sabato 4 novembre 2017

I Cento anni dell’Ottobre (1917-2017)


Scuola e cultura nella Rivoluzione russa
Lunaciarskij e il commissariato del popolo all’Istruzione

Quando, dopo aver preso il potere il 7 novembre 1917, i bolscevichi presentarono al congresso dei Soviet la lista dei commissari del popolo – i nuovi ministri – la lettura di un solo nome eguagliò gli applausi clamorosi suscitati dai nomi di Lenin e Trotskij: quello del commissario alla Istruzione, Anatolij Lunaciarskij. Grazie a uno spiccato talento di conferenziere e oratore instancabile, il quarantaduenne intellettuale era diventato una delle personalità più popolari della rivoluzione; veniva ora messo a capo di una formidabile impresa: creare una nuova scuola e armonizzare il patrimonio della cultura russa col progetto di una società egualitaria. Da figure come la sua, poco ricordata, sarebbe interessante prendere le mosse per rileggere la complessità di un evento epocale il cui centesimo anniversario ci capita fra capo e collo un quarto di secolo dopo la fine dell’Urss, mentre con quella storia ci sembra di non aver più a che fare.

Marxista dalla adolescenza, Lunaciarskij aveva vissuto all’estero per scelta e poi per l’esilio impostogli dalla polizia zarista. Studiò a Zurigo, dove conobbe Rosa Luxemburg. Soggiornò in Italia: a Firenze, a Capri (ospite di Maksim Gorkij), a Napoli (e qui apprezzò il teatro popolare di Scarpetta e Di Giacomo), in Abruzzo, a Bologna (dove incontrò Giovanni Pascoli). Conosceva bene la lingua e la letteratura italiane; nel ’24 ingaggerà una disputa storico-letteraria su Dante, da lui interpretato come espressione non del Medioevo, ma della età di transizione.
Alla caduta dello zar, nel ’17, arrivò a Pietrogrado poco dopo Lenin, di cui condivise le scelte in quella fase cruciale. Sebbene fosse soprattutto un critico e uno scrittore, ebbe un ruolo di rileivo nell’Ottobre, attestato anche dal celeberrimo reportage di John Reed Dieci giorni che sconvolsero il mondo. Guidò poi il Narkompros (Commissariato del popolo all’Istruzione) come un collettivo, circondandosi di collaboratori fra cui Nadezda Krupskaia, non soltanto “moglie di Lenin”, ma intelligente organizzatrice, insegnante e pedagogista. Duro compito degli inizi fu convincere gli insegnanti ad appoggiare il nuovo corso; e durissimo fu combattere l’analfabetismo, sopperire all’indigenza in cui versavano molti docenti, accrescere il numero degli asili per ospitare le miriadi di bambini abbandonati e orfani di guerra. Nel contempo, il Narkompros lanciò l’utopica «scuola unificata del lavoro», che doveva essere ambiziosamente uguale per tutti, obbligatoria fino a 17 anni, gestita democraticamente, laica e politecnica, non professionalizzante. Numerose sperimentazioni furono messe in atto e si resterebbe sorpresi nello scoprire quale dibattito acceso e pluralistico si sviluppò sulle concezioni e sui metodi educativi, specie a proposito del rapporto scuola-lavoro. Fra tentativi e susseguenti riordini in quel caotico momento si gettarono le basi di un sistema formativo che favorì una relativa mobilità sociale nell’Urss.

Ma il Narkompros aveva competenza anche su musei, teatri, beni culturali e promozione della cultura: Lunaciarskij ebbe il merito di mediare con tenacia fra il Proletkult (il vasto movimento che propugnava una «cultura proletaria»), le avanguardie artistiche (cubofuturismo, costruttivismo, il LEF o Fronte della sinistra nell’arte sostenuto dal poeta Majakovskij) e i cosiddetti «compagni di strada», artisti e scrittori più legati alla tradizione, come il poeta simbolista Aleksandr Blok. Finché durò la mancanza di carta e il conseguente crollo della produzione libraria, si moltiplicarono le pubbliche letture di poesia e gli spettacoli teatrali, diffusi anche nelle scuole. Mentre pittori già affermati come Kandinskij e Chagall collaboravano col ministero, nascevano – per diventare punti di riferimento mondiali – il formalismo russo di Viktor Sklovskij nella teoria e critica della letteratura, il teatro biomeccanico di Mejerchold, la fotografia e la grafica pubblicitaria di Rodcenko, la cinematografia con una leva di registi (Eistenstein, Dziga Vertov), tecnici e attori; erano attrici di cinema anche la seconda moglie di Lunaciarskij, Natalia Rosenel, e Lili Brik, amata da Majakovskij, ritratta da Rodcenko nella foto di un famoso manifesto della rivoluzione, nei panni di una giovane popolana che grida: knighi! (libri!). Un’operazione decisiva fu il coinvolgimento della prestigiosa Accademia delle Scienze, fondata da Pietro il Grande, che in seguito diventò Accademia delle Scienze dell’Urss e garantì una parziale autonomia alla élite accademica durante i periodi più oscuri dello stalinismo conseguendo risultati di valore in vari ambiti, dalla fisica alla storia.

Nel 1923 Lunaciarskij pubblicò quello che resta forse il suo libro più noto: Profili di rivoluzionari, schizzi vivaci che per esempio ritraggono l’allegria e la cordialità innate di Lenin e – in tempi in cui ciò era ancora possibile – presentano Trotskij innegabilmente come il «secondo leader» della rivoluzione, mentre ignorano Stalin. Il volumetto non fu più ristampato in Russia fino al ’65, quando riapparve in edizione emendata; in Italia fu pubblicato integralmente nel 1968 per felice scelta editoriale del barese De Donato. Lunaciarskij era estraneo alla lotta di vertice nel partito: uscì indenne dal drammatico scontro degli anni ’20 che vide la caduta di Trotskij e l’affermazione di Stalin. Commissario fino al ’29, nominato nel ’33 ambasciatore a Madrid, morì durante il viaggio di trasferimento. La prematura scomparsa (a 58 anni) lo preservò, probabilmente, dalla ondata delle purghe che si abbatté sulla vecchia guardia bolscevica. Nel frattempo, l’irripetibile fervore culturale e politico dei primi anni si era spento, sostituito dalla opacità di un regime repressivo nel quale discussioni e polemiche alla luce del sole non erano più pensabili.     

