venerdì 7 dicembre 2018

Benedetto Petrone, una storia italiana


Qualche messa a punto quaranta anni dopo il delitto

 
Gigantografia di Benedetto Petrone, muro esterno della ex Caserma Rossani occupata
(si ringrazia Kasamatta disobbediente per la fotografia)  

Nota (dicembre 2017). Ho fatto leggere questo testo ad alcuni amici e compagni che conoscono bene le vicende raccontate. Mi hanno dato suggerimenti dei quali li ringrazio. 
     Com’è ovvio, la responsabilità di quanto affermato è solo mia.

Nota (dicembre 2018). Questa comunicazione è stata presentata durante il seminario di studi Benedetto Petrone. Gli anni ’70 e la città di Bari, promosso dal Comune di Bari, Assessorato alle Culture, organizzato da Fondazione Gramsci di Puglia e IPSAIC e tenutosi a Bari il 28 novembre 2017, nel quarantennale, presso il Palazzo ex Poste.  La stesura è stata approntata subito dopo ed è apparsa nel volume degli atti da poco pubblicato (Edizioni dal Sud, Bari, 2018).
     Fra gli amici e compagni che l’hanno letta in anteprima esprimendo il loro parere c’era il compianto Raffaele Licinio. È stato il mio ultimo contatto con lui: egli ci ha lasciati dopo un mese.
     Perciò questo resoconto sia ora dedicato alla sua memoria.


È motivo di soddisfazione poter ragionare all’interno della traccia delineata da Peppino Cotturri. Essa ci invita – in armonia con l’impostazione stessa del convegno – a intendere correttamente i giorni di Benedetto Petrone nella complessità di un contesto storico nazionale. Possiamo riaffermare con argomenti condivisi ciò che abbiamo sempre ritenuto a dispetto di ogni tentazione riduzionista: che non si tratta di una pagina di “storia locale”. Il significato di quell’episodio non può essere riassorbito nella spiegazione rassicurante di una anomalia fortuita esplosa dentro una dinamica cittadina e provinciale, quale repentina frattura di un equilibrio poi fortunatamente ricomposto. È la vicenda di un delitto politico che accade nel 1977, anno cruciale della storia italiana, quando muoiono di morte violenta nel Paese quattro giovani di sinistra in circostanze diverse di cui va però indagata la disposizione in un quadro di insieme, unitario. Il filo conduttore apparve chiaro, allora, alle forze democratiche del Paese, che risposero alla morte di Petrone con manifestazioni di protesta in tutte le principali città, mentre un insieme variegato di personalità della cultura e della Resistenza (da Bobbio a Lombardi, da Foa a Terracini) rivolse al parlamento un appello per lo scioglimento del MSI, manifestando orrore per il «barbaro assassinio del giovane militante comunista Benedetto Petrone», che si univa alla «schiera dei giovani militanti di tutti gli schieramenti della sinistra» vittime della violenza neofascista.  
     La situazione politica segna in quel momento il precipitare degli anni ’70 verso una svolta e una conclusione: la stagione delle amplissime lotte sociali, la tensione accumulata in un decennio, il processo di cambiamento e il conflitto politico sembrano approssimarsi rapidamente a uno sbocco e a un punto risolutivo. Il PCI è sulla soglia del governo, come mai è stato nel trentennio dopo il ’47: pericolosamente vicino alla stanza dei bottoni, dal punto di vista delle forze conservatrici che in tutti quegli anni si sono adoperate sia per scongiurare questo esito deprecato sia per frenare l’avanzamento della società; vicino, ma fuori dell’esecutivo, in condizioni tali da non potere incidere a fondo, ingabbiato nella posizione di “non sfiducia”, bersaglio di un tiro incrociato da più direzioni. L’ostilità del “movimento del ’77” nei confronti di un PCI la cui manovra di accostamento al governo è interpretata come normalizzazione repressiva, è una leva che può essere utilizzata da chiunque lavori per divaricare ulteriormente le posizioni, per acuire il contrasto fra il movimento di massa nelle sue varie forme e quella che resta la massima espressione della sinistra politica, indebolendo così entrambi e spingendoli verso la sconfitta.
     
