaci e il circolo degli Scipioni non poteva essere istituita, evidentemente, nessuna relazione diretta; tuttavia il caso dei baccanali si prestava a dimostrare come l'integrità della vita sociale e dello Stato romano fosse seriamente messa a repentaglio dalla penetrazione di un culto greco, immorale e mostruoso, e come perciò ogni atteggiamento tollerante nei confronti di tale oscena diversità dovesse essere severamente condannato in quanto oggettivamente dannoso per la salute pubblica. La descrizione di Livio, che per l'appunto disegna intorno ai baccanali l'alone di una violenza e di una depravazione orrende, è ricalcata sulla versione ufficiale e sui documenti pubblici (decreto senatorio del 7 ottobre 186 e altri atti del senato): le accuse contro gli affiliati ai baccanali, di presunte perversioni sessuali, stupri e omicidi rituali, anticipano di molti secoli le argomentazioni che diventeranno consuete nella caccia alle streghe.
La repres­sione dei baccanali è dunque anche e forse soprattutto un episo­dio della lotta politica a Roma: un caso esemplare di uso spre­giudicato e cinico delle leve dell'intolleranza, della super­stizione e dello scandalismo da parte del potere politico. I misteri dionisiaci, la cui esistenza era nota da tempo, non vennero combattuti se non quando la loro soppressione apparve politicamente opportuna. Peraltro il tribunale speciale e il decreto senatorio del 186 non valsero a stroncare permanentemente i baccanali: lo stesso Livio, nel prosieguo della sua storia, dà notizia di nuove insorgenze del fenomeno già nel 185 e nel 181 a.C. Le religioni misteriche continuarono a pullulare nei decenni e nei secoli successivi, nonostante ulteriori interventi repressivi di vario segno.

3 Tito Livio (Padova, 59 a.C.-17 d.C.), scrittore grande e fertile, autore di belle pagine narrative, fu acriticamente persuaso della missione provvidenziale di Roma. Tuttavia la sua opera monumentale è un documento importante e in molti casi unico per la conoscenza della storia romana. Nel racconto sui baccanali dobbiamo sceverare l'interpretazione ideologica – per  cui Livio si adegua interamente alla versione ufficiale di fonte senatoria – dalla presentazione dei fatti che, se analizzata criticamente, ci offre non pochi dati utili e interessanti. Appaiono chiaramente attestate sia la forza di penetrazione dei baccanali in ampi strati sociali, sia la noto­rietà del fenomeno ben prima della occasionale denuncia dello stesso da parte di due individui, sia infine la difficoltà che le autorità incontravano nel reprimerlo. Molte notizie, inoltre, si possono ricavare a proposito dell'ordinamento sociale, giuridico e istituzionale. Notevole il vigore narrativo di queste pagine: la vivace rappresentazione della scena pubblica e della psicologia collettiva si intreccia con la vicenda privata degli indivi­dui che involontariamente accendono la scintilla della repressio­ne: il giovinetto Ebuzio, tradito dal malvagio patrigno e dalla madre snaturata, e la sua amante Ispala Fecennia, figura di "meretrice buona" che fa di tutto per proteggere l'amato. La novella dei due amanti ha fondamento storico assai dubbio: sembra piuttosto una trama da commedia o da romanzo, che Tito Livio ha schizzato con tratto felice e buona verosimiglianza psicologica, senza trascurare gli ingredienti patetici e i colpi di scena.


Pasquale Martino


Il testo riproduce con qualche modifica l’introduzione a Tito Livio, L’amore al tempo dei misteri, Stampa Alternativa, Roma, 1995. 

Immagini: affreschi dalla Villa dei Misteri a Pompei. 