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 4 novembre 2017

Immagini:

Manifesto propagandistico di Aleksandr Rodcenko. La donna ritratta è l’attrice Lili Brik, che lancia l’appello ai libri. 

Manifesto per una conferenza di Lunaciarskij (dal volume: Religione e socialismo, Guaraldi, Rimini, 1973). La scritta dice:  “…Il mondo è per il proletario uno sconfinato, ininterrotto torrente di forze, una eterna cascata di inesauribile energia”… Circolo Moderno, sabato 11 novembre 1917, conferenza di A. Lunaciarskij “Nel regno del socialismo”. A beneficio del circolo proletario. Ingresso gratuito per i membri del circolo.

Copertina del libro Profili di rivoluzionari (De Donato, Bari, 1968). 


venerdì 21 luglio 2017

Memorie di un prigioniero di guerra


Giovanni Tedone in Etiopia (1896-97) 
Una storia e un libro dimenticati

1937, ottanta anni fa: il regime fascista celebra con una spietata repressione in Africa Orientale i fasti dell’Impero proclamato un anno prima; in Italia muore un semisconosciuto sessantacinquenne, Giovanni Tedone. È nato a Ruvo di Puglia nel 1872 e avrebbe aspirato alla sua parte di fama se non fosse stato messo in ombra dal fratello maggiore, il ben più noto Orazio, illustre uomo di scienza cui è intitolato il liceo di Ruvo. Giovanni invece intraprende la carriera militare; ma ciò fa di lui, inaspettatamente, il protagonista di due storie non comuni.
La storia-madre è davvero straordinaria: in qualità di sergente dei bersaglieri, Tedone partecipa alla battaglia di Adua il 1° marzo 1896 contro l’armata del negus Menelik II, sopravvive alla carneficina (oltre seimila soldati uccisi in un solo giorno, il più grave disastro dell’esercito italiano prima di Caporetto) e resta prigioniero in Etiopia per un anno. La storia-figlia è la vicenda del libro che narra la drammatica esperienza. Le memorie del sergente ruvese (nel frattempo diventato maresciallo) attendono quasi vent’anni prima di andare in stampa, nel 1915, per le edizioni del «Sottufficiale Italiano», col titolo I ricordi di un prigioniero di Menelik. L’Italia sta entrando nella Grande Guerra, Tedone è addetto allo stato maggiore di Cadorna e ciò facilita forse la pubblicazione del libro, recensito bene dallo scrittore Antonio Baldini. Tuttavia la memoria di una sconfitta risulta poco interessante: l’Italia si è rifatta prendendosi la Libia e ora marcia verso Trento e Trieste. Anche la ristampa del 1922 ha scarso successo. Di queste prime edizioni il Sistema bibliotecario nazionale non censisce oggi più di una dozzina di copie nelle biblioteche italiane (nessuna in Puglia). 
Neppure la conquista dell’Etiopia nel 1936 fa uscire il volume dal dimenticatoio. Tedone si spegne ma la storia del libro continua. Esso è riscoperto da un intellettuale di genio, il napoletano Nino Sansone (1915-1968), originario di Ostuni, giornalista de «l’Unità» e figura singolare della cultura meridionale e nazionale. A Bari, nel dopoguerra, Sansone partecipa alla breve impresa del quotidiano «La Voce della Puglia»; animatore della casa editrice milanese Giordano, ritrova il memoriale del sottufficiale ruvese e lo ripubblica nel 1964 col nuovo titolo Angerà: il pane tradizionale etiope di cui Tedone si nutrì nei lunghi mesi di prigionia. Questa bella edizione, arricchita da una sostanziosa nota dello stesso Sansone, ebbe migliore sorte ma non “sfondò” più di tanto; il Sistema bibliotecario ne registra una quarantina di presenze di cui quattro in Puglia (due a Bari). A quel punto, il Paese preferiva scordare un passato coloniale punteggiato da insuccessi e da atrocità imbarazzanti. Ancora oggi si tende a pensare che quella storia sia una nicchia per specialisti. Ma proprio il massimo studioso del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, ha dato la giusta importanza di documento storico al libro dimenticato di Tedone.
L’autore di Angerà non sfugge al pregiudizio di una superiorità “bianca”; resta insensibile alla cultura e alla civiltà millenarie del Corno d’Africa, facendo proprio lo stereotipo della barbarie e della arretratezza incolmabile. Tanto maggiore è la sua credibilità quando afferma verità scomode: l’incompetenza dei comandi militari e il calcolo politico sbagliato del governo Crispi, responsabili dell’attacco e della disfatta; il trattamento non certo disumano riservato dagli etiopi ai duemila prigionieri, i quali – scampati  alla furia vendicativa delle prime 24 ore dopo la battaglia – vivono poi una condizione dura, sì, ma non più dei loro vincitori. Il cibo è lo stesso per tutti – l’angerà con un intingolo di capra piccantissimo che sconvolge il palato –, le condizioni igieniche sono quelle comuni, la marcia di trasferimento da Adua a Addis Abeba è a piedi per tutti: un esercito popolare in cammino, quasi un esodo biblico, con animali, famiglie, servitori e prigionieri al seguito. Poi il grosso dei soldati italiani viene disperso nel vasto territorio: Tedone va nella provincia di Harar, a prevalenza islamica e annessa di recente all’impero del negus. Vive ospite di una giovane vedova benestante, che non disdegnerebbe di sposarlo (ma lui non ci sta). Una descrizione inedita è quella di Harar con le sue cinque porte, il minareto, il mercato, il palazzo di ras Makonnen (padre del futuro negus Haile Selassie): è la città dove fino a pochi anni prima (ma Tedone non lo sa) il poeta Arthur Rimbaud ha vissuto trafficando in armi e in altre merci. Con gli accordi Italia-Etiopia arriva infine la liberazione. Il rimpatrio è rattristato però dall’atmosfera di sospetto, dalle accuse di viltà (che si riproporranno su larga scala contro i prigionieri italiani nel 1918). La nave che trasporta Tedone e i commilitoni attende all’ancora, al largo di Napoli, per sbarcare il suo carico umano a mezzanotte, di nascosto. Con pretesti burocratici i reduci vengono depredati degli oggetti che hanno portato per ricordo; a Tedone è tolta una bella mantellina di Harar. In seguito – riconoscimento amaro e un po’ beffardo – gli verrà data una medaglia di bronzo.

