giovedì 28 gennaio 2016

I triangoli rossi di Boris Pahor

Memorie e storia dello sterminio 

I triangoli, cuciti sulla casacca, erano di vari colori. La gamma cromatica tristemente nota riflette l’enormità del sistema concentrazionario nazista. Una rete capillare di campi e sottocampi, disseminati fra l’Alsazia e i paesi baltici, moltiplicata a dismisura durante la guerra, quando il Nuovo ordine europeo annunciato da Hitler sembrò prendere forma. Un continente all’ombra della croce uncinata, dalla Norvegia alla Grecia. Migliaia di vagoni ferroviari che corrono per tutta l’Europa gravitando verso il centro, per sorreggere lo sforzo immane dell’economia di guerra, per trasportare tutto il trasportabile, dalle materie prime agli esseri umani, verso la fornace che si alimenta di ininterrotto saccheggio. Una catena di violenza che colpisce tutte le masse umane utilizzabili e le destina senza soluzione di continuità a deportazione, internamento, lavoro forzato e morte. Nei gironi infernali del lager quelli a cui va meno peggio sono i prigionieri di guerra, purché non siano sovietici: ché in tal caso vengono schiavizzati e uccisi, perché bolscevichi e perché razza slava, anch’essa inferiore. Qualche possibilità di sopravvivere (ma fino a quando?) ce l’hanno i triangoli verdi e neri, internati per crimini comuni o «asociali», fra i quali vengono scelti molti kapò. Nel girone più insondabile e oscuro sprofondano le stelle gialle, che hanno zero probabilità di cavarsela. Eppure neanche la «soluzione finale» riservata agli ebrei – la mala razza per eccellenza, con gli zingari (ma questi meno pericolosi di quelli, perché meno numerosi e non integrati) – sarebbe stata messa in atto senza la condizione eccezionale di incontrastato dominio ottenuta dai nazisti grazie alla conquista dell’Est europeo. Ferma restando la profezia annientatrice, che, come sottolinea Raul Hilberg, si incarnava primariamente nella volontà di Hitler. Occorre perciò, nella persistenza della memoria, dare valore alla storia: non smettere di guardare alla Seconda guerra mondiale come al tragico culmine del XX secolo, in cui sono precipitate tutte le contraddizioni e si è delineata quella “unicità” di una organizzazione scientifica dello sterminio su scala industriale, che non a caso si impone nello stravolgimento morale del conflitto più devastante di sempre (60-70 milioni di vittime in sei anni, in maggioranza civili). La «distruzione degli ebrei d’Europa» (ancora Hilberg, che così intitola il suo ineguagliato saggio storiografico) si determina non tanto come apice di un processo diacronico – un destino metastorico di persecuzione – quanto come risultato intenzionale e catastrofico di una dimensione sincronica: i fascismi, il razzismo hitleriano, la guerra. La cosa giusta è dunque confrontare e far dialogare le memorie nello spazio pubblico.
Un prezioso contributo alla memoria dei «triangoli rossi» – gli oppositori politici, i resistenti – è venuto dallo scrittore triestino-sloveno Boris Pahor, il cui capolavoro, Necropoli (1967; Fazi, 2008), è a nostro parere il libro che più merita di essere accostato a Se questo è un uomo di Primo Levi. Arrestato a Trieste nel 1944 come membro del Fronte di liberazione sloveno, fu deportato a Dachau, Natzweiler, Dora-Mittelbau e a Bergen Belsen. Vide i forni crematori funzionare a pieno regime. Si salvò anche perché venne scelto come infermiere. Con il suo libro più famoso Pahor ha rievocato la terrificante odissea, ma oggi, instancabile testimone a 102 anni, torna a parlarne in un agile volumetto, Triangoli rossi (Bompiani, 2015); dove stupiscono ancora la qualità narrativa e la delicatezza poetica che ripercorre l’orrore con tratti sobri e senza farsi mancare un filo di ironia. Ma il libro è anche una rivendicazione di orgoglio del triangolo rosso: di quanti, nel loro piccolo ma con tutte le forze di cui disponevano, hanno alzato nel Vecchio Continente la bandiera della Resistenza. Concorrendo alla vittoria contro il nazifascismo. Già protagonista della prima stagione di racconto del lager, con l’opera capostipite, La specie umana di Robert Antelme (1947) e con il film Notte e nebbia di Alain Resnais (1956; NN, Nacht und Nebel: così erano designati dai tedeschi i prigionieri politici), la generazione internazionale dei resistenti e dei partigiani è stata consacrata in un libro memorabile come le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea (Einaudi 1954, con prefazione di Thomas Mann), che raccoglie testimonianze da 18 paesi sotto il tallone nazista. Anche questa leva di “degeneri” per scelta – ci ricorda Pahor – ha conosciuto le camere a gas, oltre che le celle di tortura della Gestapo. Non senza aver continuato a lottare: per esempio sabotando nel lager di Dora-Mittelbau i missili che Wernher von Braun faceva partire contro l’Inghilterra. È la generazione degli antifascisti pugliesi Filippo D’Agostino, Alfredo Violante, Vincenzo Gigante, inceneriti ad Hartheim, a Mauthausen, alla Risiera di San Sabba. Ma il libro contiene altri episodi rivelatori. Eccone uno. A Struthof alcuni deportati istriani protestano perché una SS li insulta come «zingari», ma il milite li picchia urlando: «Italiani e zingari, è lo stesso!». Nella ossessione nazionalsocialista gli italiani – già traditori, fannulloni e falsi ariani – scivolano facilmente verso il fondo dell’abisso.   

