domenica 27 novembre 2016

La storia di Benny

Una sfida per la ricerca e la conoscenza storica


Tela realizzata nel 1979 con tecnica mista dal pittore, attore, regista e poeta barese Nicola Dentamaro, vissuto a Verona e scomparso nel 2015 a 59 anni. Donata alla federazione provinciale del Pci di Bari, dopo molti anni fu trasferita nella sezione Ds del quartiere Libertà e di qui nella federazione provinciale di Rifondazione comunista, dove si trova tuttora.
Fotografia di Arturo Cucciol
la. 

Trentanove anni ci separano da quel capitolo cruciale della storia di Bari che fu l’assassinio di Benedetto Petrone (28 novembre 1977). Un quarantennio di trasmissione della memoria, nelle forme variegate della testimonianza, della elaborazione culturale, del documento istituzionale. La popolare icona – il  ragazzo sorridente e fiero con la bandana – nasce immediatamente dopo l’omicidio, e così nei giorni successivi compaiono alcuni slogan scritti sui muri – uno fra tutti: «Benny vive» – che attraverseranno il tempo pressoché indenni, riprodotti su fotografie e manifesti con variazioni al tema. Nonostante il tentativo avverso di accreditare uno stereotipo denigratorio – il “teppistello barivecchiano”, lo “scontro fra bande” – la memoria di Benedetto e di quei giorni di ribellione popolare è diventata epigrafe, libro, nome di una via, canzone, film, mostra fotografica, geografia di luoghi della storia cittadina.
Eppure, sul piano della conoscenza storica c’è ancora molto da fare. Quest’anno si colma una lacuna: un convegno ricostruirà il modo in cui gli organi di informazione dettero conto del delitto e delle memorabili giornate che lo seguirono a partire dalla «Gazzetta del Mezzogiorno», quotidiano nazionale allora pressoché unico in Puglia.  Ma vi sono almeno altre due questioni che reclamano un serio e nuovo lavoro storiografico. La prima concerne l’intreccio fra la peculiarità locale e la dimensione nazionale nella dinamica che determinò l’assassinio. Che peso ebbe l’intento di colpire particolarmente Bari Vecchia, e in essa chi si batteva per obiettivi capaci di mettere in discussione una egemonia sociale e un modello urbanistico dominante? E quanto, invece, prevalse lo sguardo verso una strategia nazionale, cioè il ruolo che il neofascismo pugliese ambiva a svolgere in un disegno complessivo di destabilizzazione del Paese? Che tracce restano della genesi, degli ideatori, dei mandanti diretti di un crimine così traumatico? Domande cui è sottesa in qualche modo una intuizione da verificare: che la tragica morte di Petrone abbia riaperto in un sussulto le ferite di una storia antifascista della città, intessuta di episodi rilevanti e, insieme, abbia rappresentato una vicenda paradigmatica tale da proiettare Bari nella grande storia nazionale. Tema arduo, degno di uno studio da condursi con gli strumenti adeguati della ricerca.
Un’altra indagine, collegata agli interrogativi precedenti ma contraddistinta da una corposa specificità, dovrebbe riguardare la rilettura delle carte del processo. L’esito giudiziario (che, ricordiamolo, sanzionò un solo responsabile dell’omicidio) diventò uno snodo discriminante della normalizzazione, per cui il racconto ufficiale poté ricondurre la vicenda al rango di una incresciosa parentesi che aveva interrotto accidentalmente la routine di un città tranquilla e innocente; ma il dibattimento fu anche l ’ambito in cui si addensò una mole di documenti, di resoconti investigativi, di testimonianze, di contraddizioni rimaste inspiegate, che nei decenni seguenti non hanno mai costituito un oggetto di studio. E invece sarebbe necessario scandagliare un archivio così ricco, specialmente per tentare di far luce sulla operosa retrovia di cui l’omicidio poté fruire, prima e dopo.
Insomma, la storiografia dovrebbe entrare in campo con tutta la perizia scientifica e la curiosità di cui gli storici devono dar prova; dovrebbe farlo  con mente “giovane”: con uno sguardo che non sia quello consumato del testimone o di chi è sopraffatto dalla nostalgia, per cui quella pagina è già cristallizzata nel giudizio stratificatosi attraverso gli anni. Ma di una simile tendenza di studi non si intravede ancora il segno: sebbene, paradossalmente, permanga e si arricchisca di anno in anno una narrazione epica che piace ai giovani, alimentata peraltro dalla freschezza di documenti fotografici inediti, sapientemente valorizzati; ed è riemersa perfino una grande tela del compianto Nicola Dentamaro, che, dipinta all’epoca in onore del ragazzo di Bari Vecchia, ha peregrinato trovando accoglienza in diverse sedi della sinistra barese. Ma questa è «materia per la storia», non è ancora storia. Un dipartimento universitario – è il caso di domandarsi – , un istituto di ricerca storica, una istituzione pubblica hanno l’intelligenza e la volontà di promuovere ricerche come quelle qui proposte? Coraggiosi ricercatori indipendenti possono spendersi su questo terreno?       
La nostra è una conclusione aperta, come aperto è il percorso di Benedetto Petrone, memoria e futuro della città.