Pasquale Martino      
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 21 luglio 2017



  

mercoledì 3 maggio 2017

Valentino Parlato

Il comunista che venne dall'Africa
Ricordi baresi sul giornalista e intellettuale che fondò «il Manifesto»

Valentino Parlato è stato un personaggio popolare. Quel sorriso spontaneo, amabile e ironico, lo sguardo arguto e accattivante, una certa aria dimessa, lo rendevano simpatico; e qualche intervista televisiva o apparizione in un talk show lo hanno fatto conoscere anche al di fuori del mondo della sinistra, al quale apparteneva per vocazione ostinata. Era facile incontrarlo nelle manifestazioni, a Roma, oppure per strada, la sigaretta sempre fra le dita; era facile mettersi a parlare con lui. Ma spesso lo si vedeva in altre parti d’Italia, a discutere di politica e cultura. Molti lo ricordano a Bari, al Bif&st dello scorso anno. Anche a me è successo di parlare con lui varie volte, ma quella che mi è rimasta più impressa è la volta che, tanti anni fa (nel 1982), gli telefonai alla sede del «Manifesto» – il quotidiano di cui era il direttore – per proporgli di pubblicare la mia ricostruzione della rivolta degli edili di Bari, nel ventennale. Mi dette una risposta scettica, che probabilmente – mi venne poi da pensare – era la prima risposta che dava a tutti, nella sua responsabilità di direttore (è tornato a esserlo ripetutamente, per il quotidiano che aveva contribuito a fondare). Pochi giorni dopo, a sorpresa, il «Manifesto» uscì col mio servizio in un paginone, cosa che mi riempi di orgoglio. Il «quotidiano comunista», e Parlato con i cofondatori, erano punti di riferimento ammirati, quasi mostri sacri (sebbene questa definizione non si adatti una figura cordiale). 
Non c’è spazio qui per raccontare la sua storia lunga e intensa, e altri lo faranno molto meglio di me. Un paio di cose vanno però ricordate, che ci riguardano da vicino. Il giovane Parlato fu il curatore di una raccolta assai fortunata di scritti di Gramsci sulla questione meridionale (Editori Riuniti, 1966), in collaborazione con il non dimenticato Franco De Felice, barese di adozione e valoroso storico del movimento operaio. I due firmarono anche la densa introduzione del volumetto, che aiutò la generazione del ’68 ad avvicinarsi al grande pensatore sardo e ad appassionarsi a un meridionalismo teoricamente agguerrito e nient’affatto lamentoso. Parlato – che ha vissuto a lungo ad Agrigento – era un giornalista dell’«Unità» e di «Rinascita», uno studioso di economa politica e un curatore di volumi di classici del pensiero economico (Adam Smith) e marxista (Engels, Lenin). Ma la svolta arriva con la nascita del «Manifesto», che nel 1969-71 è ancora una rivista mensile, e si pubblica a Bari, per la casa editrice Dedalo di Raimondo Coga: un pioniere della nuova editoria di saggistica “militante” che nel capoluogo pugliese può contare pure su De Donato e Laterza. E nel 2015, alla morte di Coga, sarà non a caso proprio Parlato a scrivere sul «Manifesto» una bella commemorazione dell’editore barese. Intanto, sulla rivista eretica, Parlato scrive di economia nell’ottica del fenomeno storico che si va imponendo: la nuova lotta operaia, la giovane generazione dell’Autunno Caldo. Arriva però lo scontro col suo partito, la radiazione di tutto il gruppo dal Pci. Ed ecco l’avventura grande: il «Manifesto» quotidiano che sarà voce e specchio di un mondo operaio, studentesco e intellettuale mosso da fervide speranze specialmente nel decennio ’70.
Il tratto eterodosso e anticonformista gli era sempre stato congeniale. Pochi anni fa, quando la coalizione occidentale intervenne contro Gheddafi, Parlato si distinse dal coro non certo per difendere il despota ma per criticare le ragioni dell’intervento militare, per mettere in guardia dagli effetti (che si sono puntualmente verificati) della distruzione di un sistema di compromesso cui si sostituiva il caos programmato. Valentino conosceva bene la storia della Libia e amava quel paese: era nato a Tripoli, sotto il dominio italiano; lì era diventato comunista: per questa sua appartenenza politica, nel 1951 l’amministrazione controllata dagli inglesi lo espulse dalla ex colonia. Il suo itinerario nasceva in qualche modo eccentrico, lo conduceva in Italia e in Europa a partire dagli orizzonti di un altro continente che stava rivendicando la propria libertà.

