Micae


Micae 1

Il bello dell’inverno
Virgilio





















Ara nudo, semina nudo, ma l’inverno è riposo al colono.
Ai freddi, gli agricoltori si godono ciò che hanno raccolto,
e soddisfatti si danno fra loro a mutui convivi.
Li invita l’inverno cordiale, e scioglie le preoccupazioni,
come quando le navi stracariche infine toccano il porto
e tutti contenti i nocchieri le addobbano di corone.
E tuttavia quello è il tempo di raccogliere ghiande di quercia,
bacche di alloro, e olive, e il mirto color del sangue,
e collocare lacci per le gru, le reti per cervi
e inseguire le lepri orecchiute, e roteando
la fionda balearica cacciare i camosci, quando
neve profonda si stende, e i fiumi trasportano ghiaccio.




Nudus ara, sere nudus. Hiems ignava colono:

frigoribus parto agricolae plerumque fruuntur                 

mutuaque inter se laeti convivia curant.

Invitat genialis hiems curasque resolvit,
ceu pressae cum iam portum tetigere carinae,
puppibus et laeti nautae imposuere coronas.
Sed tamen et quernas glandes tum stringere tempus                
et lauri bacas oleamque cruentaque myrta,
tum gruibus pedicas et retia ponere cervis
auritosque sequi lepores, tum figere dammas
stuppea torquentem Balearis verbera fundae,
cum nix alta iacet, glaciem cum flumina trudunt.                       
Georgica I, 299-310





Come va il mondo?
Virgilio













Il bene è male, il male è bene. Guerra globale,
e il delitto in forme molteplici. Nessun onore
è ormai dato all'aratro. Squallidi i campi,
cacciati via i contadini, e le falci ricurve
sono rifuse in forma di rigida spada.
Di là l’Eufrate è in armi, di qua la Germania.
Città vicine rompono i patti e si fanno guerra.
Empio infierisce Marte sull’intero mondo.
Così, quando s’avventano oltre i cancelli,
quadrighe corrono ogni giro più veloci,
i cavalli hanno preso il comando, invano l’auriga
tira le redini, il carro va senza più freni.



Quippe ubi fas versum atque nefas: tot bella per orbem,        505
tam multae scelerum facies, non ullus aratro
dignus honos, squalent abductis arva colonis,
et curvae rigidum falces conflantur in ensem.
Hinc movet Euphrates, illinc Germania bellum;
vicinae ruptis inter se legibus urbes                                        510
arma ferunt; saevit toto Mars impius orbe,
ut cum carceribus sese effudere quadrigae,
addunt in spatia, et frustra retinacula tendens
fertur equis auriga neque audit currus habenas.

Georgica I, 498-514





La vera storia della guerra di Troia
Orazio



















La storia che si narra, del lungo duello
– quando la Grecia affrontò i barbari, per colpa
dell’amore di Paride – racconta in realtà le passioni
di reami e popoli sciocchi. Antenore l’aveva proposto:
si togliesse di mezzo la causa della guerra;
ma Paride no, non voleva vedersi costretto
a vivere sano e salvo, a regnare beato. 
Nestore si affatica a comporre il litigio fra Achille
e Agamennone, entrambi adirati e furiosi, 
e uno per di più innamorato. I deliri dei re
li scontano i Greci. Sedizione, inganno,
delitto, libidine e ira: si pecca ugualmente
dentro le mura di Troia e fuori di esse.
Per converso, ciò che virtù e saggezza possano
ce lo ha mostrato – utile esempio – Ulisse.
Lui vincitore di Troia, uomo provvido,
molte città esplorò e gli umani costumi,
nella vasta distesa del mare cercando il ritorno
per i compagni e per sé, e soffrì aspre vicende
e mai fu sommerso dalle onde di avversa sorte.
Il canto delle Sirene, la pozione di Circe
son cose note. Ma lui non la bevve, non fu
preso da ottusa voglia come i compagni,
altrimenti sarebbe rimasto, sordido e bruto,
servo di una prostituta, come un cane
immondo, un maiale che gode nel fango.
Noi invece non siamo che massa: siamo nati
per consumare cibo, siamo i proci
di Penelope, i fannulloni, i giovanotti
di Alcinoo, che si impegnano oltremodo
nel curare la pelle liscia, per i quali
bello è dormire fino a mezzogiorno,
e alleviare l’angoscia con la cetra.