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 gennaio 2016      


domenica 24 gennaio 2016

Arcangelo Lisi e Locorotondo

Da una all’altra generazione


Sono contento di avere contribuito in qualche modo a consolidare in Antonio e Dino Angelini l’intenzione, che essi accarezzavano da tempo, di pubblicare nuovamente l’autobiografia politica di Arcangelo Lisi in formato elettronico e cartaceo.
Da parte mia avevo sollevato il caso dell’epigrafe che a Locorotondo commemora Giuseppe Di Vagno, ucciso dai fascisti nel 1921. Il dettato stesso attesta la travagliata vicenda dell’iscrizione, che già di per sé è una pagina di storia della lotta politica e della democrazia nel comune del Sudest barese. «La codardia nemica due volte distrusse, il popolo due volte pose». Affissa originariamente il 1° novembre 1921, poco dopo l’assassinio, la pietra era stata ricollocata in via definitiva il 1° maggio 1947. Ma quando e in quali circostanze erano avvenute le due distruzioni? Al mio interrogativo Dino Angelini rispondeva che gli episodi erano narrati nel memoriale di Lisi.
Conoscevo questo libro e, naturalmente, mi erano ben chiare la figura dell’autore e la sua importanza nella formazione politica dei miei coetanei a Locorotondo e in tutta la Valle d’Itria. Avevo però ormai una memoria assai vaga del testo. Questo è il racconto di Lisi, che Dino mi ha riassunto e che trovo nel memoriale: la lapide era stata infranta una prima volta durante il fascismo; dopo la caduta del regime, i frammenti furono rivenuti nella casa del fascio, cosicché l’iscrizione fu ricomposta e posata il 4 giugno ’44; venne distrutta di nuovo nel ’45, contestualmente all’assalto neofascista contro la sezione del Pci.
Il libro del vecchio militante comunista affermava insomma quanto mi era parso di intuire: che uno degli atti vandalici risalisse al periodo post-fascista; ed era questa la riprova, ove ce ne fosse bisogno, di una continuità nel blocco sociale e politico dominante a Locorotondo. Non si porta a termine un’azione squadristica di tale gravità, distruggendo fra l’altro l’intera biblioteca della sezione comunista, sotto lo sguardo remissivo dei carabinieri, senza godere di potenti appoggi nella società locale. «Nessun processo – scrive Lisi –. Se lo avessero fatto i nostri, forse ancora sarebbero dentro». E poi, come se non bastasse, altre aggressioni, intimidazioni, minacce di morte. «Così tempestosamente si chiudeva il 1945», commenta l’anziano dirigente che pure aveva vissuto tanti momenti critici, e aveva avuto la soddisfazione di vedere la caduta del duce («Lui se n’è andato!»), la fine della guerra, la Liberazione. Il ‘45 sarebbe dovuto essere l’anno del nuovo inizio!