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 3 maggio 2017 

mercoledì 26 aprile 2017

Giuseppe Zannini, seconda puntata

Bari – Bologna – Mauthausen  
Una storia che viene alla luce

Gruppo della Fuci di Bari con Aldo Moro, Pompei 1941.
Fotografia inedita, concessa da Ida Lamacchia (seconda da destra in piedi)
Continua a riaffiorare la storia sommersa di Giuseppe Zannini, nato a Bari il 2 febbraio 1917, entrato nella Resistenza a Bologna nel 1943, arrestato dai tedeschi il 21 maggio 1944, deportato a Mauthausen dove morì per sfinimento il 15 maggio 1945 (data presunta) subito dopo la liberazione del Lager. Una storia che abbiamo raccontato su questa pagine («La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 gennaio 2017) componendo per la prima volta le rare e sparse notizie esistenti con alcuni materiali d’archivio che erano rimasti inesplorati. L’articolo della «Gazzetta» e il ritratto fotografico che abbiamo rinvenuto con l’archivista dell’Università di Bari sono stati pubblicati anche nel  sito Storia e Memoria di Bologna 
della Istituzione Bologna Musei, emanazione del Comune per la  memoria storica, così importante in quella città dove la guerra, l’occupazione germanica e la lotta di liberazione hanno lasciato il segno.
Ma la ricerca sta dando ulteriori frutti. Grazie al liceo scientifico Arcangelo Scacchi di Bari e al suo dirigente, sono stati trovati nell’archivio della scuola i registri generali dei voti che permettono di ricostruire gli ultimi anni del curriculum scolastico di Zannini (1933-1936): un allievo che non è quasi mai assente ed è promosso con la media del sette, ottenendo la dispensa parziale dalle tasse. Nell’ultimo anno ha però una defaillance, conseguendo la maturità soltanto nella sessione autunnale. Iscrittosi a Scienze politiche, ha un vero exploit: supera tutti gli esami con voti alti e arriva alla laurea, il 6 giugno 1940, con una media di 106,7, ottenendo il punteggio finale di 110 e lode. L’argomento della tesi in economia politica, Modernità di Galiani nella teoria del valore, fa comprendere gli interessi di Giuseppe specie se si pensa che il relatore è Angelo Fraccacreta: docente prestigioso e non allineato, già firmatario del manifesto antifascista di Benedetto Croce nel 1925 e primo rettore democratico dell’Ateneo barese dopo la caduta del fascismo. Ma in facoltà Zannini ha un altro incontro decisivo: quello con il quasi coetaneo Aldo Moro, giovanissimo docente nonché dirigente della Fuci. La federazione degli studenti universitari cattolici, in cui milita Giuseppe, è uno spazio relativamente autonomo dal regime. Ha conservato viva memoria di quegli anni Ida Lamacchia Mininni (classe 1920), allora studentessa di Lettere a Napoli ma iscritta alla Fuci di Bari, cara amica di Rina Moro e per suo tramite del fratello Aldo. La signora Lamacchia, che ha parlato a lungo con noi, non ricorda Zannini (le sezioni maschili e femminili della Fuci si incontravano solo in alcuni momenti) ma rievoca le riunioni presso la chiesa dei domenicani, l’attività di assistenza rivolta ad anziani e infermi, le gite, le conferenze di Moro; in occasioni speciali, rammenta, comparivano nei dintorni i carabinieri. «Eravamo sorvegliati», dice. L’amicizia fra Moro e Zannini, attestata dalle memorie della madre, della fidanzata e dell’amico bolognese Achille Ardigò, è confermata da quanto è a conoscenza di Renato Moro (nipote dello statista e fra i maggiori studiosi della sua biografia politica) il quale ci ha scritto cortesemente dicendosi convinto che il rapporto fra i due giovani possa essere documentato nelle carte di Moro, tuttora non riordinate e non accessibili come non lo è al momento l’archivio nazionale della Fuci.

Carta personale del prigioniero Zannini a Mauthausen
1.1.26.3 / 1856431 ITS Archives Bad Arolsen 
È stato invece possibile trovare un fascicolo di straordinario interesse: i documenti di Mauthausen, conservati nel grande archivio della deportazione, a Bad Arolsen in Germania. Vi si trova la «carta personale del prigioniero» (Häftlingspersonalkarte) con il numero di matricola 82553 e il disegno di un triangolo (che cucito sulla casacca era di colore rosso), all’interno l’abbreviazione It. (Italia) e, accanto, Sch. (Schutz, «sicurezza», sigla che indica i deportati politici). Si leggono poi le generalità di Zannini e la descrizione (fra cui: altezza 1,77, nessun segno caratteristico, lingue parlate il tedesco e il francese oltre all’italiano), il luogo di cattura (San Lazzaro di Savena nella cintura bolognese), e la spedizione verso il Lager il 7 agosto ’44 tramite la Sipo (polizia politica) di Verona.
Zannini, impiegato in banca, fu arrestato nel corso di un blitz delle SS che coinvolse il convento di Santa Maria dei Servi dove il giovane era ospitato. Fu il tentativo di disarticolare sul nascere il movimento antifascista cattolico che Giuseppe con i suoi amici della Fuci di Bologna stava costruendo coraggiosamente. Tentativo fallito, perché il giovane bancario non rivelò nomi, la retata non si allargò, la brigata partigiana “cattolica” (la 6a Brigata Giacomo) prese il suo posto nella lotta di liberazione nel capoluogo emiliano. Dopo la guerra fu riconosciuta a Zannini la qualifica di partigiano. A Bari, lo commemorarono i colleghi di lavoro del Credito Italiano, pubblicando un necrologio sulla «Gazzetta» del 31 marzo 1946. Fra i parenti rimasti (Giuseppe non aveva fratelli né figli) se ne perse la memoria, e non abbiamo trovato tracce di altre iniziative in suo ricordo.
Mentre la ricerca non si ferma, si sa già quanto basta perché le istituzioni pubbliche (il Comune, la Scuola, l’Università), e non solo loro, assumano l’impegno della memoria. Giuseppe Zannini deve tornare a essere conosciuto nella città e nella regione e onorato per aver dato la vita in nome della libertà.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 aprile 2017 


Leggi anche: Il partigiano ritrovato (prima puntata)

lunedì 27 marzo 2017

De Sanctis

Il filo rosso fra cultura e popolo
L’eredità discussa del grande intellettuale meridionale, 200 anni dopo



