La
vera storia del «colonnello Abel»
Francobollo commemorativo dell' Urss per Rudolf Abel, 1990 (poco prima dello scioglimento) |
Era
finito nel dimenticatoio, sepolto in un remoto archivio. Ma era stato
l’episodio più clamoroso di spionaggio e di scambio di prigionieri nella guerra
fredda. «Il caso del colonnello Abel», come recitava il titolo nella prima
edizione italiana del libro di James B. Donovan Strangers on a Bridge (Rizzoli, 1968). Donovan era l’avvocato dell’agente
segreto russo arrestato a Brooklyn nel 1957 e scambiato nel 1962 – sul ponte di
Grienecke fra le due Germanie – con l’aviatore statunitense Francis G. Powers, che
i sovietici catturarono dopo averne abbattuto l’aereo-spia. Il personaggio di
Donovan è interpretato dal sempre bravo Tom Hanks nel film Il ponte delle spie, ultima fatica di Steven Spielberg che ha il pregio
di rievocare quella storia con intelligenza. L’editore Garzanti ripubblica
tempestivamente il diario dell’avvocato, con un nuovo titolo (La verità sul caso Rudolf Abel, 2015). È
sperabile che Adelphi rilanci un vecchio libro del 1982: Il cacciatore capovolto, di Kirill Chenkin, un resoconto intessuto
di autobiografia. L’autore era stato infatti allievo e amico di Abel, nonché
agente segreto, poi giornalista, prima di emigrare in Israele negli anni ’70. Tanto
più interessante in quanto è scritto da chi ha maturato una dissidenza radicale
vivendo all’interno del sistema sovietico, il saggio di Chenkin restituisce la
complessa personalità e lo spessore morale di Abel, che impressionarono pure Donovan
e che d’altronde traspaiono nel film, grazie anche all’interpretazione di Mark
Rylance.
Per
cominciare, il suo vero nome era William Henrichovic Fisher. Nato nel 1903 e
morto nel 1971; il padre era un operaio tedesco socialista, emigrato in Russia
e in Inghilterra; la futura spia – Willy, per gli amici – parla l’inglese e il
russo come lingue madri. Rudolf Ivanovic Abel era invece un suo amico e
compagno, un militare morto poco prima dell’arresto di Willy. Questi ne assume
l’identità e da quel momento diventa il colonnello Abel: il doppio nome lo seguirà
persino sull’epitaffio. Fisher è un combattente plasmatosi nell’età aurorale
della rivoluzione russa, quando la guerra delle informazioni riservate, lo
spionaggio, era una variante della lotta politica internazionale, della «guerra
civile europea» la cui posta in gioco – per chi ne condivideva gli ideali – era
la sopravvivenza del paese dei Soviet, il primo esperimento socialista della
storia. A combattere la battaglia nascosta della intelligence, dalla parte di
Mosca, non erano soltanto i rivoluzionari del Comintern, ma anche un variegato
milieu di simpatizzanti e intellettuali del mondo occidentale, quasi un vivaio
dal quale si poteva partire volontari per difendere la Spagna repubblicana o
altresì ritirarsi nell’ombra per svolgere missioni occulte. E dopo, durante la
guerra antinazista, sembrava meritorio e comunque non disdicevole aiutare
l’Urss, alleata e non nemica degli Angloamericani. Ma poi arriva il tempo della
guerra fredda, di un duro confronto in un orizzonte da incubo nucleare. E la
parte più rischiosa tocca ancora al veterano: spiare, non già al riparo di una comoda
copertura diplomatica, ma entrando in clandestinità dal 1948 nel paese ostile. Mimetizzandosi,
fingendosi americano. Ciò che Fisher fa con meticolosa preparazione: per
esempio, leggendo in biblioteca i giornali newyorkesi degli anni passati, per
conoscere cronache e dettagli che sostanziano la sua falsa memoria; o
stringendo amicizie che in buona misura sono relazioni umane autentiche. Una
coppia di amici andrà in Russia, negli anni ’60, senza riuscire però a incontrare
l’uomo cui nonostante tutto era affezionata.
Poliglotta,
cólto, dedito alla pittura, Willy è un professionista che unisce la freddezza e
l’autocontrollo al senso di umanità e al rispetto per l’avversario. Una figura
estranea a quella del burocrate che gestiva il controllo poliziesco all’interno
della società sovietica. Egli fa parte di una schiera di patrioti che
combattono fuori dei confini, nel cuore del pericolo, guardando con malcelato spregio
alla macchina di funzionari del KGB, incarnazione dello Stato di polizia. Anche
Markus Wolf, capo dell’intelligence degli affari esteri della DDR – «Misha»,
modello reale del letterario Karla, il grande burattinaio dei romanzi di John
Le Carré – esibiva disdegnosa lontananza dalla Stasi, il soffocante apparato del
ministero della sicurezza tedesco-orientale. È nel vivo della contraddizione
che si rivela la qualità degli individui.
Rientrato
in patria, Fisher conduce un tenore di vita sobrio; è chiamato a tenere lezioni
e conferenze, insignito dell’Ordine di Lenin, ma non del titolo di Eroe
dell’Unione Sovietica (che invece era stato concesso alla memoria di Richard
Sorge, la spia uccisa dai giapponesi nel ’44). Non aveva mai rivelato nessun
nome né ammesso nulla, se non di essere russo e di chiamarsi Abel. Aveva
attraversato indenne il regno micidiale dell’inganno, del doppio gioco, del sospetto
e della paranoia. Forse Abel il pittore è stato artefice di un complicato dipinto
criptico, in cui a malapena, se si guarda fra i rami di un albero, si scorge la
sagoma di un cacciatore capovolto.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 27 dicembre 2015