Continuità, dunque. Il primo podestà fascista di Locorotondo – è ancora Lisi a sottolinearlo – non era altri che il sindaco sempre riconfermato nei trent’anni precedenti. E dopo, nell’età della repubblica antifascista, la contesa a Locorotondo fra democristiani e monarchici per l’egemonia, che riecheggiava il vecchio contrasto prefascista fra «senussi» e «beduini», non faceva che riproporre la dominanza, nel paese e soprattutto in campagna, di certi rapporti di classe. L’unità fra agrari, grandi produttori e grandi professionisti, con la massa dei piccoli contadini in posizione subalterna, e con i lavoratori e garzoni malpagati delle allora numerose aziende artigiane, mostrava una sostanza antipopolare e una coloritura espressamente nostalgica. In tempi recenti l’amministrazione comunale locorotondese ha fatto parlare di sé per la scarsa attitudine a celebrare il 25 aprile. E sempre nel comune del vino bianco DOC ha avuto spazio un’associazione mussoliniana che agiva da punto di riferimento per la galassia neofascista del Brindisino.
Di contro alla inveterata superbia e alla sfrontatezza di quanti hanno interpretato l’esclusivismo sociale di un blocco egemonico, si è stagliata la fierezza indomabile di uomini come Lisi, i quali hanno assunto fino in fondo il dovere di rappresentare una minoranza oppressa e sfruttata avendo ben chiari i rischi cui andavano incontro: l’arresto, i pestaggi, la morte, senza contare l’ordinaria precarietà lavorativa e la povertà, cui è condannato chi non partecipa alla briciole del banchetto padronale.
Operaio edile a giornata, Lisi ha imparato a leggere e a scrivere nella scuola elementare ai primi del Novecento, ma ha costruito da autodidatta il suo sapere, leggendo giornali e libri. L’esperienza pratica del movimento operaio e le letture marxiste hanno sviluppato in lui la capacità di analizzare lucidamente il territorio in cui vive e di tratteggiare con precisione realistica le figure sociali. Ma c’è anche il suo acume empirico, di lavoratore, di uomo del popolo. Per Lisi non esistono genericamente «l’operaio» o «l’artigiano»; esistono invece, per esempio, il «manovale mezzo carrettiere», il «barbiere di Bitonto che lavorava in un salone di Locorotondo a giornata», oltre al «bottaio», al «capraio» e via dicendo.