2 dicembre 1977: Benedetto Petrone è ricordato nella manifestazione
nazionale del metalmeccanici a Roma.
 La violenza è l’arma utilizzata per far saltare o deviare i processi politici: e non si tratta soltanto della strategia occulta, dello stragismo nero e del terrorismo nero o rosso, che vanno sviluppando ognuno per proprio conto i loro disegni sanguinosi e destabilizzanti; c’è una escalation della violenza politica diffusa, nelle manifestazioni di piazza e nello scontro di strada. Si registra nel ’77 una rinnovata propensione delle forze di polizia all’uso delle armi da fuoco in servizio di ordine pubblico: colpiti da pallottole di carabinieri o di agenti di polizia in borghese, cadono due giovani, Francesco Lorusso a Bologna e Giorgiana Masi a Roma. Anche nella manifestazione del 29 novembre a Bari, il giorno dopo il delitto, furono esplosi colpi d’arma da fuoco provenienti da reparti schierati nei pressi della sede della CISNAL che veniva assalita da un gruppo di manifestanti; sul terreno furono trovati numerosi bossoli: dalle forze dell’ordine si spiegò che si era sparato in aria, ma diversi testimoni affermarono di aver visto agenti mirare ad altezza d’uomo. In altre città alcuni gruppi del movimento, nell’area della “autonomia”, fecero la scelta aberrante di rispondere «alzando il livello dello scontro» come si usava dire, cioè prendendo l’iniziativa di sparare contro le forze dell’ordine in occasione di manifestazioni e scontri: morirono così i poliziotti Settimio Passamonti a Roma e Antonio Custra a Milano.   
     Il medesimo contesto spiega la recrudescenza dello squadrismo neofascista, peraltro sempre vivo in quegli anni. C’è una condizione politica difficile del MSI, che dal ’72 al ’76 ha perso molti consensi per la polarizzazione di voti a vantaggio della DC individuata dall’elettorato conservatore e reazionario come maggiore baluardo contro la paventata vittoria del PCI nei seggi. Il partito neofascista rilancia una sua presenza di piazza finalizzata a tenere sotto pressione le forze moderate e a giocare un ruolo negli sviluppi di una crisi di sistema. È sotto gli occhi di tutti il ricorso alla violenza da parte del MSI, del Fronte della Gioventù e di altre formazioni di estrema destra che vedono comunque nel partito erede della Repubblica sociale il loro retroterra e presidio difensivo. La corrente radicale di Pino Rauti acquista un peso determinante nel MSI e incalza la leadership non certo moderata di Giorgio Almirante. Nello squadrismo neofascista di questa fase sembra potersi leggere una strategia esplicitamente omicida: più precisamente, la scelta di una gestione di azioni violente nel territorio che contemplano la possibilità di un esito omicida. Come risultato si hanno due giovani vittime a distanza di un paio di mesi: Walter Rossi a Roma e Benedetto Petrone a Bari. La dinamica dei due fatti presenta somiglianze che non devono essere trascurate.
Manifestazione dopo l'assassinio di Walter Rossi, Roma 1977
(archivio de l'Unità)
     Entrambi i delitti maturano nel contesto di prolungate imprese squadristiche compiute da giovani del MSI per affermare il proprio controllo del territorio, per provocare e punire chi si oppone a questa pretesa. A Roma si tratta della Balduina, quartiere semicentrale che rappresenta una storica roccaforte del partito neofascista: nei giorni precedenti si verificano aggressioni e intimidazioni; una ragazza viene ferita da colpi di pistola durante una incursione dei neofascisti contro una vicina piazza che è ritrovo di giovani di sinistra. Il giorno dopo, 30 settembre, un gruppo di militanti di Lotta continua organizza un volantinaggio per le strade, spostandosi in prossimità della sezione MSI della Balduina; dai locali esce una squadra di neofascisti che assale i volantinatori: muore il ventenne Walter Rossi colpito da una pallottola. Tutto avviene sotto gli occhi della polizia che presidia la sede con una camionetta. Il resoconto di Michele Laforgia, che abbiamo appena ascoltato, dimostra che il 28 novembre pure i fascisti baresi erano armati di pistole, anche se non le usarono. La somiglianza fra le due vicende, di Roma e di Bari, appariva evidente già all’epoca e ne erano consapevoli gli stessi compagni che subirono l’aggressione: nella sua intervista poco dopo il ferimento, pubblicata dal giornale della FGCI «La Città Futura», Franco Intranò si augurava che presto fosse fatta luce sull’omicidio di Benedetto contrariamente a ciò che stava accadendo per la morte di Walter Rossi. 
     A Bari, la questione del controllo del territorio riguarda addirittura la federazione provinciale del MSI, quasi adiacente al palazzo di Città, vicinissima alla prefettura e alla questura; è il partito che ha la federazione più contigua ai centri del potere. Senza dubbio un ruolo provocatorio e intimidatorio è stato svolto per tutto il ’77 dalla sezione Passaquindici nei quartieri San Pasquale e Carrassi, dove si trovano molti istituti superiori che vedono presenze attive di giovani di sinistra. La serie impressionante di imboscate, attentati, intimidazioni compiuta dai militanti della Passaquindici sarà documentata dalla sezione Ruggero Grieco del PCI il cui segretario* rilascerà la più importante testimonianza nel processo per ricostituzione del partito fascista che si celebrerà poco dopo il delitto Petrone. Ma è decisiva soprattutto la posta in gioco nel centro della città, per il valore politico, simbolico, elettorale che esso riveste nella storia del neofascismo barese in tutto il dopoguerra. Nella tradizione e nella memoria dei neofascisti, Bari e in particolare la Bari “nuova” borghese e affaristica è un prodotto del fascismo e resta cosa sua anche dopo la fine del ventennio mussoliniano e dopo l’avvento della DC e del centro-sinistra. Via Sparano, nella parte prossima alla piazza San Ferdinando che ne è il cuore, è una zona “nera” dalla quale è pericoloso passare se si hanno sembianze “rosse”. Certo, dall’altro capo di via Sparano vi sono i giardini di piazza Umberto I, c’è l’Ateneo, territorio ostile frequentato da giovani di estrema sinistra verso il quale i fascisti si avventurano raramente. Ma il vero confronto è dato dalla presenza di Bari Vecchia dove il fascismo non ha mai potuto mettere radici, che non è mai stata fascista, e la cui antica storia popolare e proletaria sfida la centralità di Bari Nuova. La città vecchia respinse nel ’22 l’assedio fascista alla Camera del Lavoro difesa da Di Vittorio; nel ’43 ricacciò indietro i tedeschi che tentavano di occupare il porto; bacino elettorale dei partiti di sinistra, ha impedito di recente al MSI l’apertura di una sezione all’interno del quartiere. Soltanto il corso Vittorio Emanuele II divide Bari Vecchia dal centro del potere e dalla federazione del MSI. Bari Vecchia è insomma un bersaglio quasi naturale, con in sé gli elementi di una doppia memoria storica che si tramanda parallelamente da entrambe le parti assumendo – per la parte che il quartiere antico ha respinto come corpo estraneo – il valore simbolico di un nodo irrisolto e di un vecchio conto da saldare.   
     Il manipolo che quella sera si raduna nella federazione di via Piccinni per muovere verso una impresa violenta e – se le circostanze gli saranno favorevoli – sanguinosa e mortale, è un gruppo che sa di potersi avvalere di una larga rete di protezioni, simpatie e complicità. Sono giovani borghesi, della Bari bene e delle borghesia delle professioni, affiancati da sottoproletari e da veri e propri avventurieri legati a traffici illegali e ad ambienti criminali, in un caratteristico mix che ha imperversato a lungo in città, anche dopo il delitto Petrone e almeno fino all’omicidio del dj Traversa (1980). Per inciso, proprio la decentrata Passaquindici è il luogo più adatto per la verifica pratica di questi ambigui incroci, delle “doppie militanze” (MSI e Terza Posizione) e del connubio fascismo-criminalità; nel contempo, la Passaquindici è anche il serbatoio di manovalanza per le imprese che hanno obiettivi politici più alti. E quella del 28 novembre è una operazione studiata e preparata, con un obiettivo alto da conseguire nel centro della città. Quanto alla rete delle protezioni influenti, questa si manifesta chiarissima fin da subito, nella operazione riuscita – e condotta a più mani – che ha il fine di attribuire la responsabilità dell’omicidio a un personaggio marginale ed equivoco e di scagionare i ragazzi “perbene”. Perfino la mancata connessione fra due processi che dovevano essere strettamente collegati – quello per ricostituzione del partito fascista e quello per l’omicidio – appare il prodotto di un intenso lavorio di disinnesco che nasce da coperture ben accreditate ma è pure l’effetto di preoccupazioni politiche di ordine generale. E qui convergono, e si saldano nuovamente, le intenzioni del MSI, del suo notabilato “in doppiopetto” che riprende in mano la situazione dopo l’exploit dell’ala estremistica, e le intenzioni della DC che nella sua maggioranza non vuole concedere spazi significativi ad accordi col PCI.
     