Davvero un lungo bicentenario, quello della nascita di Francesco De Sanctis (28 marzo 1817-2017). Le celebrazioni inaugurate già da qualche anno con un nutrito programma – di cui abbiamo dato conto a suo tempo («La Gazzetta del Mezzogiorno», 17/12/2014) – culminano in questi giorni, nella natia Irpinia e non solo, visto che il Mibact annuncia l’emissione di una moneta commemorativa e, per venire a noi, il liceo classico di Trani intitolato allo storico della letteratura promuove un certame e una giornata di studi. Sembra condivisa l’opportunità di solennizzare l’anniversario e farne occasione di dibattito; meno univoca appare la chiave di lettura da utilizzare per intendere, due secoli dopo, e accostare ai giovani la figura complessa di questo grande studioso che fu anche uomo d’azione.
È forse il modello di intellettuale “meridionale” – ci si chiede – capace con la sua adesione al Risorgimento di fare apparire il Sud più protagonista e meno subalterno nel controverso processo di unificazione? È il grande innovatore della critica, l’inventore di un genere letterario – la moderna storia della letteratura – che egli seppe forgiare narrando come in un romanzo l’epopea delle lettere italiane in simbiosi con la genesi del sentimento nazionale? O ancora, è un padre della scuola italiana unitaria, per la quale si batté in qualità di ministro della pubblica istruzione del primo governo d’Italia, e poi di parlamentare, sforzandosi di avviarla a un legame fra «scienza e vita», di farne una scuola di educazione popolare? Certo De Sanctis è tutte queste cose e molto di più. Egli è innanzitutto, ci pare, una coscienza critica di quella borghesia ottocentesca che fra incertezze e contraddizioni riuscì a realizzare, quasi del tutto senza masse popolari, un capolavoro politico ammirato in Europa, l’unità di Italia. Coscienza critica, perché non gli sfuggivano affatto gli errori e i limiti del processo compiuto e ancora in via di compimento. Il punto nodale era per lui l’antica separazione fra intellettuali e popolo, che attraversava la storia letteraria italiana; una storia dialettica, nel concetto desanctisiano, caratterizzata da avanzate e ritorni indietro sebbene in una tensione costante verso il progresso.

Francesco De Sanctis (1817-1883)
La formazione di una cultura, letteraria e non solo, che scaturisca da un dialogo con il sentimento popolare e sappia interpretarlo: questo è il cruccio di De Sanctis. Schierandosi con la sinistra parlamentare e osservando senza pregiudizio di classe il nascente movimento socialista, lo studioso irpino configura un nuovo tipo di intellettuale, antiaccademico, capace – sulle orme di Dante Alighieri – di estendere il più possibile la comprensione della poesia e il gusto estetico ai ceti umili. Ciò comporta una concezione diversa della cultura, che non può sussistere senza essere «lotta culturale», per generare «un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e intellettuale»: sono parole di una celebre pagina dei Quaderni del carcere dedicata a De Sanctis. E qui ricordiamo l’altro anniversario in corso, l’80° della morte di Antonio Gramsci (1937): a lui si deve la riproposizione, nel Novecento, dell’esempio “militante” di De Sanctis come antitesi di una concezione distaccata ed elitaria dell’attività intellettuale. Il che non significava né sancire una volta per sempre una particolare metodologia o ispirazione estetico-critica, né avallare l’idea che il metodo desanctisiano fosse meno rigoroso di altri fondati sulla astrazione di uno specialismo incontaminato.
Antonio Gramsci (1891-1937)
Del resto, proprio l’anniversario è un’occasione per rivisitare la feconda produzione critica di uno dei nostri più grandi letterati. Ma qui vogliamo in conclusione domandarci se la sua figura intellettuale, paradigmatica nella storia italiana, abbia ancora un vigore e un senso. Se lo abbia, per esempio, dopo «il grande silenzio» degli intellettuali denunciato anni fa da Alberto Asor Rosa. E dopo che si va estinguendo una generazione che ha ritenuto inscindibile il binomio cultura-impegno civile. Pensiamo a Ermanno Rea scomparso di recente, che ripercorse l’itinerario del Viaggio elettorale di De Sanctis ricavandone un reportage fotografico – lui divenuto poi famoso come scrittore (se ne è parlato in un incontro promosso dai Fotografi di strada a Bari). Se oggi la “democrazia” è quella “del web”, con tutte le implicazioni nella formazione dell’opinione pubblica, quale intellettuale – docente, comunicatore, artista – consapevole e responsabile (e non solo tecnico competente) ne è il corrispettivo? E il sistema scolastico, nella sua precarietà, è in grado di farsene carico? Il binomio di cui sopra resiste qua e là a macchia di leopardo: coscienza inquieta di una transizione, non si sa ancora verso dove.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno» 28 marzo 2017 

giovedì 16 febbraio 2017

Debra Libanos

La strage dei cristiani nell’Africa italiana
80 anni fa l’eccidio ordinato da Graziani


