sabato 21 gennaio 2017

L'enigma Brema-Bari

Sulle tracce dei criminali nazisti


Mappa dell'asse Brema-Bari in Italia
(dal romanzo Eva di I. Melchior)
La storia della via di fuga di criminali nazisti chiamata «asse BB, Brema-Bari» – di cui abbiamo incominciato a parlare qui («La Gazzetta del Mezzogiorno», 9.7.2016) – ha l'aria di voler restare a lungo un enigma irrisolto. È esistito realmente questo asse? Gli ex SS lo percorrevano davvero, per salpare da Bari verso il Vicino Oriente? Non ebbe dubbi il “cacciatore di nazisti” Simon Wiesenthal, che ne dà conto nei suoi due libri più significativi. Ma nello stesso Centro Wiesenthal di Vienna non vi sono documenti a tale proposito. La letteratura sulle «vie dei ratti» o ratlines, da noi in larga parte esaminata (con l’aiuto di Giulia Santamaria e Silvia Scaramuzzi), ignora la pista barese o la menziona con un calco ripetitivo della notizia wiesenthaliana. Ciò vale anche per la sola opera di storiografia pugliese – a nostra conoscenza – che vi accenni in nota, il libro di Francesco Terzulli sul campo di concentramento di Alberobello (La casa rossa, Mursia, 2003). L’eccellente studio di Gerald Steinacher sulla «via segreta dei nazisti» (Rizzoli, 2010) certifica che lo snodo austriaco-sudtirolese era il passaggio essenziale delle fughe – il che risponde alla tesi di Wiesenthal – ma non sviluppa l’analisi sui “terminali” italiani, eccetto il porto di Genova. Ciò vuol dire che i principali archivi accessibili al pubblico non contengono riferimenti immediatamente riconoscibili, tali da attirare l’interesse degli studiosi.
La nostra sensazione è che Wiesenthal abbia accolto la notizia sull’«asse BB» da una fonte dei servizi segreti alleati, o da agenti tedeschi convertiti alla collaborazione con gli alleati; una fonte analoga, secondo il suo racconto, gli rivelò l’esistenza della Odessa, la trama clandestina di protezione degli ex SS che avrebbe sostituito il primitivo asse Brema-Bari con un’organizzazione più sofisticata. Diversi storici contestano l’esistenza della Odessa dando più rilievo, nel salvataggio dei criminali di guerra, al ruolo di organismi teoricamente neutrali come la Croce Rossa e la Pontificia Commissione di Assistenza. Ma è innegabile la parte attiva svolta dai nazisti stessi, comunque la si chiami. Ed è probabile – e, in qualche caso, provato – che la rete nazista sia stata infiltrata e utilizzata in vario modo dai servizi inglesi, americani, sovietici e del nascente Israele.

Gli assassini sono fra noi
di S. Wiesenthal  
Bari era occupata dagli alleati fin dal settembre ’43: via via più lontana dal fronte, era il luogo ideale dove sperimentare inedite convergenze per il futuro, e fu d’altronde un grande imbuto verso cui precipitò il flusso di profughi dall’Europa. Nel 1943-44 Ivan Babic, ufficiale della Legione Croata, prende contatti nel capoluogo pugliese con i servizi alleati; il punto è impedire la vittoria comunista in Iugoslavia, ma sono evidenti i nessi di questa iniziativa con l’attivismo dei nazisti croati assistiti da strutture ecclesiastiche, per assicurarsi una protezione nel dopoguerra. Quella croata è una diramazione non certo piccola del salvataggio dei criminali nazifascisti. Un’altra notizia vuole che Otto Skorzeny (il liberatore di Mussolini nonché organizzatore, dopo il ’47, del soccorso ai propri camerati) abbia avuto a Bari una sorta di “ufficio” della sua rete logistica. Lo sostiene tra gli altri lo storico tedesco Gerhard Feldbauer (che però, da noi interpellato, non ha potuto dirci di più). In questo caso la nostra impressione è che la fonte sia di provenienza sovietica. Che il pezzo grosso SS Walter Rauff sia scappato da Bari grazie ai buoni uffici dei servizi americani, lo afferma lo storico statunitense David Talbot (ne abbiamo riferito nel precedente articolo). La via di fuga attraverso l’Alto Adige in direzione del porto barese è stata attentamente studiata, per quanto riguarda i profughi ebrei, da Eva Pfanzelter dell’università di Innsbruck, che ci ha cortesemente scritto: «mi sembrava ovvio che tutti – anche i nazisti criminali – usavano le stesse vie di fuga, gli stessi “alberghi“ e organizzazioni che li assistevano». Infine va ricordata la reclusione di numerosi militari tedeschi, austriaci e altoatesini (fra i quali si mimetizzavano i criminali) nei campi di Taranto e di Alberobello, da dove ci si poteva eclissare avendo il sostegno giusto.

Giustizia, non vendetta
di S. Wiesenthal
Di tali fatti, classificabili fra le emigrazioni a volte legali ma più spesso clandestine, non vi è traccia, comprensibilmente, nei fondi della prefettura, della questura e del comune di Bari, che abbiamo consultato con l’intelligente supporto del personale dell’Archivio di Stato. Ma questa documentazione è per altri versi uno straordinario racconto del contesto storico e sociale in cui le emigrazioni avevano luogo. Dal ’45 al ’48 il capoluogo pugliese è movimentato dall’arrivo – in certi momenti pressoché quotidiano – di profughi, reduci, ex internati, migranti. Le strutture di accoglienza sono improvvisate, accanto all’impegno solidale di alcuni si registrano reazioni negative e ostili di molti altri. Vi sono liste di rifugiati di varie nazionalità assistiti alla meno peggio; fra questi figurano austriaci e iugoslavi dai nomi di foggia germanica. L’infiltrazione con falsi documenti non sarebbe stata per nulla difficile. Alcuni profughi ottengono in assegnazione appartamenti requisiti dagli angloamericani, i cui proprietari tentano di recuperarne la disponibilità accusando gli assegnatari di svolgervi attività illecite. Chi sa che uno di questi alloggi – per esempio – non abbia ospitato una base logistica come quella attribuita in seguito a Skorzeny. C’è chi sta analizzando le carte relative agli imbarchi da Bari per l’esodo ebraico verso la Palestina; non si può escludere che spuntino indizi di presenze “anomale” riferibili alla rete nazista. È importante che il tema si faccia strada come indice di attenzione in una pluralità di indagini diversificate.

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 gennaio 2017