1978: giovani antifascisti collocano una epigrafe sulla abitazione
di Benedetto Petrone (l'epigrafe fu in seguito rimossa)
Fra i compagni di Benny nella sezione Pappagallo del PCI di Bari Vecchia emerse anche l’ipotesi che i mandanti dell’azione omicida fossero da ravvisare negli ambienti interessati a una grande manovra speculativa e immobiliare su Bari Vecchia, e intenzionati a spaventare chi contrastava quella manovra; ambienti che poi dettero un contributo attivo all’insabbiamento del processo. Una ipotesi suggestiva che meriterebbe di essere approfondita. È certo che Benedetto si batteva per difendere Bari Vecchia, ed è certo che quella operazione di svuotamento del quartiere era in corso ed ebbe un parziale successo negli anni seguenti. Ma ciò non deve far perdere di vista la trama propriamente politica dello scontro e la sua pertinenza rispetto a un contesto più nazionale che locale; un contesto nel quale si distinguono peraltro chiaramente i collegamenti regionali. L’apice della tragica avventura neofascista ha avuto inizio con la presenza di Rauti a Lecce, che nel giugno precedente è stata occasione di scontri violenti (nei quali, pure, la polizia ha sparato contro gli antifascisti). Ancora a Lecce, il 12 novembre, un corteo non autorizzato di giovani del MSI viene tollerato dalla polizia, che alla fine arresterà due fascisti ma nel frattempo carica il corteo di protesta della estrema sinistra, sparando colpi d’arma da fuoco ed effettuando 11 arresti in questa cerchia. Il giorno dopo, il 13 novembre, a Bari, a sole due settimane dal delitto, una manifestazione già preannunciata e autorizzata, che prevede un comizio finale di Pino Romualdi, uno dei capi del MSI, viene proibita dalla questura dopo la protesta espressa in un pubblico documento firmato da numerosissime sigle antifasciste. Quel giorno i neofascisti si radunano in massa nella sede di via Piccinni, minacciando di uscire ugualmente per tenere comunque la manifestazione; ma, diversamente che a Lecce, non lo faranno. Nelle stesse ore, gli antifascisti presidiano non a caso Bari Vecchia. Queste sono le premesse di una tragica dimostrazione di forza che è ormai nell’aria.  
     E a tale proposito non è inopportuno spendere qualche parola per smontare ancora una volta la falsa storia della “guerra tra bande” (tra “opposti estremismi”, tra “fascisti e comunisti”) che si sarebbe combattuta a Bari a in quel periodo; falsa storia non innocente, che trova tuttora una tarda eco. Non c’erano “bande”: c’erano movimenti di lotta per rivendicazioni sociali e per diritti collettivi, che toccavano in molti casi un coinvolgimento di massa notevole (basti dire della innegabile partecipazione operaia, studentesca e popolare alla manifestazione del 29 novembre), e c’era di contro un uso cinico dello squadrismo di destra che vi si contrapponeva per chiudere gli spazi di agibilità politica. Il documento approvato pochi giorni prima del delitto dal consiglio comunale – col voto favorevole della DC e quello contrario del MSI – indicava nei covi fascisti la fonte della violenza che le forze dell’ordine avrebbero dovuto reprimere. C’era nei movimenti, fra i giovani di sinistra e della stessa FGCI, una comprensibile disposizione alla autodifesa, a rintuzzare a muso duro gli assalti intimidatori; una scelta difensiva, appunto, laddove la scelta vera, strategica, era il movimento rivendicativo, la lotta, la manifestazione di massa, l’assemblea, e non certo la scaramuccia con i fascisti. D’altra parte l’antifascismo era un principio profondamente sentito, che il recente Trentennale della Liberazione aveva contribuito a riscoprire e valorizzare (in quella circostanza, fra l’altro, proprio all’eroe ragazzo della difesa di Bari Vecchia, Michele Romito, il Comune aveva conferito una medaglia)**. Nella decisione di tanti giovani che rifiutavano di lasciarsi intimidire, il coraggio poteva a volte ingenerare una logica militarista (che però non fece mai presa a Bari) o poteva semplicemente sconfinare nella temerarietà: e questo avvenne forse quella terribile sera, quando la pattuglia di ragazzi della Pappagallo camminò lungo il corso Vittorio Emanuele per dimostrare che i fascisti non facevano paura a nessuno, e si trovò di fronte all’imprevisto di una truppa organizzata che aveva teso la trappola.
     
Benedetto secondo da sinistra dietro lo striscione, Bari 1977
Va anche ricordato e raccontato come a Bari Vecchia si fosse creata una feconda trasversalità fra giovani del quartiere, grazie a un affiatamento fra l’ambiente della Cattedrale, i ragazzi della FGCI e della sezione Pappagallo, i loro coetanei della sinistra extraparlamentare, del Movimento lavoratori per il socialismo e di Lotta continua. Una consonanza che li faceva convergere anche in lotte e iniziative comuni. Fra le poche immagini filmate di Benedetto ve n’è una che lo ritrae alla testa di un corteo, mentre regge uno striscione con la scritta «Contro l’aumento dei prezzi, contro la disoccupazione, per il risanamento di Bari Vecchia»; dietro lo striscione, accanto a lui, si vedono ragazzi del MLS, anch’essi proletari del quartiere. Petrone era considerato e sentito come proprio compagno da tutti i giovani di sinistra della città vecchia, e da quanti altri, esterni al quartiere, vi erano stati accolti e vi avevano sperimentato il primo contatto e la prima conoscenza diretta di una condizione di vita proletaria. E qui sta probabilmente la peculiarità che distingue il caso di Benny dagli altri omicidî di giovani di sinistra commessi in quegli anni: il carattere unitario della sua figura altamente rappresentativa, capace di produrre un immediato coinvolgimento emotivo in un arco molto vasto abbattendo d’un colpo steccati che avevano segnato distanze e preclusioni politiche; il che è frutto della particolarità irripetibile di Bari Vecchia dal punto di vista sociale e culturale. E ciò induce a un’altra considerazione: quella sera il gruppo aggredito e le vittime sarebbero potuti appartenere non al PCI, ma ad altre formazioni della sinistra che con i ragazzi della Pappagallo condividevano attività e amicizie. 
      Non sappiamo in che modo sarebbero andate le cose se a restare ucciso fosse stato come a Roma un giovane della sinistra extraparlamentare. Questo avrebbe sicuramente comportato maggiori problemi per la federazione del PCI, che già visse una notte drammatica e una discussione interna sul che fare, mentre i compagni della Pappagallo dimostravano che Benedetto era un iscritto e lo riconoscevano come proprio compagno; ma si può essere quasi certi che la FLM – sindacato unitario dei metalmeccanici e vero propulsore della manifestazione del giorno dopo, contraddistinta dal colore delle tute blu – si sarebbe ugualmente mobilitata. Probabilmente la fertile rottura provocata dentro il moderatismo egemone nella città da quei giorni di rabbia e di lotta – giorni che una generazione di democratici e antifascisti considera fondativi della propria identità civile – si sarebbe richiusa prima e più facilmente; il che avrebbe tranquillizzato il gruppo dirigente democristiano (che in ogni caso sarebbe andato incontro di lì a poco a un trauma ben più sconvolgente: il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro) e avrebbe causato un minore travaglio nel PCI, la cui direzione a Bari e in Puglia, incline a una lettura poco problematica della linea di “solidarietà nazionale”, era preoccupata dalle possibili ricadute negative della vicenda nei rapporti con una DC locale peraltro riluttante a stabilire intese.  
     Forse la memoria di Benny sarebbe stata meno corale negli anni e nei decenni. Corale, intendo dire, nell’ambito della sua parte, quella dell’antifascismo consapevole, che però non si identifica come è noto con tutta la città. Ma questa è un’altra storia, un altro capitolo che dovrà essere scritto – la storia della memoria di Benedetto Petrone, delle memorie divise e delle memorie false. Per quanto riguarda la parte di Benny – quella della democrazia e della Costituzione – il ricordo è caratterizzato da una immagine e da una idea che resta l’autentica lezione di quel giovane appassionato: l’unità antifascista, intesa non come valore astratto, ma come unità nelle lotte, nell’impegno sociale e civile, nelle speranze e negli ideali di giustizia.