Fabula, qua Paridis propter narratur amorem
Graecia barbariae lento conlisa duello,
stultorum regum et populorum continet aestum.
Antenor censet belli praecidere causam;
quid Paris? Ut salvus regnet vivatque beatus                  10
cogi posse negat. Nestor componere litis
inter Pelidem festinat et inter Atriden;
hunc amor, ira quidem communiter urit utrumque.
Quicquid delirant reges, plectuntur Achivi.
Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira                    15
Iliacos intra muros peccatur et extra.
Rursus, quid virtus et quid sapientia possit,
utile proposuit nobis exemplar Ulixen,
qui domitor Troiae multorum providus urbes,
et mores hominum inspexit, latumque per aequor,         20
dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa
pertulit, adversis rerum inmersabilis undis.
Sirenum voces et Circae pocula nosti;
quae si cum sociis stultus cupidusque bibisset,
sub domina meretrice fuisset turpis et excors,                25
vixisset canis inmundus vel amica luto sus.
Nos numerus sumus et fruges consumere nati,
sponsi Penelopae nebulones Alcinoique
in cute curanda plus aequo operata iuventus,
cui pulchrum fuit in medios dormire dies et                    30
ad strepitum citharae cessatum ducere curam.

Epistulae I, 2, 6-31





La Notte
Tibullo








E ormai la Notte guida i suoi cavalli,
e dietro al carro della madre danzano
liete stelle dorate. Taciturno
da oscure ali circondato, viene
il Sonno, e con cammino incerto avanzano
i sogni tenebrosi.


… iam Nox iungit equos, currumque sequuntur
    matris lascivo sidera fulva choro,
postque venit tacitus furvis circumdatus alis
    Somnus et incerto Somnia nigra pede.

Elegiae II, 1, 87-90





Finché è possibile amiamoci felici
Properzio
















Non temo i tristi spiriti defunti,
Cinzia, non voglio rinviare il rogo
destinato. Che alle mie spoglie funebri
manchi la tua amorosa presenza, questa
è la mia paura, terribile più della morte.
Non è lieve la presa del divino fanciullo,
fra le mie ceneri non svanirà Amore
dimenticato. Là negli inferi, Protesilao
non ebbe oblio dell’amata compagna,
e la sua ombra tornò alla casa antica
per toccare con mani evanescenti
la propria gioia. Qualunque cosa io sarò
laggiù in quei luoghi, anche se vana immagine,
si dirà sempre che sono tuo. Un grande amore
oltrepassa le rive fatali. Vengano pure
danzando in coro le belle eroine
che i Greci presero come bottino a Troia:
mai nessuna più che la tua bellezza
Cinzia, mi piacerà. E per quanto la sorte
d’una tarda vecchiaia ti tratterrà in vita
–  la Terra giusta la conceda – un giorno
le tue spoglie saranno care al mio pianto.
Provassi questi stessi sentimenti
tu viva alla mia morte, allora sì
non mi sarebbe amaro trapassare
in nessun luogo. Ma proprio questo temo,
Cinzia: che Amore ingiusto ti distolga
da me, svilisca il mio rogo al tuo cuore,
e controvoglia asciughi le tue lacrime.
Una ragazza quantunque sia costante
può piegarsi a minacce ripetute.
Finché è possibile amiamoci felici,
l’amore non è mai lungo abbastanza. 

Properzio


Non ego nunc tristis vereor, mea Cynthia, Manis,
  nec moror extremo debita fata rogo;
sed ne forte tuo careat mihi funus amore,
   hic timor est ipsis durior exsequiis.
Non adeo leviter nostris puer haesit ocellis,
   ut meus oblito pulvis amore vacet.
Illic Phylacides iucundae coniugis heros
   non potuit caecis immemor esse locis,
sed cupidus falsis attingere gaudia palmis
   Thessalus antiquam venerat umbra domum.
Illic quidquid ero, semper tua dicar imago:
   traicit et fati litora magnus amor.
Illic formosae veniant chorus heroinae,
   quas dedit Argivis Dardana praeda viris:
quarum nulla tua fuerit mihi, Cynthia, forma
   gratior et (Tellus hoc ita iusta sinat)
quamvis te longae remorentur fata senectae,
   cara tamen lacrimis ossa futura meis.
Quae tu viva mea possis sentire favilla!
   Tum mihi non ullo mors sit amara loco.
Quam vereor, ne te contempto, Cynthia, busto
   abstrahat a nostro pulvere iniquus Amor,
cogat et invitam lacrimas siccare cadentis!
   Flectitur assiduis certa puella minis.
Quare, dum licet, inter nos laetemur amantes:
   non satis est ullo tempore longus amor.

