domenica 21 dicembre 2014

L’operaio che comprò un Gauguin


Una storia della «meglio gioventù»


Fra i disperanti episodi di decadenza di cui abbonda la cronaca, emerge ogni tanto, in solitudine, qualche storia italiana positiva, si direbbe perfino esemplare. Una notizia recente aggiorna il caso notato mesi fa dalla stampa: quello del pensionato che ha scoperto di avere in suo possesso due dipinti francesi, di Paul Guaguin e di Pierre Bonnard, di provenienza furtiva. La magistratura sentenzia oggi che egli è legittimo proprietario, avendo comprato le tele regolarmente, per di più dallo Stato; i precedenti detentori sono morti a quanto pare senza eredi. La vicenda però, se ci è consentito, bisognerebbe provarsi a ricostruirla in tutta la sua complessità e ricchezza: essa rappresenta a suo modo una pagina emblematica di “storia degli italiani” dell’ultimo mezzo secolo.  

Il protagonista è citato dalle cronache con il nome fittizio di Niccolò. Ha ragione l’interessato a temere gli inconvenienti della notorietà, ma stentiamo a credere che la curiosità giornalistica si sia fermata davanti a tale riserbo. Fosse sospettato di omicidio o di associazione mafiosa, l’identità la sapremmo da tempo. L’innocenza è anonima.
Negli anni ’60 Niccolò è un giovane di Siracusa che emigra a Torino per lavorare alla Fiat: un figlio del Sud fra i tanti, che dentro a un cambiamento epocale affronta una vicenda di sacrifici e discriminazioni, di speranza e di emancipazione. Sposato, agli inizi degli anni ’70 fa i turni di notte a Mirafiori, il che, unitamente alla qualifica tecnica acquisita, gli permette di arrotondare il salario fino a 200 mila lire mensili. La dignità del lavoratore significa anche e soprattutto appropriazione della cultura: Niccolò ha gusto estetico e gli piace nel tempo libero girare per mercatini e bancarelle, cercando manufatti artistici alla portata delle sue tasche. Frequenta anche la sala di vendite all’asta di oggetti smarriti presso la stazione di Porta Nuova, dove un giorno, nel 1975, lo sguardo gli cade su due dipinti: una natura morta con un cagnolino, e un ritratto di signora adagiata su una poltrona con lo sfondo di un giardino. Il banditore li definisce «spazzatura», ma lui se ne innamora immediatamente. Il prezzo base è di 60 mila lire: troppo; Niccolò aspetta che la cifra cali. Ciononostante, quando il valore è sceso a 40 mila, è costretto a giocare al rilancio, finché i quadri sono suoi per 45 mila lire: un quarto della paga. La moglie abbozza, in fondo anche a lei non dispiacciono.
Li mettono nel salotto di casa: quello che, secondo la leggenda metropolitana, i meridionali tengono sempre chiuso ermeticamente perché “è la stanza buona”. Niccolò invece ci entra, si stende sul divano quando rincasa all’alba, e ammira le tele. Esse appaiono in tutte le fotografie degli eventi familiari, nascite, ricorrenze e via dicendo. Quando Nicolò va in pensione la famiglia ritorna a Siracusa, dove i quadri vengono appesi in cucina. Un investigatore – si legge in una nota – ha ironizzato sul fatto, inopportunamente: la cucina, spazio fra i più accoglienti, non è immeritevole di ospitare opere d’arte.

Secondo capitolo della storia. La coppia ha figli e li manda all’università. «Anche l’operaio vuole il figlio dottore, pensi che ambiente ne può venir fuori», cantava Paolo Pietrangeli. La ragazza si laurea in scienze della comunicazione e si specializza come graphic designer; l’arte è proprio un pallino di famiglia: il ragazzo si iscrive al liceo artistico e poi ad architettura. È soprattutto lui a volerne sapere di più su quei dipinti che gli accarezzano la fantasia fin dalla prima infanzia. È convinto che siano di autore. Ne parla con un insegnante del liceo; convengono che la firma appena leggibile su uno di essi sia quella di Carlo Bonatto Minella, un pittore piemontese dell’800 abbastanza noto. Poi si capirà che non c’è scritto Bonatto, ma Bonnard. Il sospetto nasce quando il giovane compra da un remainder un libro su Bonnard e vi scopre un paesaggio molto simile. Si mette a fare ulteriori ricerche: anche il cagnolino sembra un tema già visto nelle tele di Gauguin. Siamo a oggi: padre e figlio si rivolgono a una soprintendenza, che risponde di non avere tempo da perdere. Dopo altre consultazioni, si recano dal nucleo dei carabinieri per la tutela del patrimonio artistico. Questi la raccontano un po’ diversamente: sarebbe stato il nucleo, avendo raccolto voci, a incominciare le indagini e ad arrivare fino al pensionato siracusano. (Se è vero dovremmo ammirare i carabinieri, che di propria iniziativa si sarebbero messi sulle tracce di un furto avvenuto in Inghilterra più di quarant’anni fa.)  

Si giunge così al terzo capitolo, in realtà un prologo. 1970: due ricchi coniugi inglesi, proprietari dei grandi magazzini Marks & Spencer, hanno una villa piena di opere d’arte. Vengono derubati da ignoti; le due tele di Gauguin e Bonnard, non si sa quando e perché, attraversano la Manica, quindi viaggiano sul treno Parigi-Torino dove per qualche intoppo vengono abbandonate e nel 1975 finiscono all’ufficio oggetti smarriti. Le due opere non figuravano in un elenco di beni trafugati, ma gli investigatori scoprono che all’epoca comparvero notizie sul «New York Times» e su un quotidiano di Singapore.
Non sappiamo che cosa faranno Niccolò e i suoi delle tele di enorme valore (comunque, riconosciute e tutelate). Una di esse è stata valutata 35 milioni e potrebbero decidere di venderla. Ci piace che intanto dichiarino di volerle mettere a disposizione del pubblico: «Le cose belle sono di tutti. E tutti devono vederle». Principalmente, siamo loro grati per averci restituito, con questa storia orgogliosa di lavoro e cultura, una fresca pagina della «meglio gioventù» degli anni ’70 e della generazione che le è figlia.

Pasquale Martino   
  
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 dicembre 2014