Pasquale Martino

* Raffaele Licinio.
** Per l’esattezza, l’onorificenza della civica amministrazione venne conferita a Romito il 25 aprile 1974 dal sindaco Nicola Vernola alla presenza del presidente nazionale dell’ANPI Arrigo Boldrini.





mercoledì 28 novembre 2018

Il dovere dell'antifascismo


Ricordare Benedetto, un antidoto contro i  nuovi fascismi 


Il modo migliore per ricordare oggi Benedetto Petrone, il giovane ucciso 41 anni or sono a Bari dai neofascisti, crediamo sia quello di fare i conti senza retorica con la pratica reale della solidarietà, della pace, del rispetto dei diritti: quei valori che Porzia Petrone, l’indomita sorella di Benny, non si stanca di additare ai ragazzi come il sostanzioso messaggio lasciato in eredità dal diciottenne comunista barbaramente accoltellato quella tragica sera del 1977. Sul versante della memoria e della consapevolezza storica, infatti, si può constatare con parziale soddisfazione che sono stati compiuti passi in avanti; il quarantennale della morte è stato celebrato degnamente. Sopravvive, è vero, in alcuni il luogo comune dello scontro tra fazioni, degli stereotipati “anni di piombo”, il rifiuto di prendere atto che quella morte fu l’esito di una aggressione unilaterale e premeditata. Resta, soprattutto, l’ingiustificabile dimenticanza della vicenda Petrone in molte ricostruzioni riguardanti il 1977 in Italia, anche le più recenti: forse perché è una vicenda “meridionale”? perché è “anomala”, irriducibile rispetto allo stereotipo di cui sopra?
     Ma torniamo all’assunto iniziale: onoriamo l’antifascista barese parlando del presente. Sì, perché l’esistenza o meno di un pericolo fascista in Italia, in Europa e nel mondo è diventata un tema rilevante del dibattito politico-cullturale odierno. Un tema che a nessuno, tanto meno a noi italiani, è consentito di sbrigare con leggerezza: visto che, se non altro, un romanzo come M di Scurati (Bompiani), in testa alle classifiche di vendita, dovrebbe ricordare a molti che un italiano fu l’inventore del fascismo nel mondo. A proposito di libri, sembra che sia in corso una sorta di confronto a distanza, se non una battaglia virtuale, tra volumi apparsi quest’anno: da un lato Istruzioni per diventare fascisti di Michela Murgia (Einaudi), altro best seller, ironica trattazione sul riemergere in Italia di modelli e luoghi comuni che sono retaggio e relitto del fascismo; dall’altro Neofascismo e neoantifascismo di uno storico del calibro di Franco Cardini (La Vela), che all’opposto afferma nello stile del pamphlet l’inservibilità di entrambe le categorie contrapposte, in quanto obsolete, e per altri versi il saggio di impianto storiografico Fascismo e antifascismo del contemporaneista Alberto De Bernardi (Donzelli), che si interroga sulla inopportunità di evocare in modo ricorrente quella dicotomia storica e simbolica applicandola alla attualità politica. Noi proponiamo qui poche considerazioni.
     A suo tempo, nonostante la raffinatezza culturale del famoso saggio di Umberto Eco Il Fascismo Eterno (1995), ci lasciò perplessi la tesi di un “idealtipo” fascista che sfida il tempo della storia. I sistemi fascista e nazista furono il prodotto di un’epoca ben definita, anche se le loro matrici ideologiche preesistevano. D’altra parte, è vero che dopo la catastrofe nazifascista del 1945 sono nati in Occidente movimenti di varia consistenza – secondo il luogo e il tempo – che si è convenuto di chiamare neofascisti e neonazisti perché eredi dichiarati di quella nefasta esperienza. È innegabile poi che il modello fascista abbia ispirato alcuni nazionalismi arabi e certi regimi militari sudamericani, fino all’Europa dei colonnelli greci e alle dittature di lunga durata in Spagna e Portogallo. Insomma il fascismo, abbattuto nella sua forma primigenia e più devastante, ha continuato a fare scuola in “sottoprodotti” che non si può dire abbiano avuto breve fortuna. Esso ha stabilito una sorta di forma storica esemplare dalla quale non hanno potuto prescindere – pur adattandola e assumendo nomi variegati – le successive esperienze che hanno voluto rimescolare con diverse gradazioni gli stessi ingredienti di base: paternalismo e assistenzialismo di Stato, nazionalismo, razzismo, violazione dei diritti umani e sociali, subalternità delle donne presentata come esaltazione della funzione materna, omofobia, criminalizzazione della solidarietà, propaganda demagogica e metodi polizieschi, e infine manipolazione e condizionamento dei meccanismi democratici in chiave autoritaria e plebiscitaria. Senza contare che da quasi 80 anni pure il linguaggio comune bolla come “fascista” chiunque sia prevaricatore e autoritario in ambito lavorativo, sociale, familiare: anche questo “antifascismo popolare”, spontaneo e non meditato, è un dato storico inoppugnabile. Ed è vero che molti degli ingredienti citati sono variamente assunti nel XXI secolo da movimenti di destra o destroidi che vengono definiti populisti e (con termine ambiguo che preferiremmo evitare) “sovranisti”. Le punte estreme di quest’area sono sistematicamente violente, come è denunciato in quella sorta di dossier che è la risoluzione contro la violenza neofascista approvata dall’europarlamento il 25 ottobre scorso; estremisti neri che spesso hanno ottimi rapporti con le maggioranze governative dei rispettivi paesi, tanto da costituirne una testa d’ariete, data la condivisione di politiche xenofobe, discriminatorie e intolleranti. In Italia si aggiunge il non ingenuo richiamo di esponenti del governo alla sloganistica del Ventennio (“molti nemici molto onore”, “tiriamo dritto”, “me ne frego”). In qualunque modo si voglia chiamare tutto ciò – anticamera di un fascismo metamorfico oppure pinco pallino – esso è preoccupante e pericoloso per la democrazia, per la convivenza civile, per i diritti e le garanzie costituzionali.
     Ecco, quando ricorderemo Benedetto non dobbiamo eludere un sano sentimento di allarme democratico, cui non sappiamo dare nome più giusto che antifascismo.    

Pasquale Martino
La Gazzetta del Mezzogiorno, 28 novembre 2018

Fotografia: una manifestazione del 1977 a Bari; Benedetto Petrone regge lo striscione, terzo da sinistra.  

