lunedì 28 dicembre 2015

Il ponte delle spie

La vera storia del «colonnello Abel»

Francobollo commemorativo dell' Urss per 
Rudolf Abel, 1990 (poco prima dello scioglimento)
Era finito nel dimenticatoio, sepolto in un remoto archivio. Ma era stato l’episodio più clamoroso di spionaggio e di scambio di prigionieri nella guerra fredda. «Il caso del colonnello Abel», come recitava il titolo nella prima edizione italiana del libro di James B. Donovan Strangers on a Bridge (Rizzoli, 1968). Donovan era l’avvocato dell’agente segreto russo arrestato a Brooklyn nel 1957 e scambiato nel 1962 – sul ponte di Grienecke fra le due Germanie – con l’aviatore statunitense Francis G. Powers, che i sovietici catturarono dopo averne abbattuto l’aereo-spia. Il personaggio di Donovan è interpretato dal sempre bravo Tom Hanks nel film Il ponte delle spie, ultima fatica di Steven Spielberg che ha il pregio di rievocare quella storia con intelligenza. L’editore Garzanti ripubblica tempestivamente il diario dell’avvocato, con un nuovo titolo (La verità sul caso Rudolf Abel, 2015). È sperabile che Adelphi rilanci un vecchio libro del 1982: Il cacciatore capovolto, di Kirill Chenkin, un resoconto intessuto di autobiografia. L’autore era stato infatti allievo e amico di Abel, nonché agente segreto, poi giornalista, prima di emigrare in Israele negli anni ’70. Tanto più interessante in quanto è scritto da chi ha maturato una dissidenza radicale vivendo all’interno del sistema sovietico, il saggio di Chenkin restituisce la complessa personalità e lo spessore morale di Abel, che impressionarono pure Donovan e che d’altronde traspaiono nel film, grazie anche all’interpretazione di Mark Rylance.
Per cominciare, il suo vero nome era William Henrichovic Fisher. Nato nel 1903 e morto nel 1971; il padre era un operaio tedesco socialista, emigrato in Russia e in Inghilterra; la futura spia – Willy, per gli amici – parla l’inglese e il russo come lingue madri. Rudolf Ivanovic Abel era invece un suo amico e compagno, un militare morto poco prima dell’arresto di Willy. Questi ne assume l’identità e da quel momento diventa il colonnello Abel: il doppio nome lo seguirà persino sull’epitaffio. Fisher è un combattente plasmatosi nell’età aurorale della rivoluzione russa, quando la guerra delle informazioni riservate, lo spionaggio, era una variante della lotta politica internazionale, della «guerra civile europea» la cui posta in gioco – per chi ne condivideva gli ideali – era la sopravvivenza del paese dei Soviet, il primo esperimento socialista della storia. A combattere la battaglia nascosta della intelligence, dalla parte di Mosca, non erano soltanto i rivoluzionari del Comintern, ma anche un variegato milieu di simpatizzanti e intellettuali del mondo occidentale, quasi un vivaio dal quale si poteva partire volontari per difendere la Spagna repubblicana o altresì ritirarsi nell’ombra per svolgere missioni occulte. E dopo, durante la guerra antinazista, sembrava meritorio e comunque non disdicevole aiutare l’Urss, alleata e non nemica degli Angloamericani. Ma poi arriva il tempo della guerra fredda, di un duro confronto in un orizzonte da incubo nucleare. E la parte più rischiosa tocca ancora al veterano: spiare, non già al riparo di una comoda copertura diplomatica, ma entrando in clandestinità dal 1948 nel paese ostile. Mimetizzandosi, fingendosi americano. Ciò che Fisher fa con meticolosa preparazione: per esempio, leggendo in biblioteca i giornali newyorkesi degli anni passati, per conoscere cronache e dettagli che sostanziano la sua falsa memoria; o stringendo amicizie che in buona misura sono relazioni umane autentiche. Una coppia di amici andrà in Russia, negli anni ’60, senza riuscire però a incontrare l’uomo cui nonostante tutto era affezionata.        
Poliglotta, cólto, dedito alla pittura, Willy è un professionista che unisce la freddezza e l’autocontrollo al senso di umanità e al rispetto per l’avversario. Una figura estranea a quella del burocrate che gestiva il controllo poliziesco all’interno della società sovietica. Egli fa parte di una schiera di patrioti che combattono fuori dei confini, nel cuore del pericolo, guardando con malcelato spregio alla macchina di funzionari del KGB, incarnazione dello Stato di polizia. Anche Markus Wolf, capo dell’intelligence degli affari esteri della DDR – «Misha», modello reale del letterario Karla, il grande burattinaio dei romanzi di John Le Carré – esibiva disdegnosa lontananza dalla Stasi, il soffocante apparato del ministero della sicurezza tedesco-orientale. È nel vivo della contraddizione che si rivela la qualità degli individui.
Rientrato in patria, Fisher conduce un tenore di vita sobrio; è chiamato a tenere lezioni e conferenze, insignito dell’Ordine di Lenin, ma non del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica (che invece era stato concesso alla memoria di Richard Sorge, la spia uccisa dai giapponesi nel ’44). Non aveva mai rivelato nessun nome né ammesso nulla, se non di essere russo e di chiamarsi Abel. Aveva attraversato indenne il regno micidiale dell’inganno, del doppio gioco, del sospetto e della paranoia. Forse Abel il pittore è stato artefice di un complicato dipinto criptico, in cui a malapena, se si guarda fra i rami di un albero, si scorge la sagoma di un cacciatore capovolto.
  
Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 dicembre 2015