Si arriva a Debra Libanos – un centinaio di chilometri a nord di Addis Abeba – percorrendo nell’ultimo tratto una strada costeggiata da mercatini a disposizione di chi va in pellegrinaggio al più importante monastero copto d’Etiopia. La grande chiesa è sempre piena, molti fedeli si assiepano fuori dei cancelli e sui declivi circostanti per partecipare alle funzioni. Un monaco accompagna i visitatori nelle stanze del museo annesso al convento: vi si racconta la storia del «Monte Libano» (questo è in lingua amarica il significato del nome) fondato nel XIII secolo da Tecla Haimanot, il più venerato santo nazionale.
A Debra Libanos non c’è un visibile ricordo del massacro di 80 anni fa; a parte, in modo indiretto, il tempio ricostruito da mano italiana dopo la guerra: una parziale e tacita espiazione per l’atroce rappresaglia di Rodolfo Graziani. Ad Addis Abeba invece gli eccidi perpetrati dopo l’attentato del 19 febbraio 1937 al viceré italiano sono ricordati da un obelisco con altorilievi nella centrale piazza Yekatit 12 (che indica la stessa data nel calendario etiope). 
Erano trascorsi meno di dieci mesi dall’occupazione dell’Abissinia; l’impero italiano combatteva con pugno di ferro contro una resistenza armata ininterrotta. La conquista dell’Etiopia era stata, insieme, l’ultima guerra del vecchio colonialismo e la prima guerra di aggressione del fascismo europeo, condotta con una mobilitazione straordinaria dell’apparato militare-industriale e con metodi di sterminio. Allo stesso modo, la gestione del paese conquistato era affidata a un regime militare che praticava la sistematica liquidazione dei capi ribelli, la persecuzione della classe dirigente indigena e la discriminazione razziale. La “normalizzazione” era guidata dal maresciallo Graziani, pupilla del fascismo, già distintosi per avere represso la rivolta della Cirenaica deportando in campi di concentramento quasi l’intera popolazione. Quando due oppositori eritrei, quel 19 febbraio, lanciarono bombe a mano durante una cerimonia del regime ad Addis Abeba, causando sette morti e numerosi feriti (fra questi ultimi anche Graziani), si scatenò una barbara caccia all’uomo: per tre giorni i residenti italiani della capitale, soldati e civili, furono chiamati a raccolta dalle camicie nere per scatenare la devastazione nei quartieri indigeni, il linciaggio e il massacro di innocenti. Le vittime furono decine di migliaia secondo le fonti etiopi, almeno tremila accertate secondo Angelo Del Boca, il massimo studioso del nostro colonialismo. Fu una vendetta su vasta scala e senza alcun fondamento legale, apertamente riconosciuta dal federale fascista di Addis Abeba che il 21 febbraio affisse un manifesto per ordinare la cessazione della rappresaglia. Ma era solo l’inizio di una lunga strage, che proseguirà con centinaia di esecuzioni sommarie, con le deportazioni e il tentativo di decapitare l’intellighenzia etiope e il clero copto, eliminando perfino i cantastorie ambulanti, rei di profetizzare poeticamente la fine del dominio italiano. Un’operazione che oggi si definirebbe di pulizia etnica, anticipatrice degli orrori della Seconda guerra mondiale.

Al culmine c’è Debra Libanos. Tre mesi dopo l’attentato, a freddo, le truppe del generale Pietro Maletti vengono inviate a regolare i conti con i vertici della chiesa nazionale, attaccando il grande monastero dove – secondo il risibile pretesto – avrebbero trovato rifugio gli attentatori di febbraio. Il 19 maggio i monaci vengono imprigionati nella chiesa; il giorno dopo sono trasferiti a gruppi, con i camion, in una località scelta appositamente; qui, allineati, coperti da un telone, vengono fucilati, quindi finiti con il colpo di grazia. La stessa sorte tocca poi a tutti i giovani diaconi. Mai prima un massacro è stato altrettanto chiaramente documentato come questo, di cui resta lo scambio di telegrammi e dispacci fra Maletti, Graziani e Mussolini. Gli stessi massacratori forniscono la cifra di 449 fucilati: sono le Fosse Ardeatine del fascismo italiano. Ed è il più grande eccidio di cristiani consumato in Africa, per eseguire il quale furono coinvolti ascari libici e somali, in modo da fomentare sanguinosi odî tra fedi diverse. Le ricerche successive, condotte sul campo dagli storici Ian Campbell, inglese, e Degife Gabre-Tsadik, etiope, attestano che le vittime furono molte di più, il triplo o il quadruplo.
La memoria dimenticata (in Italia) è stata però rievocata da un bel documentario di Antonello Carvigiani, a cura di Dolores Gangi e per la regia di Andrea Tramontano (Debre Libanos, 2016, trasmesso da Tele2000 e ora visibile su Youtube). Certo l’Etiopia dopo la fine del conflitto mondiale è stata magnanima con gli italiani, pur chiedendo vanamente di processare Badoglio e Graziani come criminali di guerra. Numerosi nostri connazionali sono rimasti lì a lavorare in pace. Non lasciano indifferenti le immagini finali del film, che ritraggono Sergio Mattarella in visita ufficiale in Etiopia, mentre incontra i vecchi partigiani superstiti della guerriglia anti-italiana. Ora sono altri tempi; dei quali fa parte, però, anche l’odierna cooperazione italo-etiope per la costruzione di impianti idroelettrici nella Valle dell’Omo – una sorta di “colonia interna”, un “Sud” geografico e metaforico sempre penalizzato dalla classe dirigente ahmara e tigrina. Lo sviluppo accelerato delle produzioni agroindustriali sta rovinando l’agricoltura e la pastorizia tradizionali, le comunità primitive, i villaggi, esacerbando i conflitti sociali ed etnici. Ma questa è un’altra storia, che racconteremo un’altra volta.             

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 15 febbraio 2017  

Immagini: Debra Libanos negli anni 1930.