martedì 11 settembre 2018

Ubaldo Diciotti


Nel nome della nave salvatrice.
Storia di un toscano che amava la Puglia

Ubaldo Diciotti con Pasquale Andriani nel 1940
Conviene a questo punto raccontarla per bene, la storia di Ubaldo Diciotti: l’uomo a cui è intitolato il pattugliatore della Guardia costiera italiana che ha salvato migliaia di naufraghi per lo più migranti, e che è stato nel mese scorso al centro di un caso politico tanto surreale quanto grave. Conviene raccontarla adesso, quando l’acme della crisi è finita (per il momento) e questo racconto non può apparire diminuito da finalità contingenti. E tocca a me farlo: perché Diciotti era zio di mia madre, avendo sposato la sorella di mio nonno materno, e io l’ho conosciuto. E ho un personale dovere della memoria: il figlio e la figlia di zio Ubaldo sono deceduti senza eredi, e così siamo rimasti solo in cinque, i figli delle sue due nipoti, a poter testimoniare su un uomo scomparso nel 1963, a poterlo descrivere come figura viva e vitale, al di là della pur rigorosa nota biografica redatta dalla Marina militare.  
Ubaldo Diciotti era nato nel 1878 a Lucca: della sua toscanità cordiale e arguta ho un vivido ricordo, arricchito da aneddoti e battute vernacolari. Le sue villeggiature giovanili nella vicina Barga gli fecero conoscere di persona Giovanni Pascoli, che vi risiedeva dall’inizio del ‘900; spesso parlava del poeta, e sarà stato per questo che mia madre tenne a lungo sul comodino I canti di Castelvecchio. Nella nostra famiglia allargata zio Ubaldo rappresentava una indiscussa autorità culturale e morale, perfino più di mio nonno: i due grandi vecchi i cui ritratti dominavano il salotto della dimora patriarcale a Bari. Diciotti era – non è azzardato dirlo – un pugliese di adozione: dopo la Grande Guerra comandò le capitanerie di porto di Molfetta e Barletta. A Molfetta, la città marinara per eccellenza, conobbe e sposò Lucrezia Andriani, figlia e sorella di marinai; strinse una amicizia fraterna e duratura con il cognato di poco più giovane, Pasquale Andriani – mio nonno – ufficiale e poi comandante di navi della marina civile per le società di navigazione Puglia e Adriatica. Ne è prezioso documento la prolungata corrispondenza epistolare fra i due, della quale purtroppo si è conservata solo una parte. Andriani è socialista, sindacalista e amico personale del fondatore della Federazione lavoratori del mare, Giuseppe Giulietti; conosce anche il grande concittadino Gaetano Salvemini. Diciotti è monarchico, e sarà fedele al re anche nel ventennale sostegno di casa Savoia al fascismo. Ciononostante, proprio il cognato tutela Andriani contro i tentativi di rovinarne la carriera a causa della sua fede antifascista. Promosso maggior generale di porto (grado equivalente a quello di ammiraglio e di generale dell’esercito), Diciotti è al vertice delle importanti capitanerie di Livorno e Napoli, e durante la Seconda guerra è inviato a Tripoli, dove organizza le difese del porto contro gli attacchi inglesi, proteggendo i civili dai bombardamenti e guadagnandosi la medaglia d’argento al valor militare. Dopo l’8 settembre 1943 non aderisce alla Repubblica sociale mussoliniana, ma resta deluso anche dagli intrighi e dalla fuga del re: è una amarezza che resterà in lui, negli anni successivi, trapelando nelle ricorrenti e burrascose discussioni con il cognato – impresse nella mia memoria familiare – sempre concluse da riconciliazioni e amorevoli abbracci. Nell’Italia «tagliata in due» (anche dopo l’entrata degli Alleati nella Capitale), continuano a scriversi l’uno da Bari, l’altro da Roma, confidandosi dolori del presente e speranze per il futuro. Un altro fratello di Lucrezia, Sabino, uomo di mare anche lui, è a Trieste dove pure si vivono tempi drammatici. Negli anni ’50 Diciotti viene spesso a Bari, ospite dei cognati, e riserva ai parenti generosa accoglienza nella sua bella e austera casa di via Flaminia a Roma. Tiene molto alla mia educazione di decenne e mi regala sistematicamente i libri di Jules Verne, insistendo che io legga quasi soltanto quelli, poiché vede in essi la letteratura per ragazzi più “scientifica”, meno inverosimile e più formativa. Conservo molti di quei volumi. Nasce così, soprattutto, e grazie a lui, la passione per la lettura che non mi ha abbandonato un solo giorno nella vita. La sua figura imponente e severa poteva suscitare timore reverenziale, ma come quella di un burbero benefico che non riesca a nascondere la bontà.   

Il guardacoste Diciotti
Nel 2002, quando viene intitolato a zio Ubaldo un guardacoste della Marina – intitolazione che precede quella dal pattugliatore varato nel 2013 – alla cerimonia partecipano commosse la figlia di Diciotti e mia sorella con i rispettivi coniugi. È vano ipotizzare quale opinione il vecchio generale avrebbe della situazione odierna, distante oltre mezzo secolo dalla sua epoca. Di una cosa sono certo: sarebbe orgoglioso e felice di continuare a vivere nel nome di una nave che non uccide, ma salva vite umane. Ne sono certo perché lui, mio nonno, la mia famiglia mi hanno trasfuso fin da piccolo valori profondi, condivisi da quella che amava definirsi «gente del mare»: prima di tutto la solidarietà incondizionata, il dovere di soccorrere, l’eguaglianza degli esseri umani di fronte al mare a cui si affidano, alla vita e alla morte. Non so se questa filosofia abbia un senso politico; penso di sì, perché non riesco a concepire la politica se non come attuazione pratica di valori. Ritrovo un po’ di mio zio nelle parole di Francesco Lanera, il velista e armatore barese della imbarcazione Euz II che il 27 agosto, dopo aver conquistato il suo quinto titolo mondiale nella regata in Lettonia, ha dedicato la vittoria «a chi va per mare, ai migranti che cercano salvezza e a tutta la nave Diciotti».

Pasquale Martino   
»La Gazzetta del Mezzogiorno», 11 settembre 2018

venerdì 7 settembre 2018

Il '68 in Puglia/3


La lunga rivolta delle campagne 
Occupazione, diritti, collocamento pubblico: conquiste che sembrarono irreversibili


Corteo di braccianti in sciopero nel Foggiano, 1971

Nelle campagne pugliesi il Sessantotto durò a lungo: iniziato nel 1967, culminò nel 1969 con una coda nel ’71. Nonostante la sua tradizione, il movimento bracciantile e contadino mostrò indubbie analogie con i nuovi movimenti, studentesco e operaio: perché oltre alla giusta richiesta di reddito da parte di lavoratori bisognosi e precari, dette voce anche alla loro rivendicazione di maggior potere, di diritti e tutele nel mercato del lavoro. 
Regione ancora massicciamente agricola, a dispetto dei recenti poli industriali, la Puglia presentava una struttura produttiva assai articolata, comprendente l’azienda agraria capitalistica, i vecchi feudi latifondistici, la miriade di piccoli poderi a coltivazione diretta. La figura del bracciante era a sua volta molto variegata: includeva una minoranza di salariati fissi, una maggioranza di lavoratori a giornata e stagionali e una serie di figure miste come piccoli contadini, coloni e mezzadri che lavoravano anche a salario per altri, o che a loro volta assumevano uno o due braccianti a giornata. Forse per la prima volta nel ’68 pugliese, tutte queste figure – fino a quel momento divise dalla imperante capacità di controllo degli agrari rappresentati dalla Confagricoltura – riuscirono a unificarsi in un fronte comune. Fu merito di un movimento sindacale che faticosamente superò le divisioni raggiungendo momenti inediti di unità, ma fu soprattutto l’effetto di una spinta dal basso, di un contesto generale, di un’onda di ribellione che pareva volersi estendere a ogni piega della società. 