Pasquale Martino          

venerdì 4 novembre 2016

H.-E. Kaminski


Raccontò Barcellona e poi scomparve
Lo scrittore tedesco di cui è incerta la sorte


Vanno per la maggiore le storie di libri scomparsi, ma a volte a sparire sono gli scrittori. Un caso letterario del 2016 è la riedizione del bel romanzo tedesco Fratelli di sangue del 1932, dato al macero dai nazisti, del cui autore semisconosciuto, Ernst Haffner, è ignota la sorte. Alla stessa temperie ci riconduce la vicenda di uno scrittore tedesco piuttosto noto, che esattamente 80 anni fa – alla fine del 1936 – realizzò un reportage sulla guerra di Spagna diventato un libro famoso: Quelli di Barcellona.
Hanss-Erich Kaminski nacque nel 1899 da una famiglia di commercianti ebrei; giornalista e militante socialdemocratico, colse con tempestività il sorgere della minaccia fascista in Europa. Fu tra i primi a scrivere sull’Italia mussoliniana: il suo libro Fascismus in Italien (Berlino 1925) era tuttavia ancora ottimista sulla possibilità che il Belpaese detronizzasse quel tiranno di cui l’autore, al pari di altri osservatori stranieri, evidenziava i tratti buffoneschi. Kaminski, che parlava correntemente italiano, francese e spagnolo, fu in corrispondenza con Piero Gobetti (una sua lettera del 29.1.’25 è conservata nell’archivio dell’intellettuale torinese) e nel ’32 tentò vanamente di portare in Germania l’esule Luigi Sturzo, per dissuadere il Zentrum cattolico dal favorire l’ascesa di Hitler. Attivo sostenitore del fronte unito antifascista, guardava con spirito dialogico alle tendenze politiche radicali – socialista di sinistra, comunista, anarchica – pur comprendendo i difetti di ognuna di esse. Al comunismo staliniano rivolgeva critiche che somigliano a quelle di Trotsky. Nel ’33, quando il nazismo va al potere, H.E. Kaminski emigra a Parigi, dove sostiene la politica del Fronte popolare e si unisce al «circolo di Lutetia» composto da intellettuali tedeschi di opposizione (fra cui Heinrich Mann, Klaus Mann, Lion Feuchtwanger). Continua a lavorare come giornalista: fra il settembre ’36 e il gennaio ’37 è in Catalogna, per raccontare la guerra civile spagnola scoppiata pochi mesi prima e, con essa, l’epopea della rivoluzione sociale e dell’utopia anarchica. Barcellona è infatti la capitale del grande movimento anarchico spagnolo, pilastro indispensabile della repubblica antifascista al punto da diventare necessariamente forza di governo con quattro ministri nel gabinetto di Largo Caballero: e Kaminski ne intervista due, Garcia Oliver e Federica Montseny. Ma gli anarchici vogliono soprattutto la rivoluzione operaia e contadina contro la vecchia Spagna feudale e clericale: ed è questo straordinario momento di partecipazione popolare l’oggetto del racconto che vedrà la luce a Parigi nel maggio successivo col titolo Ceux de Barcelone; il libro sarà pubblicato in Italia dopo il fascismo, da Mondadori nel 1950 e, nel 1966, dal Saggiatore in una fortunata collana economica. Fra gli episodi salienti, il funerale del leggendario comandante Buenaventura Durruti, il cui resoconto sarà ripreso da H. M. Enzesberger (La breve estate dell’anarchia, 1972), e l’incontro con Emma Goldman, icona del femminismo e del movimento anarchico internazionale. In Quelli di Barcellona – che sta alla pari con i libri di Orwell e di Bernanos – non si tacciono le atrocità compiute da ambo le parti, pur se nel tragico bilancio «gli antifascisti restano infinitamente più clementi e umani dei reazionari». È proprio questo il paradosso rilevato da Kaminski: essere contro la guerra e vedersi costretti a fare la guerra. «La rivoluzione non è più la leggiadra giovinetta che sorride da un manifesto al passante. La rivoluzione è divenuta un soldato dalla barba incolta, con l’elmetto, con le bombe alla cintura». Il presentimento di una nuova guerra mondiale chiude cupamente il reportage di Kaminski. Che, negli anni seguenti, pubblicherà una biografia di Bakunin e una confutazione del libello antisemita di Céline Bagatelle per un massacro. Finché la guerra da lui tanto temuta lo sommergerà.
Nel ’39, dopo lo scoppio del conflitto mondiale, lo scrittore e la compagna Anita Karfunkel vengono internati dai francesi in campi di prigionia, in quanto tedeschi. Ed è l’ultima notizia certa. Che cosa avvenne poi? Secondo la quarta di copertina del Saggiatore, Kaminski «scomparve nel 1940 durante l’occupazione nazista». Wikipedia francese e spagnola (la scheda tedesca non esiste!) e Anarcopedia affermano invece che la coppia riuscì a fuggire in Argentina, dove lo scrittore sarebbe morto nel ’63. È tristemente indicativo che le ricerche biografiche scarseggino. Ce n’è anzi una sola, a quanto risulta a noi e allo storico tedesco Gerhard Feldbauer, col quale ci siamo confrontati con il contributo di Nicola Signorile: è un saggio molto datato della ricercatrice francese Sabine Bétoulaud, ripubblicato nel 1989 con una nota di Wolfgang Haug. La Bétoulaud formula diverse ipotesi: che Kaminski e la Karfunkel siano transitati direttamente dai lager francesi a quelli nazisti, dove la loro sorte si sarebbe compiuta; o che si siano rifugiati a Lisbona e da qui in America. Comunque siano andate le cose, vale una considerazione: a distanza di più di 70 anni, il gorgo nero della Seconda guerra mondiale e dei suoi olocausti non cessa di rilasciare indizi sulla distruzione di un’infinità spaventosa di individui, inghiottiti nel nulla, dispersi o distrutti con le persone care, i libri, i poveri averi. Nell’èra dell’informazione globale, del documento archiviato e schedato, si può ignorare il destino e perfino l’immagine fotografica di un testimone significativo del secolo scorso.      

Pasquale Martino    

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 3 novembre 2016