mercoledì 11 febbraio 2015

Religione e politica

L'affaire dei baccanali



1  La religione di Roma antica era religione di Stato: un instrumentum regni che salvaguardava l'"unità nazionale" intorno alla classe dominante e ai valori costitutivi della res publica. Non esisteva un alto clero in quanto casta separata: lo stesso ceto politico senatorio ricopriva le principali cariche sacerdo­tali, prime fra tutte quelle del collegio pontificale presieduto dal pontefice massimo. Le cerimonie religiose erano di carattere pubblico e collettivo; le pratiche divinatorie, l'invocazione e il ringraziamento agli dèi scandivano i tempi e le ricorrenze della vita sociale, economica e politica: la semina e il raccol­to, l'entrata in guerra e la conclusione della pace. La relazione con la divinità era di tipo utilitaristico: la comunità sacrificava agli dèi per riceverne in cambio un preciso beneficio dal punto di vista economico o militare. A una tale cultura del sacro era estranea l'idea di un rapporto diretto dell'individuo con la divinità così come quella di un sentimento religioso personale. La stessa religione popolare, fatta di riti agrari e di feste carnevalesche, era sostanzialmente integrata in posizione subalterna nel quadro della religione ufficiale e dei culti statali.
Si è spesso ripetuto che lo Stato romano, la cui teologia era priva di un vero apparato dogmatico, fu tollerante con le altre fedi finché non intraprese a perseguitare il cristianesimo, reo di minare alla base il principio della fedeltà all'imperatore. Ma ciò non è del tutto vero. Se le persecuzioni contro i cristiani assunsero una portata e una entità particolar­mente rilevanti – attestate ed epicamente rivissute dalla letteratura martirologica – ciò fu in ragione della speciale estensio­ne e forza di penetrazione del messaggio cristiano, il quale raccoglieva a sua volta, in buona misura, quanto era stato semi­nato nei secoli precedenti dalle "religioni di salvezza". Nella storia di Roma esistono numerosi precedenti di intervento repres­sivo dello Stato – custode della religione tradizionale – contro i culti stranieri: il più noto è l'affaire dei baccanali, contro i quali si abbatté il maglio di un tribunale speciale istituito dal senato nell'anno 186 a.C.
La vicenda è narrata da Tito Livio in una celebre pagina delle sue storie (libro XXXIX, capp. 8-19 che qui riproduciamo).