Nell’estate del ’67 lo sciopero dura 17 giorni, più degli scioperi precedenti incluso quello importante del ’62. Non intendo esaltare lo sciopero fine a se stesso, ma evidenziare quanto sia difficile la situazione di partenza, quanto necessariamente duro il conflitto, il braccio di ferro con un padronato arrogante e tornato baldanzoso dopo i ripiegamenti subiti negli anni di Di Vittorio. Una associazione datoriale che non vuol neppure sedersi a trattare. Si capisce che, quando i sindacati su richiesta del prefetto di Bari propongono di sospendere lo sciopero in cambio della apertura di trattative, scoppino proteste dei lavoratori in molti comuni, numerosi comizi vengano interrotti, perché si teme una ennesima astuzia padronale. Così il mito della radicalità bracciantile, non disposta a compromessi, contagia le avanguardie giovanili del ’68. Spesso interi paesi solidarizzano ed è vistosa la partecipazione delle donne, come lavoratrici e non soltanto nella dimensione “popolare” del movimento. Raffaele Cavalluzzi – italianista, studioso del rapporto fra letteratura e cinema, militante e dirigente politico – mi dà la sua testimonianza a partire da Grumo Appula, dove vive: in quel ciclo di lotte – dice – non si muovono solo le zone di tradizione rossa, ma altresì la moderata conca barese, dove prevale la figura ambivalente del contadino-bracciante; è un moto generalizzato, nel quale secondo Cavalluzzi incide pure una memoria collettiva risalente sia alle burrascose rivolte contadine sia a movimenti coscienti e organizzati come gli “scioperi alla rovescia” (negli anni ’10 a Grumo i contadini di propria iniziativa completano una strada di campagna, da allora detta “strada dei socialisti”). A fianco di sindacalisti esperti, alcuni dei quali pubblicheranno saggi e memorie su quella esperienza (Vitantonio Abbatista, Giuseppe Gramegna, Antonio Mari) si cimentano a vari livelli le nuove leve, di cui è espressione Mimmo D’Onchia, cresciuto nel Pci (il più giovane dirigente della Federbraccianti nel ’69) come lo sono anche giovani del Circolo Lenin, il gruppo della sinistra extraparlamentare presente in molti comuni pugliesi e attivo fra i braccianti, nel quale fanno “gavetta” fra gli altri Pietro Alò, futuro senatore comunista, e Angelo Leo, una vita nella Cgil, entrambi fra i protagonisti della battaglia contro il caporalato negli anni seguenti. 

Contadini e studenti in corteo nel Barese.
Dopo aver ottenuto risultati utili con la vertenza del ‘67, i braccianti aderiscono nel ’68 al movimento contro le gabbie salariali, e i loro elementi più sindacalizzati danno man forte ai primi scioperi degli operai della zona industriale. Nel ’69 una ulteriore e veemente lotta contrattuale scompagina il fronte padronale, ottenendo l’accordo separato con la Coldiretti, poi 140 accordi aziendali, e piegando infine anche la Confagricoltura: si conquistano i delegati aziendali e il diritto d’assemblea, cui si aggiunge la contrattazione collettiva dei patti colonici, finora lasciati ai singoli. Nel ’71 si perviene all’orario di 40 ore settimanali, al rapporto di lavoro a tempo indeterminato dopo 180 giorni, alle qualifiche specializzate oltre che alla estensione dei diritti sindacali ai coloni (che apre la strada alla trasformazione della colonia in affitto). 
Due questioni care ai braccianti sembrano avviate a soluzione: la salvaguardia degli elenchi anagrafici (dove sono iscritti i lavoratori destinatari di interventi assistenziali e previdenziali) che gli agrari vogliono “sfoltire”, e la fine del “mercato di piazza” con l’obbligo di ricorrere al collocamento pubblico (sancito per legge nel 1970). Di fatto il mercato di piazza sopravvivrà, e tornerà in auge negli anni recenti della deregulation, della intermediazione privata e del nuovo caporalato, nonché dei migranti che lavorano in condizioni spaventose, e intraprendono da capo una difficile lotta per i diritti. «I braccianti, italiani e stranieri – mi dice Anna Lepore, segretaria provinciale della Flai-Cgil di Bari (la Federbraccianti di oggi) – continuano ad essere reclutati attraverso il caporale, non necessariamente in piazza, magari col cellulare. È lui che decide chi, dopo una giornata che ancora adesso inizia alle tre del mattino, porterà a casa il pane, sulla base di una selezione che tiene conto esclusivamente di quanto il lavoratore ‘si adatta’ alle condizioni di lavoro offerte dal datore». 


Forme di lotta, partecipazione, repressione giudiziaria

Negli anni 1967-71 gli studenti assistono e talvolta partecipano alle forme della lotta bracciantile nei comuni: blocchi stradali e ferroviari, occupazioni di masserie, sequestro di trebbiatrici, in qualche caso abbattimento di alberi e vigneti, occupazioni di municipi e uffici del lavoro, blocco dei mercati, cortei, manifestazioni intercomunali, assemblee in piazza, dove si svolgono consigli comunali e si riscuote la solidarietà istituzionale, di associazioni, scuole e partiti compresa in molti casi la DC locale. È un conflitto duro ma nel complesso disciplinato, maturo, che non conosce le rabbiose esplosioni di violenza incontrollata del passato. È questa coralità impressionante che sconsiglia alle forze dell’ordine un drastico intervento immediato (ma ad Avola, in Sicilia, nel dicembre ’68 esse sparano sui braccianti in sciopero facendo due vittime); poco dopo arriva però la repressione di una magistratura ancora incrostata di mentalità punitiva, che nella sola provincia di Bari – riferisce il procuratore generale nel 1970 – ha aperto procedimenti giudiziari (per blocco stradale e picchettaggio) a carico di 188 braccianti e 85 studenti. I giuristi democratici protestano, i legali del comitato di solidarietà riescono in parte a limitare il danno.


Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 18 agosto 2018

giovedì 9 agosto 2018

La primavera cecoslovacca


Storia di un Sessantotto sequestrato
Praga così vicina, così lontana e sola 

21 agosto 1968 a Brno (dal sito extrastory.cz)
La ribellione del ’68 nacque in molte parti del mondo, contemporaneamente, secondo dinamiche simili ma con obiettivi in parte diversi, e con durate differenti. C’è il “lungo Sessantotto” italiano e c’è il ’68 breve del maggio francese, quasi una insurrezione generale contro il sistema. E c’e n’è un altro, che interessò i paesi comunisti dell’Est europeo: il «Sessantotto sequestrato», così lo definisce il titolo di un libro uscito in occasione di questo Cinquantennale. Curato e introdotto da Guido Crainz, il denso volumetto (Donzelli, Roma) raccoglie saggi di vari autori dedicati a diverse realtà nazionali, Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia. Una pagina di storia “sequestrata” come in una dimensione in disparte, sia per volontà dei regimi interni, sia (nel caso della Polonia e soprattutto della Cecoslovacchia) per le pressioni e l’intervento dell’Urss a difesa del monolitismo, pilastro del proprio impero nella guerra fredda. Sequestrata, anche perché ignorata o sottovalutata dai “movimenti fratelli” nel resto del mondo, e sostanzialmente snobbata dalla sinistra europea. Eppure proprio l’effervescente e drammatica «primavera di Praga» fu un evento capitale di quell’anno memorabile.
Tutto ha inizio qualche tempo prima, in un paese binazionale (oggi diviso fra Cechia e Slovacchia), culturalmente e industrialmente avanzato, che dal 1960 si è voluto fregiare – unico fra i satelliti dell’Urss – del titolo di repubblica «socialista»; in cui, cioè, il socialismo non è in via di costruzione ma si dà per realizzato. E precisamente l’idea di un socialismo proprio e autonomo anima il ’68 praghese, desideroso di innestare sulle conquiste sociali il  tema fino a quel momento eluso dal mondo sovietico: la libertà e la democrazia. La rivolta antiautoritaria ha come punta di diamante gli studenti universitari, nell’autunno 1967 – e ciò accomuna il movimento praghese alle ribellioni studentesche di tutto il mondo – , conquista gli intellettuali animando un dibattito culturale che esalta vivaci tradizioni, e trova un solido sostegno nello stesso Partito comunista, in cui la vecchia e screditata direzione di Antonin Novotny (che ha scagliato la polizia contro gli studenti e ha vietato la influente rivista Literární noviny) viene sostituita a gennaio del ’68 da una nuova maggioranza guidata dallo slovacco Alexander Dubcek.
Fiorisce la primavera di Praga, giornali e riviste si moltiplicano e vanno a ruba, anche gli operai partecipano e si discute di forme di autonomia e di direzione consiliare ispirate per certi versi alla «autogestione» iugoslava. L’economista Ota Sik elabora il «nuovo corso» dell’economia sburocratizzata che dovrà coniugarsi con un rinnovato ruolo di avanguardia del partito di Dubcek, di cui non si contesta il monopolio. La prudenza è necessaria, se si ricorda quanto sia costata  la “fuga in avanti” dell’Ungheria nel 1956, sanguinosamente schiacciata dai carri armati russi. Ma anche ora, a Praga, i conservatori reagiscono e a Mosca i sovietici sono nervosi: a fine giugno il Manifesto delle Duemila parole, con cui gli intellettuali cechi affermano l’irreversibilità del nuovo corso, suscita forti contrasti e convince la dirigenza del Pcus capeggiata da Leonid Breznev a preparare l’intervento militare; l’indipendenza praghese potrebbe essere il principio di uno sgretolamento. Il 21 agosto le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia, in coincidenza con la celebrazione del congresso del partito comunista cecoslovacco che si svolge ugualmente nella clandestinità. La popolazione protesta in modo per lo più nonviolento, con grandi raduni in piazza San Venceslao, con l’ironia e le scritte murali; ai giovanissimi soldati sovietici convinti di essere lì per “combattere il fascismo” i manifestanti mostrano le tessere di iscritti al partito comunista cecoslovacco (Umberto Eco è lì e racconta questi fatti). Tuttavia la normalizzazione ha la meglio, nonostante le tragiche code dei suicidi di protesta di Jan Palach e Jan Zajic. Dubcek viene rimosso e umiliato (verrà riabilitato dopo l’’89).
Per l’Urss è una vittoria di Pirro. La fine violenta del «socialismo dal volto umano», replica della repressione in Ungheria di dodici anni  prima, è la prova definitiva che il sistema sovietico non è riformabile. Anche se questo segno dei tempi non viene colto immediatamente a sinistra. Nell’ambito anticomunista la critica è scontata, ma la condanna americana è sempre rispettosa della sfera di influenza altrui e pretende rispetto per la propria (Cile docet). Fra i paesi socialisti, Cuba e Vietnam del Nord approvano l’intervento, la Cina condanna egualmente Breznev e Dubcek, solo la Iugoslavia appoggia Praga. Il Pci si dissocia da Mosca, non senza resistenze interne, e Berlinguer incomincia il suo cammino di critica all’Urss, irto di difficoltà e contraccolpi. Il Psi dà spazio alla opposizione praghese e candida al parlamento europeo Jiri Pelikan, ex direttore della televisione cecoslovacca. Nell’universo della nuova sinistra, che non ama l’Urss, la simpatia per la primavera di Praga è però tiepida: a Ovest il sogno non è di riformare con la democrazia un socialismo che c’è, ma di conquistare con la rivoluzione un socialismo che non c’è. Solo Rudi Dutskche, leader del movimento studentesco tedesco, fraternizza apertamente con i giovani cechi. In Italia fa eccezione «il Manifesto», la rivista eretica diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, che nel 1969 con l’editoriale Praga è sola auspica la  sconfitta interna dei regimi sovietici a opera delle forze progressiste di quei paesi. «il Manifesto» è stampato da Dedalo a Bari, dove a dicembre Laterza pubblica uno dei suoi libri sul ’68 che escono con riuscito tempismo: Praga 1968, le idee del nuovo corso, illuminante raccolta di saggi i cui curatori si firmano con lo pseudonimo collettivo di Jan Cech.  

Pasquale Martino   
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 8 agosto 2018




domenica 13 maggio 2018

Mauthausen Memorial


Memoria e Liberazione.
La manifestazione internazionale del 6 maggio


Lettura del giuramento nella Appelplatz
Il bel sole di domenica 6 maggio accoglie nel Mauthausen Memorial i partecipanti all’incontro internazionale che ogni anno commemora la liberazione del Lager nazista avvenuta il 5 maggio 1945. La piana antistante l’ingresso del pauroso recinto è diventata un parco dei monumenti nazionali – imponente quello sovietico, il memoriale dell’Italia è maestoso nella sua semplicità – davanti ai quali si raccolgono oggi le nutrite delegazioni, una folla variopinta e apparentemente caotica che assomma ad alcune migliaia di persone. La delegazione italiana è forse la più numerosa: una ventina di gonfaloni di enti locali – in testa La Spezia, Empoli, molta Toscana – i labari dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati) e dell’Anpi, tante scolaresche dal Nord Italia; molti hanno al collo fazzoletti a strisce bianche e azzurre come la casacca dei deportati, con al centro il triangolo rosso: lo stigma dei detenuti politici internati a Mauthausen domina dap-pertutto nei simboli di questa incredibile manifestazione.

Anataoi Malevannyi, russo, fra i
più giovani internati di Mauthausen
Certi aspetti enfatici propri della ufficialità – militari di nazionalità diverse in alta uniforme, saluti, squilli di tromba – non offuscano il carattere essenzialmente popolare e informale del grande raduno, in cui gli stendardi arcobaleno della pace si mescolano ai cartelli per Giulio Regeni, agli striscioni della «gioventù contro l’oblio» (Jugendliche gegen das Vergessen), dietro cui sfilano ragazze delle quali parecchie indossano il velo o hijab, alle bandiere dei curdi che ricordano come le lotte di liberazione siano ancora all’ordine del giorno. La manifestazione diventa un lungo corteo, che si snoda attraverso il Lager. Nel vasto piazzale al centro del campo, l’Appelplatz dove le SS eseguivano l’appello e la selezione dei prigionieri, oggi i rappresentanti di vari paesi fra cui anziani ex deportati rileggono ad alta voce in molte lingue il «giuramento di Mauthausen»: pronunciato collettivamente in quella piazza, dopo l’arrivo delle truppe americane e in occasione della partenza degli ex prigionieri russi, i primi a rimpatriare, il giuramento si conclude con la promessa solenne di non dimenticare i «milioni di fratelli assassinati dal nazifascismo» e di promuovere la libertà e la solidarietà internazionale. Non si resta indifferenti sentendo queste parole risuonare in quel luogo, in italiano, spagnolo, francese, tedesco, ungherese, russo, polacco, ceco, serbo-croato e via dicendo. È come se per un solo giorno si fosse ricostituita la grande alleanza antinazista di popoli e di Stati che nel secolo scorso segnò un momento altissimo di lotta per la libertà. Ma, ammonisce un oratore nel corso della giornata, «questo non è più il tempo del ricordo: è il tempo dell’impegno».
Mauthausen è un luogo impressionante, rimasto pressoché intatto: si sono conservati i grigi muraglioni di cinta, le torrette, la «scala della morte», molte baracche, camere a gas e crematori. Sembra inconcepibile che il dolce paesaggio di colline verdi e villaggi armoniosi nella valle danubiana sia stato il teatro di una mostruosa industria di schiavitù e sterminio le cui propaggini tentacolari si diramavano per tutta l’Austria. Era uno dei centri nodali del sistema concentrazionario nazista: un Lager per gli «irrecuperabili» – oppositori politici e partigiani di tutta l’Europa, e inoltre ebrei e prigionieri di guerra russi – destinati a sfiancarsi nelle cave di granito e per la produzione di armi, a morire di sfinimento, denutrizione e malattie, fucilati, gasati, gettati giù dalle rupi. Si conta che fra il 1938 e il 1945 vi siano stati internati 200.000 esseri umani, di cui 10.000 donne, e che almeno 103.000 vi siano stati uccisi. Gli italiani furono circa 8000 di cui la metà morì nel campo.