Elegiae I, 19




Traduzioni di Pasquale Martino


Immagini: 1,3,4,5, pitture pompeiane; 2, pittura vascolare greca. 


Micae 2



Quando provo a dirti l’affanno del cuore

Quando provo a dirti l’affanno del cuore, 
Panfila, a dirti che cosa voglio da te,
le parole abbandonano le mie labbra, e sul petto
gronda sudore improvviso. E così
muto, stordito, io mi smarrisco e muoio.

Valerio Edituo


Dicere cum conor curam tibi, Pamphila, cordis
quid mi abs te quaeram, verba labris abeunt,
per pectus manat subito <subido> mihi sudor:
sic tacitus, subidus, dum pudeo pereo.

(fragm. 1 Morel)




Fuoco e lacrime

E adesso? Siete voi che mi avete trascinato
a forza nel fuoco, o miei occhi. Ma poi
non a forza inondate le guance. Certo le lacrime
non possono estinguere la fiamma. Queste son cose
che incendiano il volto e corrodono l’anima. E ormai
i vicini partecipano all’incendio,
se io lascio libera la fiamma a propagarsi.

Tiburtino


Quid fit? Vi me, oculei, posquam deducxstis in ignem
non ob vim vestreis largificatis geneis.
Porro non possunt lacrumae restinguere flamam
haec os incendunt tabificanque animum
iamque omnes veicinei incendia participantur
sei faciam flammam tradere utei liceat.
(vv. 934-935 Bücheler = CIL IV, 4966-4967)




Baci

Al modo dei colombi
labbra intrecciando a labbra.

                                                         Mazio

columbulatim labra conserens labris.
(fragm. 12 Morel)




Il vitello e la giovenca

Spesso davanti a splendidi sacrari di un dio
s’accasciò un vitellino, vittima sacrificale
sugli altari fumanti d’incenso, e versò col respiro
un caldo fiotto di sangue dal petto. E la madre
che lo ha smarrito s’aggira per le verdi distese,
scruta in terra le orme a due punte, rovista nei luoghi,
se riesca a scorgere da qualche parte il figlio perduto.
Non vuole andarsene, e il bosco frondoso risuona
dei suoi lamenti. E sempre ritorna a vedere
presso la stalla, straziata da acuto rimpianto.
Né i teneri salici né le erbe di rugiada imbevute
né i torrenti che scivolano lungo la sommità delle rive
valgono a confortarla, a stornare l’angoscia inattesa;
la parvenza di altri vitelli fra i grassi pascoli
non può distogliere il suo animo dall’affanno.
Solo suo è quello che cerca, lei lo conosce.

Lucrezio


Nam saepe ante deum vitulus delubra decora
turicremas propter mactatus concidit aras
sanguinis expirans calidum de pectore flumen;
at mater viridis saltus orbata peragrans                                
novit humi pedibus vestigia pressa bisulcis,
omnia convisens oculis loca, si queat usquam
conspicere amissum fetum, completque querellis
frondiferum nemus adsistens et crebra revisit
ad stabulum desiderio perfixa iuvenci,                                           
nec tenerae salices atque herbae rore vigentes
fluminaque ulla queunt summis labentia ripis
oblectare animum subitamque avertere curam,
nec vitulorum aliae species per pabula laeta
derivare queunt animum curaque levare;                              
usque adeo quiddam proprium notumque requirit.
(De rerum natura II, 352-366)



Un padre, una figlia, una dea

Portandola in braccio con sé, si dirige
verso lontane creste montuose, ammantate
di boschi solitari. Armi lo inseguono
da ogni parte, si aggirano i Volsci spargendo soldati.
Ma ecco, nel mezzo della fuga, spumeggia
il fiume Amaseno straripando dal sommo degli argini:
pioggia abbondante s’è riversata rompendo le nubi.
Vuole tuffarsi, ma lo trattiene l’amore paterno,
teme per il suo piccolo fardello.  Prende in esame
ogni possibilità, e appena in tempo
questa idea gli si fissa nella mente.
Ha una lancia guerriera, di solida quercia
che il sole ha stagionato: lega a questa
la bimba, fasciata da una membrana di sughero
e la assicura bene.  Con la destra possente
librando l’asta parla rivolto al cielo:
«Figlia di Latona, vergine madre, abitatrice
dei boschi, io, il padre, consacro a te questa bambina
come ancella. Stretta a un’arma a te sacra,
fugge i nemici e supplica. Accogli o dea
come tua  colei che ora s’affida al vento».
Arretra il braccio e scaglia l’asta nell’aria.
Risuona l’onda: di là del fiume in rapida, sull’asta
che sibila, fugge la povera Camilla.   
                                  Virgilio