Lisi con la sua famiglia 
La società locorotondese della prima metà del Novecento, in cui prevalgono la piccola proprietà contadina e l’insediamento sparso, mentre il lavoro dipendente si identifica per lo più con i muratori soggetti al ricatto della disoccupazione, è così descritta: «gli edili erano e sono quasi sempre fuori a lavorare, e i contadini, essendo quasi tutti piccoli proprietari, non hanno mai sentito il bisogno di organizzarsi e di lottare». Nel primo ventennio del secolo, quando si determina un momento favorevole per i lavori pubblici (è allora che viene realizzato «l’imponente edificio scolastico» destinato ad accogliere gli alunni delle elementari), la concentrazione e la forza degli edili rendono possibili episodi di lotta e di crescita sindacale, fra cui la conquista delle otto ore che il fascismo abolirà. In quella temperie il giovane Lisi diventa una guida consapevole, un dirigente proletario. «Gli edili allora erano quasi tutti del paese, mentre oggi [1956] sono quasi tutti della campagna e numerosissimi, per cui si fanno fra loro una spietata concorrenza a danno di tutti».
La biografia politica di Arcangelo Lisi percorre interamente il ciclo del movimento operaio novecentesco: i conflitti sindacali di inizio secolo, la dolorosa vicenda dell’emigrazione, il pacifismo socialista, la lotta contro le violenze delle camicie nere, la scissione fra socialisti e comunisti, la resistenza dura, quotidiana, individuale nel corso del ventennio, la rinascita dell’antifascismo durante gli ultimi anni di guerra, la ripresa dell’organizzazione politica e sindacale nell’Italia repubblicana. Le notizie e gli spunti sono numerosi, già rilevati da Dino, oltre che da Attilio Grassi nella vecchia prefazione. Vorrei solo aggiungere qualche segnalazione: mi sembrano degni di nota il passaggio da Locorotondo della sindacalista rivoluzionaria e femminista Maria Rygier; il confino per propaganda pacifista di Giovanni Gianfrate (capo socialista, amico e maestro di Lisi) che ci rammenta come era gestito il “fronte interno” nel corso della Grande Guerra; l’arrivo di Rita Maierotti e Filippo D’Agostino subito dopo il congresso di Livorno, per organizzare in loco il neonato partito comunista; l’eclisse dei fascisti locali nei giorni del delitto Matteotti; Mario Assennato sfollato a Locorotondo durante la Seconda guerra; il primo contatto di Lisi a Bari con Raffaele Pastore e Domenico De Leonardis per riconnettere le fila del Pci nel settembre ’43.
Si potrebbe continuare. Ma voglio concludere con ciò che viene dopo la stesura delle memorie: non una semplice appendice, tanto meno un epilogo, bensì una prosecuzione logica di quel ciclo del movimento operaio, che negli anni ’60-’70 trova forse la sua fase conclusiva. Mi riferisco allo straordinario passaggio di testimone fra Lisi e la giovane generazione di compagni locorotondesi, di cui è prova la stessa avventura editoriale che ha originato la pubblicazione di questo libro. Dopo aver circolato in forma manoscritta – tanto da subire danneggiamenti non casuali – il testo del memoriale è preso in cura da Dino Angelini e Gino Palmisano, che lo ricopiano in dattiloscritto subito dopo il ’68 (anno della morte di Lisi e anche anno della presa di coscienza definitiva di una nuova sinistra che rivendica un proprio ruolo). Quindi Antonio Angelini provvede a stamparlo nel 1970, per i tipi della Arti Grafiche Angelini & Pace.
Quei giovani che si appassionano ai nuovi termini della questione contadina, che con Dudduzzo (Leonardo Pastore) e con un nutrito gruppo di giovanissimi operai e apprendisti danno vita al Circolo Che Guevara di Locorotondo e, poco dopo, con molti loro coetanei di tutta la regione, al Circolo Lenin di Puglia, sono figli ed eredi di Arcangelo Lisi. Ne assimilano intimamente l’insegnamento morale, politico e umano.
Qualche anno fa Marisa Valentini, scrivendo una nitida testimonianza sulla figura di Gino Palmisano, ha raccontato come nel 1963 l’allora giovanissimo compagno fosse rimasto profondamente colpito e commosso da un incontro con Lisi, avvenuto in modo occasionale nella bottega del barbiere. Aveva scoperto che al vecchio comunista non restava, letteralmente, una lira in tasca; e mancavano ancora dodici giorni alla data in cui avrebbe riscosso il modesto assegno mensile di pensionato. L’uomo che più di altri, fra quanti erano allora in vita, aveva incarnato a Locorotondo una storia di lotte per la democrazia e per la giustizia sociale, conduceva ora l’esistenza in una condizione di miseria. È una di quelle lezioni che cambiano la vita di un adolescente, ne motivano lo spirito di ribellione e ne indirizzano potentemente le scelte morali.    


Pasquale Martino  
gennaio 2016