2  Bacco era uno dei nomi del dio greco Dioniso, che i Romani identificavano con Libero, divinità popolare indigena. Il culto di Dioniso, dio del vino e dell'ebbrezza, aveva origini orientali e si era affermato fra i Greci non senza conflitti. Nel pantheon ellenico più arcaico, quale ci è tramandato dai poemi omerici, Dioniso – dio non olimpico, ma terreno e itinerante – aveva una posizione marginale; i tragici greci (in particolare Euripide nelle Baccanti) elaborarono poeticamente la memoria degli antichi e drammatici contrasti tra lo Stato e i fedeli della nuova divi­nità: la leggenda della tremenda punizione divina inflitta a Licurgo, il re che si era opposto all'introduzione del culto dionisiaco e aveva scacciato le baccanti, era nota a Roma grazie a una tragedia di Gneo Nevio rappresentata verso la fine del III secolo a.C. (e dunque pochi decenni prima del 186). Come tutte le religioni di salvezza, il culto orgiastico di Dioniso era separato e “alternativo” rispetto a quelli tradi­zionali: in esso gli individui stabilivano una relazione diretta e immediata con la divinità, dalla quale si sentivano invasati; si trattava di una religione misterica, praticata per lo più di notte da una comunità chiusa e fortemente solidale, per accedere alla quale erano necessari riti di iniziazione (mystes è l'ini­ziato). I fedeli del dio appartenevano specialmente alle classi popolari; fra essi figuravano, in posizione rilevante, soggetti che la società e la vita pubblica relegavano a un ruolo subalter­no e dipendente: gli schiavi e soprattutto le donne. Nei misteri dionisiaci la rigidità dei ruoli sociali si allentava e gli oppressi potevano attendersi dal dio la salvezza individuale e il riscatto sociale.
I baccanali (cosìi Romani chiamarono il culto di Dioniso) venivano propagati su tutte le rive del Mediterraneo da una folla di mercanti, schiavi, soldati; essi penetrarono in Italia attraverso la Magna Grecia e l'Etruria, come è adombrato dal racconto di Livio, il quale parla di un indovino greco trasferitosi in terra etrusca e, in seguito, fornisce i nomi di alcuni presunti capi dei baccanali (Paculla Annia, Minio Cerri­nio) di chiara impronta campana e dunque di area sottoposta all’influenza magno greca oltre che etrusca. Alla fine del III secolo a.C. la crisi indotta dalla seconda guerra punica – grazie agli effetti sconvolgenti dell'invasione annibalica – favorì tra le masse demoralizzate la diffusione dei baccanali e di altri culti di origine straniera. È molto difficile ricostruire gli elementi del rituale bacchico, a proposito del quale le fonti, quando non tacciono, tendono a evocare un'atmosfera di grandioso e terrificante stravolgimento dei comportamenti. Ciò appare anche nella narrazione di Livio. Ma, se è del tutto credibile – anche in base all'analogia con moderni rituali folklorici – che le pratiche orgiastiche fossero contraddistinte da convul­sioni, sfrenatezza di gesti, ebbrezza e, in qualche misura, da licenza di rapporti sessuali, non sembra invece plausibile che esse implicassero sistematicamente atti di violenza fisica o addirittura omicidi: ciò non pare in alcun modo conciliabile con la notizia – dataci dallo stesso storico romano – di una diffusione di massa dei baccanali.
Secondo Livio, all'inizio del II secolo a.C. gli affiliati al culto bacchico erano ormai molto numerosi e fra essi figuravano anche esponenti della nobiltà. Ciò costituiva senza dubbio un primo motivo di preoccupazione per il senato: in tal senso èsignificativo quel passo del discorso che Livio fa pronunciare al console Postumio, dal quale traspare il timore – demagogicamente enfatizzato – della "secessione", ossia della costituzione di un "popolo" altro, che si raduni in assemblee eversive rispetto a quelle istituzionali e che possa trovare dei capi in quei nobili che sono diventati fedeli di Bacco.
Ma una seconda e non meno importante causa della svolta repressiva è da individuare nella lotta politica al vertice dello Stato romano. Erano quelli gli anni in cui una parte della nobiltà senatoria, guidata da Marco Porcio Catone, dichiarava guerra all'egemonia degli Scipioni, i quali avevano esercitato a lungo una sorta di ditta­tura di famiglia, occupando le principali cariche pubbliche o facendole assegnare a familiari e amici. Enorme era stato il prestigio di Publio Cornelio Scipione l'Africano, il vincitore di Annibale; sulla sua popolarità si era costruita in gran parte la fortuna degli Scipioni. Ma proprio nel 187 a.C., un anno prima dell'affaire dei baccanali, il fratello dell'Africano, Lucio Cornelio Scipione detto l'Asiatico, era stato messo sotto processo per peculato: l'attacco alla signoria degli Scipioni veniva sferrato anche attraverso la via giudiziaria. Pochi anni dopo, l'Africano si ritirava sdegnosamente a vita privata. Intanto, la battaglia divampava anche sul terreno ideologico e culturale. La campagna antiscipionica di Catone si nutriva della polemica contro il filellenismo attribuito al cosiddetto "circolo degli Scipioni". Gli ambienti vicini a Scipione erano accusati di compiere ecces­sive e pericolose aperture verso la cultura greca e straniera, in nome di un nuovo ideale di humanitas (che sarà propugnato per esempio da Terenzio, il commediografo vicino a Scipione Emiliano) tendente a vanificare i princìpi fondamentali della tradizione romana (il mos maiorum difeso da Catone).
La propaganda catoniana dipingeva la civiltà greca come edonista e sofisticata, effeminata e corrotta: tutto il contrario della austera virilità, propria del costume romano antico e radicato. Scipione e Catone rappresentavano due opposte sensibilità della classe dirigente romana: l'uno intuiva la necessità che Roma, egemone nel Mediterraneo, si  attrezzasse sul piano politico-culturale ad esercitare una signoria ecumenica e multinazionale; l'altro avvertiva i fattori potenziali di disgregazione che il nuovo status di potenza mon­diale generava nella società romana improntata ancora all'ordinamento della piccola città-stato. Il conflitto fra le due visioni preannunciò i termini della lotta politica che nel I secolo a.C. avrebbe visto i capi militari (Pompeo, Cesare, Antonio, Ottavia­no) affermare progressivamente il modello del principato imperia­le di contro ai difensori del senato e della tradizione repubbli­cana.
Scipione era dunque sotto tiro: e l'affaire dei baccanali forniva un ottimo pretesto per un ulteriore rafforzamento della tendenza catoniana. Tra i riti dionisiaci e il circolo degli Scipioni non poteva essere istituita, evidentemente, nessuna relazione diretta; tuttavia il caso dei baccanali si prestava a dimostrare come l'integrità della vita sociale e dello Stato romano fosse seriamente messa a repentaglio dalla penetrazione di un culto greco, immorale e mostruoso, e come perciò ogni atteggiamento tollerante nei confronti di tale oscena diversità dovesse essere severamente condannato in quanto oggettivamente dannoso per la salute pubblica. La descrizione di Livio, che per l'appunto disegna intorno ai baccanali l'alone di una violenza e di una depravazione orrende, è ricalcata sulla versione ufficiale e sui documenti pubblici (decreto senatorio del 7 ottobre 186 e altri atti del senato): le accuse contro gli affiliati ai baccanali, di presunte perversioni sessuali, stupri e omicidi rituali, anticipano di molti secoli le argomentazioni che diventeranno consuete nella caccia alle streghe.
La repres­sione dei baccanali è dunque anche e forse soprattutto un episo­dio della lotta politica a Roma: un caso esemplare di uso spre­giudicato e cinico delle leve dell'intolleranza, della super­stizione e dello scandalismo da parte del potere politico. I misteri dionisiaci, la cui esistenza era nota da tempo, non vennero combattuti se non quando la loro soppressione apparve politicamente opportuna. Peraltro il tribunale speciale e il decreto senatorio del 186 non valsero a stroncare permanentemente i baccanali: lo stesso Livio, nel prosieguo della sua storia, dà notizia di nuove insorgenze del fenomeno già nel 185 e nel 181 a.C. Le religioni misteriche continuarono a pullulare nei decenni e nei secoli successivi, nonostante ulteriori interventi repressivi di vario segno.