Ipse sinu prae se portans iuga longa petebat
solorum nemorum: tela undique saeva premebant
et circumfuso volitabant milite Volsci.
Ecce fugae medio summis Amasenus abundans
spumabat ripis, tantus se nubibus imber
ruperat. Ille innare parans infantis amore
tardatur caroque oneri timet. Omnia secum 550
versanti subito vix haec sententia sedit:
telum immane manu valida quod forte gerebat
bellator, solidum nodis et robore cocto,
huic natam libro et silvestri subere clausam
implicat atque habilem mediae circumligat hastae; 555
quam dextra ingenti librans ita ad aethera fatur:
“Alma, tibi hanc, nemorum cultrix, Latonia virgo,
ipse pater famulam voveo; tua prima per auras
tela tenens supplex hostem fugit. Accipe, testor,
diva tuam, quae nunc dubiis committitur auris”. 560
Dixit, et adducto contortum hastile lacerto
immittit: sonuere undae, rapidum super amnem
infelix fugit in iaculo stridente Camilla.
(Aeneis XI, 544-563)


Carpe diem

Tu non indagare – è vietato saperlo – quale termine
a me abbiano dato gli dèi, o a te, Leouconoe,
e non sfidare gli oroscopi babilonesi.
È meglio accettare ciò che sarà. Sia che Giove
ci conceda più inverni, o sia questo l’ultimo
che ora infrange il mar Tirreno sulle opposte scogliere, 
sii saggia, filtra il vino e, poiché breve è lo spazio,
accorcia la lunga speranza. Mentre stiamo parlando,
sarà già fuggito il tempo invidioso:  perciò cogli il giorno,
confida il meno possibile nel domani.

                                            Orazio

Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
(Carmina I, 11)




La rana e il girino

Mentre la rana non c’era, finirono schiacciati
i girini sotto la zampa di un vitello.
Uno se la scampò, e racconta a mamma
che una bestia gigante ha fatto strage
dei fratellini. E quella: «Quanto grande?
Tanto?» (e si gonfia). «No, una volta e mezzo».
«Allora tanto?», e si gonfia ancora e ancora,
ma il girino: «Pure se scoppi – dice
- non sarai mai uguale». E questa storia
non è molto diversa dalla tua.  

Orazio

Absentis ranae pullis vituli pede pressis
unus ubi effugit, matri denarrat, ut ingens
belua cognatos eliserit: illa rogare,
quantane? num tantum, sufflans se, magna fuisset?
'maior dimidio.' 'num tanto?' cum magis atque
se magis inflaret, 'non, si te ruperis,' inquit,
'par eris.' haec a te non multum abludit imago.               
(Sermones II, 3, 314-320)




Felice inganno

Ad Argo c’era un tipo, conosciuto,
che sedendo da solo in un teatro
vuoto, tutto contento, applaudiva
e credeva di assistere a tragedie
meravigliosamente recitate.
Per tutto il resto era un uomo normale,
un buon vicino e un ospite gradevole,
gentile con la moglie, tollerante
con i servi se alzavano un po' il gomito,
in grado di scansare un precipizio
e non cadere in una buca. Ma
quando i parenti presero a curarlo,
spendendo soldi, e gli fecero espellere
la bile e il morbo dandogli da bere
un emetico, e lui ritornò in sé:
«Ammazzato m’avete, amici miei,
e non salvato – disse – : mi rubaste
il piacere dell’anima, ed a forza
mi sottraeste al mio felice inganno».

Orazio
... Fuit haud ignobilis Argis,
qui se credebat miros audire tragoedos
in vacuo laetus sessor plausorque theatro,
cetera qui vitae servaret munia recto
more, bonus sane vicinus, amabilis hospes,
comis in uxorem, posset qui ignoscere servis
et signo laeso non insanire lagoenae,
posset qui rupem et puteum vitare patentem.
Hic ubi cognatorum opibus curisque refectus
expulit elleboro morbum bilemque meraco
et redit ad sese: «Pol, me occidistis, amici,
non servastis – ait – cui sic extorta voluptas
et demptus per vim mentis gratissimus error».