lunedì 9 febbraio 2015

Ricomparse di Majorana

A quaranta anni dal libro di Sciascia


Periodicamente, si assiste alla “ricomparsa” di Ettore Majorana. Segnalazioni di avvistamenti sono pervenute nel corso del tempo alla famiglia dello scienziato di cui si persero le tracce il 27 marzo del 1938. Cinque anni fa qualcuno volle riconoscerlo in una fotografia che ritraeva un gruppo di passeggeri su un transatlantico in rotta per l’America, subito dopo la guerra (nella foto c’era anche il criminale nazista Eichmann; pura coincidenza o sodalizio fra i due? donde lo snodarsi di congetture romanzesche). Ora la procura di Roma certifica che lo scienziato di Catania era vivo in Venezuela negli anni ’50, accogliendo la testimonianza di un connazionale che tempo addietro esibì una fotografia (sulla quale i nipoti del fisico scomparso hanno espresso tutto il loro scetticismo) e, inoltre, una cartolina che sarebbe appartenuta al presunto Majorana e che risulta spedita nel 1920 da uno zio di Ettore, Quirino Majorana, anche lui professore di fisica, a un corrispondente americano. Questo documento, che la procura considera probante (ma lo ha visto materialmente? ha effettuato una perizia?) per quel che è dato sapere lascia in verità molto perplessi. Come mai una missiva arrivata in Usa nel 1920 sarebbe poi finita nelle mani di Majorana fuggiasco vent’anni dopo in America del Sud? E se la storia fosse invece un’altra? Qualcuno, venuto in possesso di quel documento per qualche motivo, avrebbe potuto decidere di ricamare sulla parentela fra il mittente e il grande fisico sparito nel nulla. Ovviamente, questa è solo un’ipotesi astratta, non più inverosimile di quella accreditata (in mancanza di riscontri).

Fra Quirino ed Ettore, peraltro, non doveva esistere una profonda sintonia scientifica, visto che lo zio impegnò gran parte delle sue energie intellettuali nella vana presunzione di confutare la teoria della relatività di Einstein. Lo ricorda Leonardo Sciascia ne La scomparsa di Majorana: un classico che in questi giorni mette conto rileggere. Il libro, non si sa perché, viene spesso catalogato fra i romanzi. È invece un saggio storico-biografico e, insieme, una meditazione morale e filosofica. Non c’è in esso nulla di inventato o romanzato; vi è l’apertura di scenari in cui l’immaginazione prende le mosse da fatti concreti, documenti, indizi. A nostro avviso, La scomparsa di Majorana è uno dei più manzoniani fra gli scritti di Sciascia: come nella Storia della colonna infame o nei capitoli storiografici dei Promessi sposi, lo scrittore siciliano, sperimentatore del “giallo” politico-storico, svolge un ragionamento la cui densa qualità letteraria non fa il minimo torto alla verità effettuale. I fatti restano fatti, le ipotesi si manifestano come tali in tutta la loro suggestione.
Il fisico Erasmo Recami – che ha pubblicato nel 1987 un volume di lettere, testimonianze e documenti sul caso Majorana – racconta la scrupolosità con cui Sciascia all’inizio degli anni ’70 interloquì con i familiari dello scienziato catanese ed esaminò i documenti da loro messi a disposizione, mentre preparava il suo libro. Questo uscì nel 1975 per Einaudi (dopo Todo modo, 1974, e prima de I pugnalatori, 1976: due fra i testi più famosi dello scrittore di Racalmuto), e sollevò subito una contestazione da parte di Edoardo Amaldi, uno dei «ragazzi di via Panisperna», lo straordinario gruppo di giovani scienziati che negli anni ’30 operò a Roma intorno a Enrico Fermi. Amaldi, grande nome della fisica italiana, ha lasciato importanti testimonianze sui rapporti del gruppo con Majorana, che ne era un componente geniale e inquieto. Il disaccordo di Amaldi riguardava in particolare la ricostruzione di un episodio che nel libro assume un significato cruciale: il concorso del 1937 per la cattedra universitaria di fisica teorica, cui Majorana decise di partecipare all’ultimo momento. C’erano già tre vincitori in pectore per tre cattedre (niente di nuovo sotto il cielo) e il sopraggiungere di Majorana, che per unanime riconoscimento li sovrastava tutti, avrebbe tagliato fuori uno di essi, presumibilmente Giovanni Gentile jr., il figlio dell’omonimo filosofo e accademico di spicco del regime fascista. Si ricorse all’espediente di far nominare il trentenne catanese su una quarta cattedra, a Napoli, direttamente dal ministero, senza concorso e «per chiara fama»; in tal modo venne salvaguardata la posizione precostituita dei tre concorrenti. Sciascia interpreta l’episodio come un sintomo del crescente distacco fra la personalità indipendente di Majorana e la cerchia dell’Istituto di Fisica diretto da Fermi, cui faceva capo anche Giovannino Gentile. D’altra parte, è un dato di fatto che in varie fasi questi ebbe rapporti di collaborazione e di familiarità con Majorana.
Ma la vicenda della cattedra fu solo un momento sebbene emblematico nella maturazione di un disincanto e di un disagio che secondo Sciascia andavano sempre più tormentando il giovane scienziato. Com’è noto, la tesi dello scrittore siciliano è che Majorana abbia messo in scena un apparente suicidio ma abbia voluto in realtà scomparire, come il Mattia Pascal del conterraneo Pirandello, o ancor più come il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila nascosto in un convento; e che abbia fatto ciò perché spaventato dalle conseguenze distruttive che la ricerca scientifica sull’atomo lasciava prefigurare. Effetti che nella sua genialità egli intuiva lucidamente. Ed è soprattutto questo il punto su cui la maggior parte degli scienziati ha dissentito da Sciascia; il quale, quasi presagendo la critica, si sofferma da parte sua a controbatterla preventivamente.
Il tema a nostro avviso resta aperto. C’erano nel 1937-38 le condizioni sufficienti per cui uno studioso di fisica teorica, di enorme talento, potesse prevedere la bomba atomica? Per quanto molti rifiutino di ammettere questa possibilità, non ci sentiamo di negarla. Che Majorana fosse «un genio», lo ha affermato esplicitamente lo stesso Fermi, paragonandolo a Galilei e a Newton. Egli era formalmente allievo di Fermi ma il suo rapporto col maestro – come testimoniato da più fonti – era assolutamente paritario, quale nessun altro a via Panisperna poteva vantare. Addirittura Majorana aveva abbozzato quasi per diletto estemporaneo la teoria del nucleo costituito di protoni e neutroni prima che questa venisse formulata dal suo autore, Werner Heisemberg. Quello dei rapporti fra Majorana ed Heisemberg, scopritore del principio di indeterminazione e premio Nobel nel 1932 per i suoi studi di meccanica quantistica, è un altro capitolo di rilievo nel libro di Sciascia. I lunghi colloqui fra i due, avvenuti in Germania nel 1933 (proprio mentre il nazismo andava al potere), proverebbero una relazione intellettuale più profonda di quella fra Majorana e Fermi. Qui si innesta il paradosso morale che riassume La scomparsa di Majorana: il confronto fra gli scienziati «schiavi» – cioè i tedeschi come Heisemberg, sottoposti al potere tirannico di Hitler – e gli scienziati «liberi», quelli che operarono nella democrazia statunitense, compresi Fermi e gli altri emigrati italiani. I primi non contribuirono a inventare la bomba atomica, i secondi sì. Altra tesi quasi provocatoria, oggetto di polemiche. Ma ancora Erasmo Recami ha fatto rilevare come gli stessi Alleati, che nel 1945 tennero prigionieri per alcuni mesi Heisemberg e altri nove scienziati tedeschi, indagando su di loro, ebbero a constatare che essi non erano stati in procinto di realizzare l’arma nucleare, e forse non ne avevano avuta neppure l’intenzione. Nel frattempo, e proprio nell’agosto di quell’anno, la morte atomica si era scatenata su Hiroshima e Nagasaki.

