Da una all’altra
generazione
Sono contento di avere contribuito in qualche modo a
consolidare in Antonio e Dino Angelini l’intenzione, che essi accarezzavano da
tempo, di pubblicare nuovamente l’autobiografia politica di Arcangelo Lisi in
formato elettronico e cartaceo.
Da
parte mia avevo sollevato il caso dell’epigrafe che a Locorotondo commemora
Giuseppe Di Vagno, ucciso dai fascisti nel 1921. Il dettato stesso attesta la
travagliata vicenda dell’iscrizione, che già di per sé è una pagina di storia
della lotta politica e della democrazia nel comune del Sudest barese. «La
codardia nemica due volte distrusse, il popolo due volte pose». Affissa originariamente
il 1° novembre 1921, poco dopo l’assassinio, la pietra era stata ricollocata in
via definitiva il 1° maggio 1947. Ma quando e in quali circostanze erano
avvenute le due distruzioni? Al mio interrogativo Dino Angelini rispondeva che
gli episodi erano narrati nel memoriale di Lisi.
Conoscevo
questo libro e, naturalmente, mi erano ben chiare la figura dell’autore e la
sua importanza nella formazione politica dei miei coetanei a Locorotondo e in
tutta la Valle d’Itria. Avevo però ormai una memoria assai vaga del testo. Questo
è il racconto di Lisi, che Dino mi ha riassunto e che trovo nel memoriale: la
lapide era stata infranta una prima volta durante il fascismo; dopo la caduta
del regime, i frammenti furono rivenuti nella casa del fascio, cosicché
l’iscrizione fu ricomposta e posata il 4 giugno ’44; venne distrutta di nuovo
nel ’45, contestualmente all’assalto neofascista contro la sezione del Pci.
Il libro
del vecchio militante comunista affermava insomma quanto mi era parso di
intuire: che uno degli atti vandalici risalisse al periodo post-fascista; ed
era questa la riprova, ove ce ne fosse bisogno, di una continuità nel blocco
sociale e politico dominante a Locorotondo. Non si porta a termine un’azione
squadristica di tale gravità, distruggendo fra l’altro l’intera biblioteca
della sezione comunista, sotto lo sguardo remissivo dei carabinieri, senza
godere di potenti appoggi nella società locale. «Nessun processo – scrive Lisi –. Se lo avessero fatto i
nostri, forse ancora sarebbero dentro». E poi, come se non bastasse, altre
aggressioni, intimidazioni, minacce di morte. «Così tempestosamente si chiudeva
il 1945», commenta l’anziano dirigente che pure aveva vissuto tanti momenti
critici, e aveva avuto la soddisfazione di vedere la caduta del duce («Lui se
n’è andato!»), la fine della guerra, la Liberazione. Il ‘45 sarebbe dovuto
essere l’anno del nuovo inizio!
Continuità, dunque. Il primo podestà fascista di
Locorotondo – è ancora Lisi a sottolinearlo – non era altri che il sindaco sempre
riconfermato nei trent’anni precedenti. E dopo, nell’età della repubblica
antifascista, la contesa a Locorotondo fra democristiani e monarchici per
l’egemonia, che riecheggiava il vecchio contrasto prefascista fra «senussi» e «beduini»,
non faceva che riproporre la dominanza, nel paese e soprattutto in campagna, di
certi rapporti di classe. L’unità fra agrari, grandi produttori e grandi
professionisti, con la massa dei piccoli contadini in posizione subalterna, e
con i lavoratori e garzoni malpagati delle allora numerose aziende artigiane, mostrava
una sostanza antipopolare e una coloritura espressamente nostalgica. In tempi
recenti l’amministrazione comunale locorotondese ha fatto parlare di sé per la
scarsa attitudine a celebrare il 25 aprile. E sempre nel comune del vino bianco
DOC ha avuto spazio un’associazione mussoliniana che agiva da punto di
riferimento per la galassia neofascista del Brindisino.
Di contro alla inveterata superbia e alla
sfrontatezza di quanti hanno interpretato l’esclusivismo sociale di un blocco
egemonico, si è stagliata la fierezza indomabile di uomini come Lisi, i quali hanno
assunto fino in fondo il dovere di rappresentare una minoranza oppressa e
sfruttata avendo ben chiari i rischi cui andavano incontro: l’arresto, i
pestaggi, la morte, senza contare l’ordinaria precarietà lavorativa e la
povertà, cui è condannato chi non partecipa alla briciole del banchetto padronale.
Operaio edile a giornata, Lisi ha imparato a
leggere e a scrivere nella scuola elementare ai primi del Novecento, ma ha
costruito da autodidatta il suo sapere, leggendo giornali e libri. L’esperienza
pratica del movimento operaio e le letture marxiste hanno sviluppato in lui la
capacità di analizzare lucidamente il territorio in cui vive e di tratteggiare
con precisione realistica le figure sociali. Ma c’è anche il suo acume empirico,
di lavoratore, di uomo del popolo. Per Lisi non esistono genericamente
«l’operaio» o «l’artigiano»; esistono invece, per esempio, il «manovale mezzo
carrettiere», il «barbiere di Bitonto che lavorava in un salone di Locorotondo
a giornata», oltre al «bottaio», al «capraio» e via dicendo.