(Epistulae II, 2, 128-140)




Classismo

Sei o settemila sesterzi ti mancano
per arrivare a quattrocentomila:
sei plebe e basta. Eppure i bimbi cantano:
«Sarai re se sarai retto». Un muro
resistente come bronzo, a tua difesa:
non aver nulla da rimproverarti.
Ma tu che dici: la legge Roscia è meglio
della infantile cantilena, «sarai re
se sarai retto»?

Orazio

(400.000 sesterzi erano il censo minimo per far parte della classe dei cavalieri, che, in base alla legge Roscia, aveva diritto a posti riservati in teatro.)


Sed quadringentis sex septem milia desunt:
plebs eris.
At pueri ludentes: 'Rex eris' aiunt,
'si recte facies': hic murus aeneus esto               
nil conscire sibi, nulla pallescere culpa.
Roscia, dic sodes, melior lex an puerorum est
nenia, quae regnum recte facientibus offert?
(Epistulae I, 1, 58-63




Luce dei miei occhi

O luce dei miei occhi, che io non sia
mai più l’ardente tua passione,
come credo che fui sino a ieri,
se non è vero che il più grave errore
della mia stolta giovinezza è questo:
l’averti lasciato da solo ieri notte,
volendoti nascondere il mio amore.

                                             Sulpicia

Ne tibi sim, mea lux, aeque iam fervida cura
ac videor paucos ante fuisse dies,
si quicquam tota commisi stulta iuventa
cuius me fatear paenituisse magis,
hesterna quam te solum quod nocte reliqui,
ardorem cupiens dissimulare meum.
(Corpus Tibullianum III, 18)



Le nozze del Sole

Esopo vide le nozze di un vicino, un ladro,
con molti invitati, e compose di getto una favola.
Una volta il Sole voleva prendere moglie,
ma le rane si misero a gracchiare fino al cielo.
Scosso dallo schiamazzo, Giove chiese
perché tanta lagna. Rispose cosí
una delle abitanti dello stagno:
«Già ora che è da solo brucia tutte
le pozzanghere, e fa morire in terra secca
le poveracce. Che farà se avrà dei figli?».

                                                        Fedro



Vicini furis celebres vidit nuptias
Aesopus, et continuo narrare incipit.
Uxorem quondam Sol cum vellet ducere,
clamorem ranae sustulere ad sidera.
Convicio permotus quaerit Iuppiter
causam querellae. Quaedam tum stagni incola
«Nunc – inquit – omnes unus exurit lacus,
cogitque miseras arida sede emori.
Quidnam futurum est si crearit liberos?».
(Fabulae I, 6)


Orzo e monete
              
Due muli se ne andavano stracarichi.
Uno portava ceste con monete
e l’altro sacchi traboccanti d’orzo.
Il primo va superbo, a testa alta,
fa tintinnare i suoi sonagli al collo.
L’altro lo segue quieto, a passo lento.
Ecco di colpo sbucano briganti,
fanno strage, feriscono anche il mulo
che ha i soldi e non si curano dell’orzo.
Derubato, piange la sua sventura.
E l’altro: «Son spregiato e son contento.
Nulla m’è stato tolto e sono illeso».
Il povero non ha niente da perdere,
il ricco è a rischio: questa è la morale. 

                                                            Fedro

Muli gravati sarcinis ibant duo:
unus ferebat fiscos cum pecunia,
alter tumentis multo saccos hordeo.
Ille onere dives celsa cervice eminens,
clarumque collo iactans tintinabulum; 
comes quieto sequitur et placido gradu.
Subito latrones ex insidiis advolant,
interque caedem ferro ditem sauciant:
diripiunt nummos, neglegunt vile hordeum.
Spoliatus igitur casus cum fleret suos: 
«Equidem» inquit alter «me contemptum gaudeo;
nam nil amisi, nec sum laesus vulnere».
Hoc argumento tuta est hominum tenuitas,
magnae periclo sunt opes obnoxiae. 
(Fabulae II, 7)



Poesie a Priapo

Tu, che ti accingi a leggere sfacciati
scherzi di una poesia inelegante, abbassa
lo sdegnoso sopracciglio tanto caro
ai Latini. Nel sacello qui, non abita
la sorella di Apollo, né Vesta, e neppure
la dea ch’è nata dalla testa del padre,
ma il rosso guardiano degli orti, il superdotato,
che ha l’inguine non coperto da veste. Tira giù,
allora, la tunica per coprire quella parte,
oppure con quegli stessi occhi
con cui la guardi, leggi queste poesie.