È il caso di ricordare che dopo Sciascia la bibliografia sulla scomparsa di Majorana è grandemente cresciuta, dando spazio a disparate supposizioni. Tuttavia sarebbe bene – come qualcuno ha osservato – che Majorana (al quale sono intitolate numerose scuole italiane) venga studiato soprattutto per i suoi lavori scientifici, dedicati all’atomo, all’elettrone e al positrone, al valore delle leggi statistiche in fisica e perfino nelle scienze sociali.
Vorremmo presentare, concludendo, un punto di vista aggiuntivo che si ricava dalla semplice cronologia. Majorana scompare nel marzo del 1938. A maggio Hitler è accolto trionfalmente a Roma, in visita ufficiale: l'alleanza nazifascista è una realtà. A luglio viene pubblicato in Italia il Manifesto della razza, fra settembre e novembre vengono emanate le leggi razziste. Dei ragazzi di via Panisperna, uno, Bruno Pontecorvo, ebreo, si trova in Francia; non tornerà in Italia; nel 1940, quando i tedeschi occuperanno Parigi, fuggirà in America. Emilio Segrè, ebreo, è a Berkeley e non rientrerà in Italia.
A novembre viene annunciata l’assegnazione del premio Nobel a Enrico Fermi. In un clima di freddezza della stampa di regime, le autorità fasciste non partecipano alla festa in onore dello scienziato, sposato con un’ebrea. Fermi va a Stoccolma a ritirare il premio, non indossa la camicia nera, non fa il saluto romano e stringe semplicemente la mano al re di Svezia. In Italia lo scandalo è grande. Lo scienziato non torna in patria e va direttamente in America. 1939, l'anno della guerra: un altro “ragazzo” di Fermi, Franco Rasetti, abbandona l’Italia per il Canada e – quasi sulle orme del Majorana di Leonardo Sciascia – rinuncia alla fisica per dedicarsi alla paleontologia e alla botanica.
Un’esperienza di ricerca di avanguardia, probabilmente la più importante che l’Italia abbia mai conosciuto, aveva cessato di esistere.

Pasquale Martino