giovedì 26 gennaio 2017

Giuseppe Zannini

Il partigiano ritrovato.
Dalla Bari di Aldo Moro al martirio di Mauthausen


Questa storia viene raccontata qui per la prima volta. 
29 marzo 1946, l’ufficio per la Lombardia del Ministero dell’Assistenza Postbellica scrive al sindaco di Bari, riferendo quanto affermato da quattro reduci del campo di concentramento di Mauthausen; fra questi figurano Gianfranco Maris, futuro presidente dell’Aned (l’associazione ex deportati), l’architetto Barbiano di Belgioioso e il designer Germano Facetti. Essi dichiarano che a metà maggio del ‘45, pochi giorni dopo la liberazione del campo, vi è morto «per sfinimento» il barese dott. Giuseppe Zannini. L’ufficio ministeriale chiede che si rintraccino i familiari nel capoluogo pugliese, per dare loro notizia del decesso e per verificare l’informazione. Una coppia di zii consegna al comune una nota poi trasmessa al ministero. Vi si comunica con brevi cenni quanto è a conoscenza dei familiari: Zannini è nato a Bari il 2 febbraio 1917, è stato «partigiano e deportato politico da Bologna», internato nel lager austriaco; si chiede, a nome della madre, di sapere ove sia tumulata la salma. Il carteggio è custodito nell’Archivio di Stato di Bari. Il Ministero dell’Assistenza Postbellica era stato creato dal governo di unità nazionale per coordinare gli immani sforzi di ricerca e assistenza dei prigionieri, internati, dispersi e profughi italiani in un Paese sconvolto dalla guerra.
Questa di Giuseppe Zannini è la vicenda di un «triangolo rosso», da rievocare giustamente in prossimità di quel giorno della memoria che ricorda anche «gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte» (art. 1 legge 211). Notizia del giovane antifascista pugliese è conservata nel capoluogo emiliano, presso l’Istituzione Bologna Musei; schede su di lui sono comprese nel Dizionario Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese e nella banca dati dell’Aned. Ulteriori e sparse reminiscenze ampliano un quadro che resta comunque lacunoso. Lo presentiamo nei tratti essenziali.  
Di famiglia semplice, Zannini si laurea in scienze politiche a pieni voti. Milita nella Fuci, l’associazione degli studenti cattolici, frequenta Aldo Moro facendo propri i nuovi sentimenti antifascisti che si affermano nei tragici anni della guerra. È figlio unico e orfano di padre. Impiegato presso il Credito Italiano, nell’agosto 1943 – durante i 45 giorni di Badoglio – viene trasferito a Bologna, prendendovi alloggio in compagnia della madre Adele Lubrano. E sarà proprio Adele a lasciare una toccante testimonianza sull’impegno del figlio. Dopo l’8 settembre Giuseppe si trova nel cuore della guerra civile. Entra subito nella Resistenza, stimolando la formazione politica e la partecipazione del movimento cattolico alla lotta armata. La sua personalità è quella di un «leader naturale»: lo afferma il sociologo Achille Ardigò, che è al suo fianco in quel momento (con Angelo Salizzoni, futuro costituente, parlamentare democristiano e braccio destro di Moro). Incontra studenti e operai, sollecita il clero antifascista, propugna l’adesione al CLN come guida della Resistenza. È stato riconosciuto combattente della 6a Brigata «Giacomo», collegata alle formazioni partigiane cattoliche Stelle Verdi e confluita agli inizi del ’45 sotto il comando unitario della Divisione Bologna del Corpo Volontari della Libertà. 
Ma Giuseppe è arrestato il 21 maggio ’44. Qui si innesta un’altra testimonianza, depositata presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana: quella di Matilde Camaiori (1920-2007), di Pisa, fidanzata di Zannini. La ragazza si era recata pochi giorni prima a Bologna per incontrare Giuseppe. Viene arrestata con lui; entrambi sono accusati di aver progettato un attentato dinamitardo alla caserma tedesca. Nella brutale retata delle SS vengono coinvolti anche i Servi di Maria del convento vicino alla caserma, ove Zannini era ospitato avendo la casa inagibile per sinistro. Matilde è rilasciata dopo qualche giorno, diventerà una figura stimata di antifascista e di docente. Giuseppe è trattenuto; ha resistito agli interrogatori, viene mandato nel lager di Fossoli in provincia di Modena: un campo di transito, dove gli è impedito di vedere la madre che vuole visitarlo, e dove sfuggirà alla fucilazione di 68 partigiani per rappresaglia (luglio ’44), ma soltanto per continuare la funesta odissea che lo porterà prima a Bolzano e infine a Mauthausen fra gli Schutzhaeftlinge (prigionieri «per motivi di sicurezza»: uno dei tipici eufemismi della burocrazia nazionalsocialista). È con lui un altro eminente triangolo rosso, don Paolo Liggeri, il prete di Milano che pubblicherà un libro sulla propria esperienza di deportato e assisterà al calvario di Zannini nel sottocampo di Gusen I. E chissà se il giovane barese ebbe modo di incontrare un internato più anziano, il grande conterraneo Alfredo Violante, venuto anch’egli da Fossoli e gasato a Mauthausen il 24 aprile ’45. In nove mesi di lager gli aguzzini ammazzano ferocemente Giuseppe di fatica e di tormenti. La vita lo abbandona a 28 anni poco dopo l’arrivo dell’esercito americano. La data approssimativa è il 15 maggio ’45.
La sua città e la regione dovrebbero ricordarlo degnamente, farne conoscere la storia nelle scuole. Nonostante il sollecito ausilio dell’assessorato ai Servizi demografici di Bari, non abbiamo finora rintracciato eventuali parenti del martire antifascista. Grazie all’archivio dell’Università, abbiamo trovato il solo ritratto  fotografico disponibile. La ricerca continuerà; chi ha elementi per aiutarci, scriva al nostro indirizzo: martinopas@virgilio.it.

Pasquale Martino     


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 gennaio 2017

Immagini: In alto, il solo ritratto fotografico esistente di Zannini (Archivio Uniba). 
In basso, un disegno (probabile autoritratto) di Germano Facetti, testimone della morte di Zannini nel lager di Gusen I.  