Lisi con la sua famiglia |
La società locorotondese della prima metà del
Novecento, in cui prevalgono la piccola proprietà contadina e l’insediamento
sparso, mentre il lavoro dipendente si identifica per lo più con i muratori
soggetti al ricatto della disoccupazione, è così descritta: «gli edili erano e sono quasi
sempre fuori a lavorare, e i contadini, essendo quasi tutti piccoli
proprietari, non hanno mai sentito il bisogno di organizzarsi e di lottare».
Nel primo ventennio del secolo, quando si determina un momento favorevole per i
lavori pubblici (è allora che viene realizzato «l’imponente edificio scolastico»
destinato ad accogliere gli alunni delle elementari), la concentrazione e la
forza degli edili rendono possibili episodi di lotta e di crescita sindacale,
fra cui la conquista delle otto ore che il fascismo abolirà. In quella temperie
il giovane Lisi diventa una guida consapevole, un dirigente proletario. «Gli
edili allora erano quasi tutti del paese, mentre oggi [1956] sono quasi tutti
della campagna e numerosissimi, per cui si fanno fra loro una spietata
concorrenza a danno di tutti».
La
biografia politica di Arcangelo Lisi percorre interamente il ciclo del
movimento operaio novecentesco: i conflitti sindacali di inizio secolo, la
dolorosa vicenda dell’emigrazione, il pacifismo socialista, la lotta contro le
violenze delle camicie nere, la scissione fra socialisti e comunisti, la
resistenza dura, quotidiana, individuale nel corso del ventennio, la rinascita
dell’antifascismo durante gli ultimi anni di guerra, la ripresa
dell’organizzazione politica e sindacale nell’Italia repubblicana. Le notizie e
gli spunti sono numerosi, già rilevati da Dino, oltre che da Attilio Grassi
nella vecchia prefazione. Vorrei solo aggiungere qualche segnalazione: mi
sembrano degni di nota il passaggio da Locorotondo della sindacalista
rivoluzionaria e femminista Maria Rygier; il confino per propaganda pacifista
di Giovanni Gianfrate (capo socialista, amico e maestro di Lisi) che ci
rammenta come era gestito il “fronte interno” nel corso della Grande Guerra;
l’arrivo di Rita Maierotti e Filippo D’Agostino subito dopo il congresso di
Livorno, per organizzare in loco il
neonato partito comunista; l’eclisse dei fascisti locali nei giorni del delitto
Matteotti; Mario Assennato sfollato a Locorotondo durante la Seconda guerra; il
primo contatto di Lisi a Bari con Raffaele Pastore e Domenico De Leonardis per
riconnettere le fila del Pci nel settembre ’43.
Si
potrebbe continuare. Ma voglio concludere con ciò che viene dopo la stesura
delle memorie: non una semplice appendice, tanto meno un epilogo, bensì una
prosecuzione logica di quel ciclo del movimento operaio, che negli anni ’60-’70
trova forse la sua fase conclusiva. Mi riferisco allo straordinario passaggio
di testimone fra Lisi e la giovane generazione di compagni locorotondesi, di
cui è prova la stessa avventura editoriale che ha originato la pubblicazione di
questo libro. Dopo aver circolato in forma manoscritta – tanto da subire danneggiamenti
non casuali – il testo del memoriale è preso in cura da Dino Angelini e Gino
Palmisano, che lo ricopiano in dattiloscritto subito dopo il ’68 (anno della
morte di Lisi e anche anno della presa di coscienza definitiva di una nuova
sinistra che rivendica un proprio ruolo). Quindi Antonio
Angelini provvede a stamparlo nel 1970, per i tipi della Arti Grafiche Angelini
& Pace.
Quei
giovani che si appassionano ai nuovi termini della questione contadina, che con
Dudduzzo (Leonardo Pastore) e con un nutrito gruppo di giovanissimi operai e
apprendisti danno vita al Circolo Che Guevara di Locorotondo e, poco dopo, con
molti loro coetanei di tutta la regione, al Circolo Lenin di Puglia, sono figli
ed eredi di Arcangelo Lisi. Ne assimilano intimamente l’insegnamento morale,
politico e umano.
Qualche
anno fa Marisa Valentini, scrivendo una nitida testimonianza sulla figura di
Gino Palmisano, ha raccontato come nel 1963 l’allora giovanissimo compagno
fosse rimasto profondamente colpito e commosso da un incontro con Lisi,
avvenuto in modo occasionale nella bottega del barbiere. Aveva scoperto che al
vecchio comunista non restava, letteralmente, una lira in tasca; e mancavano
ancora dodici giorni alla data in cui avrebbe riscosso il modesto assegno
mensile di pensionato. L’uomo che più di altri, fra quanti erano allora in
vita, aveva incarnato a Locorotondo una storia di lotte per la democrazia e per
la giustizia sociale, conduceva ora l’esistenza in una condizione di miseria. È
una di quelle lezioni che cambiano la vita di un adolescente, ne motivano lo
spirito di ribellione e ne indirizzano potentemente le scelte morali.
Pasquale Martino
gennaio 2016
in Arcangelo Lisi, Storia del movimento operaio di Locorotondo, 1970, ristampa del 2016.