                                   Carmina Priapea

Carminis incompti lusus lecture procaces,
conveniens Latio pone supercilium.
Non soror hoc habitat Phoebi, non Vesta sacello,
nec quae de patrio vertice nata dea est,
sed ruber hortorum custos, membrosior aequo,
qui tectum nullis vestibus inguen habet.
Aut igitur tunicam parti praetende tegendae,
aut quibus hanc oculis aspicis, ista lege.
Carmina Priapea 1



Il vetro infrangibile



Una volta un artigiano riuscí a costruire una fiala di vetro che non si rompeva. Si presentò al cospetto di Cesare per offrirgliela in dono; chiese poi di poterla riavere in mano, quindi la scagliò contro il pavimento. Cesare non poteva restare piú sbigottito di cosí. L’uomo raccolse la fiala da terra: presentava solo un’ammaccatura come se fosse stata un vaso di bronzo. Poi tirò fuori un martelletto e con tutta calma ristemò ben bene la fiala. Ciò fatto, gli sembrava di tenere Giove per le palle, specie dopo che Cesare gli ebbe domandato: «Qualcun altro conosce questa fabbricazione del vetro?». Ma vedi un po’ che successe: quando ebbe risposto di essere l’unico e solo, Cesare gli fece tagliare la testa; altrimenti, se il segreto si fosse divulgato, il valore dell’oro sarebbe precipitato nel fango.    

                                                                                     Petronio


Fuit tamen faber qui fecit phialam vitream, quae non frangebatur. Admissus ergo Caesarem est cum suo munere, deinde fecit reporrigere Caesari et illam in pavimentum proiecit. Caesar non pote valdius quam expavit. At ille sustulit phialam de terra; collisa erat tamquam vasum aeneum. Deinde martiolum de sinu protulit et phialam otio belle correxit. Hoc facto putabat se coleum Iovis tenere, utique postquam illi dixit: «Numquid alius scit hanc condituram vitreorum?». Vide modo. Postquam negavit, iussit illum Caesar decollari: quia enim, si scitum esset, aurum pro luto haberemus. 
(Satyricon 51)




La sciarpa al collo

Perché quando devi recitare ti avvolgi
la sciarpa al collo? Questa sciarpa dovremmo piuttosto
mettercela noi attorno alle orecchie.

Marziale


Quid recitaturus circumdas vellera collo?
Conveniunt nostris auribus ista magis.
(Epigrammata IV, 41)




Il grafomane

Varo, scrivi duecento versi al giorno,
ma non li reciti. Sei fesso e non sei fesso.

                                                Marziale


Cum facias versus nulla non luce ducenos,
Vare, nihil recitas. Non sapis, atque sapis
.
(Epigrammata VIII, 20)



Capelli suoi

Fabulla giura che i capelli sono suoi.
È vero: li ha comprati, e sono suoi.
               
                                               Marziale

Iurat capillos esse, quos emit, suos
Fabulla: numquid illa, Paule, peierat?

(Epigrammata, VI, 12)



Un brutto quadro 


Che ritratto di Venere che hai in casa,
Licoride! Chi l’ha dipinto, credo, 
ha voluto fare un piacere a Minerva. 
                                      Marziale 


Qui pinxit Venerem tuam, Lycori,
blanditus, puto, pictor est Minervae. 
(Epigrammata I, 102)


Barbara delizia

Delizia, carezza, gioco, amore, voluttà,
barbara mia pupilla, che vinci le ragazze latine,
Bissula, nome disadorno per un tenera fanciulla,
non raffinato per chi non ci è avvezzo,
ma seducente per il tuo signore.

                                               Ausonio


Delicium, blanditiae, ludus, amor, voluptas,
barbara, sed quae Latias vincis alumna pupas,
Bissula, nomen tenerae rusticulum puellae,
horridulum non solitis, sed domino venustum.
(Bissula 5)


La traduzioni sono mie.
Immagini: Busti dei Musei Capitolini, Roma