La pagina originale di questo articolo, con la fotografia, è allegata alla scheda su Giuseppe Zannini nel sito Storia e Memoria di Bologna, dell'Istituzione Bologna Musei.  

sabato 21 gennaio 2017

L'enigma Brema-Bari

Sulle tracce dei criminali nazisti


Mappa dell'asse Brema-Bari in Italia
(dal romanzo Eva di I. Melchior)
La storia della via di fuga di criminali nazisti chiamata «asse BB, Brema-Bari» – di cui abbiamo incominciato a parlare qui («La Gazzetta del Mezzogiorno», 9.7.2016) – ha l'aria di voler restare a lungo un enigma irrisolto. È esistito realmente questo asse? Gli ex SS lo percorrevano davvero, per salpare da Bari verso il Vicino Oriente? Non ebbe dubbi il “cacciatore di nazisti” Simon Wiesenthal, che ne dà conto nei suoi due libri più significativi. Ma nello stesso Centro Wiesenthal di Vienna non vi sono documenti a tale proposito. La letteratura sulle «vie dei ratti» o ratlines, da noi in larga parte esaminata (con l’aiuto di Giulia Santamaria e Silvia Scaramuzzi), ignora la pista barese o la menziona con un calco ripetitivo della notizia wiesenthaliana. Ciò vale anche per la sola opera di storiografia pugliese – a nostra conoscenza – che vi accenni in nota, il libro di Francesco Terzulli sul campo di concentramento di Alberobello (La casa rossa, Mursia, 2003). L’eccellente studio di Gerald Steinacher sulla «via segreta dei nazisti» (Rizzoli, 2010) certifica che lo snodo austriaco-sudtirolese era il passaggio essenziale delle fughe – il che risponde alla tesi di Wiesenthal – ma non sviluppa l’analisi sui “terminali” italiani, eccetto il porto di Genova. Ciò vuol dire che i principali archivi accessibili al pubblico non contengono riferimenti immediatamente riconoscibili, tali da attirare l’interesse degli studiosi.
La nostra sensazione è che Wiesenthal abbia accolto la notizia sull’«asse BB» da una fonte dei servizi segreti alleati, o da agenti tedeschi convertiti alla collaborazione con gli alleati; una fonte analoga, secondo il suo racconto, gli rivelò l’esistenza della Odessa, la trama clandestina di protezione degli ex SS che avrebbe sostituito il primitivo asse Brema-Bari con un’organizzazione più sofisticata. Diversi storici contestano l’esistenza della Odessa dando più rilievo, nel salvataggio dei criminali di guerra, al ruolo di organismi teoricamente neutrali come la Croce Rossa e la Pontificia Commissione di Assistenza. Ma è innegabile la parte attiva svolta dai nazisti stessi, comunque la si chiami. Ed è probabile – e, in qualche caso, provato – che la rete nazista sia stata infiltrata e utilizzata in vario modo dai servizi inglesi, americani, sovietici e del nascente Israele.

Gli assassini sono fra noi
di S. Wiesenthal  
Bari era occupata dagli alleati fin dal settembre ’43: via via più lontana dal fronte, era il luogo ideale dove sperimentare inedite convergenze per il futuro, e fu d’altronde un grande imbuto verso cui precipitò il flusso di profughi dall’Europa. Nel 1943-44 Ivan Babic, ufficiale della Legione Croata, prende contatti nel capoluogo pugliese con i servizi alleati; il punto è impedire la vittoria comunista in Iugoslavia, ma sono evidenti i nessi di questa iniziativa con l’attivismo dei nazisti croati assistiti da strutture ecclesiastiche, per assicurarsi una protezione nel dopoguerra. Quella croata è una diramazione non certo piccola del salvataggio dei criminali nazifascisti. Un’altra notizia vuole che Otto Skorzeny (il liberatore di Mussolini nonché organizzatore, dopo il ’47, del soccorso ai propri camerati) abbia avuto a Bari una sorta di “ufficio” della sua rete logistica. Lo sostiene tra gli altri lo storico tedesco Gerhard Feldbauer (che però, da noi interpellato, non ha potuto dirci di più). In questo caso la nostra impressione è che la fonte sia di provenienza sovietica. Che il pezzo grosso SS Walter Rauff sia scappato da Bari grazie ai buoni uffici dei servizi americani, lo afferma lo storico statunitense David Talbot (ne abbiamo riferito nel precedente articolo). La via di fuga attraverso l’Alto Adige in direzione del porto barese è stata attentamente studiata, per quanto riguarda i profughi ebrei, da Eva Pfanzelter dell’università di Innsbruck, che ci ha cortesemente scritto: «mi sembrava ovvio che tutti – anche i nazisti criminali – usavano le stesse vie di fuga, gli stessi “alberghi“ e organizzazioni che li assistevano». Infine va ricordata la reclusione di numerosi militari tedeschi, austriaci e altoatesini (fra i quali si mimetizzavano i criminali) nei campi di Taranto e di Alberobello, da dove ci si poteva eclissare avendo il sostegno giusto.

Giustizia, non vendetta
di S. Wiesenthal
Di tali fatti, classificabili fra le emigrazioni a volte legali ma più spesso clandestine, non vi è traccia, comprensibilmente, nei fondi della prefettura, della questura e del comune di Bari, che abbiamo consultato con l’intelligente supporto del personale dell’Archivio di Stato. Ma questa documentazione è per altri versi uno straordinario racconto del contesto storico e sociale in cui le emigrazioni avevano luogo. Dal ’45 al ’48 il capoluogo pugliese è movimentato dall’arrivo – in certi momenti pressoché quotidiano – di profughi, reduci, ex internati, migranti. Le strutture di accoglienza sono improvvisate, accanto all’impegno solidale di alcuni si registrano reazioni negative e ostili di molti altri. Vi sono liste di rifugiati di varie nazionalità assistiti alla meno peggio; fra questi figurano austriaci e iugoslavi dai nomi di foggia germanica. L’infiltrazione con falsi documenti non sarebbe stata per nulla difficile. Alcuni profughi ottengono in assegnazione appartamenti requisiti dagli angloamericani, i cui proprietari tentano di recuperarne la disponibilità accusando gli assegnatari di svolgervi attività illecite. Chi sa che uno di questi alloggi – per esempio – non abbia ospitato una base logistica come quella attribuita in seguito a Skorzeny. C’è chi sta analizzando le carte relative agli imbarchi da Bari per l’esodo ebraico verso la Palestina; non si può escludere che spuntino indizi di presenze “anomale” riferibili alla rete nazista. È importante che il tema si faccia strada come indice di attenzione in una pluralità di indagini diversificate.

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 gennaio 2017