3 Tito Livio (Padova, 59 a.C.-17 d.C.), scrittore grande e fertile, autore di belle pagine narrative, fu acriticamente persuaso della missione provvidenziale di Roma. Tuttavia la sua opera monumentale è un documento importante e in molti casi unico per la conoscenza della storia romana. Nel racconto sui baccanali dobbiamo sceverare l'interpretazione ideologica – per  cui Livio si adegua interamente alla versione ufficiale di fonte senatoria – dalla presentazione dei fatti che, se analizzata criticamente, ci offre non pochi dati utili e interessanti. Appaiono chiaramente attestate sia la forza di penetrazione dei baccanali in ampi strati sociali, sia la noto­rietà del fenomeno ben prima della occasionale denuncia dello stesso da parte di due individui, sia infine la difficoltà che le autorità incontravano nel reprimerlo. Molte notizie, inoltre, si possono ricavare a proposito dell'ordinamento sociale, giuridico e istituzionale. Notevole il vigore narrativo di queste pagine: la vivace rappresentazione della scena pubblica e della psicologia collettiva si intreccia con la vicenda privata degli indivi­dui che involontariamente accendono la scintilla della repressio­ne: il giovinetto Ebuzio, tradito dal malvagio patrigno e dalla madre snaturata, e la sua amante Ispala Fecennia, figura di "meretrice buona" che fa di tutto per proteggere l'amato. La novella dei due amanti ha fondamento storico assai dubbio: sembra piuttosto una trama da commedia o da romanzo, che Tito Livio ha schizzato con tratto felice e buona verosimiglianza psicologica, senza trascurare gli ingredienti patetici e i colpi di scena.


Pasquale Martino


Il testo riproduce con qualche modifica l’introduzione a Tito Livio, L’amore al tempo dei misteri, Stampa Alternativa, Roma, 1995. 

Immagini: affreschi dalla Villa dei Misteri a Pompei.