Antifascisti e partigiani pugliesi a Mauthausen

     
La delegazione italiana davanti al proprio memoriale
C’è un cospicuo drappello di pugliesi deportati e uccisi a Mauthasen, le cui vicende dovrebbero essere raccontate, e che citiamo qui in un elenco provvisorio e incompleto. Ai nomi più noti – l’avvocato Alfredo Violante, socialista liberale nato a Rutigliano; il sindacalista comunista Filippo D’Agostino, di Gravina – si affianca ora il nome dell’antifascista cattolico barese Giuseppe Zannini, la cui memoria il Comune di Bari ha onorato il 9 maggio, in una delle pietre d’inciampo per il quarantennale del suo amico Aldo Moro. Fra i triangoli rossi del Lager austriaco si annoverano cinque antifascisti di vecchia data, schedati nel Casellario politico centrale: due socialisti (Francesco Re, nato a Oria, e Antonio Brunetti, di Spinazzola, entrambi operai Fiat a Torino) e tre comunisti (Vincenzo Aulisio di Ascoli Satriano, partigiano delle Brigate Garibaldi, il ruvese Michele Rossini, operaio Fiat e partigiano, e l’elettricista tarantino Mario De Pasquale, il solo che sopravvisse). Operai Fiat erano anche il barlettano Pasquale Valente e il coratino Felice Scaringella, partigiano; lavoravano a Milano come operai o impiegati Giovanni Compagnone di Sansevero, Vladimiro Fratini di Taranto, Nicola Gangale e Giuseppe Rinella di Andria, Rocco Riefolo di Barletta e Pietro Carucci di Martina Franca (gli ultimi due sono sopravvissuti). 

      Trova conferma in questi dati la numerosa emigrazione meridionale nelle fabbriche del Nord rappresentata anche negli scioperi del marzo ’44 che dettero impulso alla Resistenza cui i tedeschi reagirono intensificando la deportazione di operai. Fra gli internati troviamo figure borghesi: il commerciante Pietro Civitano di Grumo Appula, arrestato in provincia di Siena; l’artista Girolamo Lopez, nato e residente a Bari, catturato a Milano; l’ufficiale dell’esercito e partigiano garibaldino Antonio Salcito, di Casalnuovo Monterotaro (Foggia), arrestato a Foligno. Sangue pugliese, versato unitamente a quello d’Italia e d’Europa, per la liberazione e per la fede in un mondo migliore.

Pasquale Martino
"La Gazzetta del Mezzogiorno", 12 maggio 2108   
Le fotografie sono state scattate da Maria Vittoria De Padova il 6 maggio 2018.

venerdì 11 maggio 2018

Bicentenario di Karl Marx


Il Capitale, Cafiero, 
i rivoluzionari meridionali


Il «ritorno a Marx» è una costante ciclica del dibattito filosofico, economico e politico. Un pensiero la cui inesausta forza analitica resta attrattiva anche quando gli eredi politici della sua tradizione sembrano scomparsi. Tanto più si vorrebbe riscoprirne la prorompente freschezza degli albori, della nascita e divulgazione, in quella seconda metà dell’Ottocento che fu età di rivoluzioni borghesi ancora in corso e di insorgenti lotte di classe capaci di incrinare le certezze del capitalismo trionfante. Nell’Italia appena unificata erano proprio i primi apostoli del movimento operaio a credere che le plebi del Nord e del Sud potessero associarsi nella ribellione contro l’ingiustizia, ispirate di volta in volta dal mazzinianesimo, dal radicalismo di Pisacane, dalla anarchia di Bakunin e dal socialismo scientifico di Marx ed Engels. 
      Molti intellettuali meridionali militavano nella nuova impresa, e fra questi alcuni pugliesi che rinunciarono a facili carriere perseguendo il riscatto delle classi lavoratrici. Il più generoso e culturalmente vivace fu Carlo Cafiero, nato nel 1846 da una ricca famiglia di Barletta, amico del pittore Giuseppe De Nittis suo concittadino, formatosi nel seminario di Molfetta e poi a Napoli: a lui, espressione di un “proto-marxismo libertario” (la definizione è di Gian Mario Bravo), va il merito di aver fatto conoscere per primo a un largo pubblico italiano la dottrina di Marx.
     Recatosi a Londra, Cafiero stabilì un legame soprattutto con Friedrich Engels, col quale restò in corrispondenza epistolare. Tornato in Italia, si adoperò con due conterranei, il tranese Enrico Covelli suo compagno di studi e Carmelo Palladino di Cagnano Varano, per riorganizzare a Napoli la prima sezione che sotto la guida di un altro pugliese, il sarto Stefano Caporusso di Modugno, aveva aderito alla Associazione internazionale dei lavoratori (la Prima Internazionale). È il 1871, il tempo della Comune di Parigi, quando la rivoluzione proletaria sembra incombere sull’Europa. Marx ed Engels guardano con interesse alle potenzialità dell’Italia, ma lo stesso fa l’ormai rivale Bakunin, che ha vissuto nella penisola e vi annovera numerosi seguaci. Pure Cafiero abbandona la linea marxista per abbracciare l’idea bakuniniana: finanzia l’acquisto della Baronata, una villa presso Locarno dove vive con la moglie Olimpia Kutuzova  e che mette a disposizione di Bakunin, ma in seguito prende le distanze dal leader anarchico; la vicenda è narrata nel romanzo di Riccardo Bacchelli Il diavolo al Pontelungo (1927). 
     Dopo aver promosso sfortunate insurrezioni a Castel del Monte e nel Matese, Cafiero si dedica alla sua opera più importante: la riduzione in agile compendio del libro I di Das Kapital, la grande summa teorica di Marx. Il volumetto esce nel 1879, rivolto non solo a lavoratori e a borghesi illuminati, ma, con lungimiranza, anche alla «prima gioventù delle scuole». Karl Marx in persona scrive a Cafiero per lodare la superiore qualità della nuova epitome rispetto a precedenti tentativi altrui e non solo in Italia. Efficacia e chiarezza connotano l’excursus come in questo passo: «La nascita del capitale si risolve nell'altra questione […]: trovare una merce che ci dia più di quanto ci è costata; […] la quale […] possa crescere di valore […] Questa merce tanto singolare esiste davvero e si chiama potenza del lavoro, o forza del lavoro». Opera mai tramontata: Il Capitale compendiato da Cafiero in edizione del 1913 è fra i libri di Gramsci, che nei Quaderni auspica possa realizzarsi una sintesi di pari utilità per le giovani generazioni; l’edizione Samonà e Savelli del 1970 rifornisce le biblioteche dei sessantottini; il compendio è stato sempre ripubblicato ed è disponibile come ebook. 

     Prima di morire proprio nell’anno di fondazione del partito socialista (1892), Cafiero – che ha scritto saggi non irrilevanti su comunismo e anarchia – fa in tempo a maturare posizioni pragmatiche, sulla scia di Andrea Costa staccatosi dall’insurrezionalismo anarchico per sostenere il movimento socialista organizzato. Contribuisce alla diffusione dei testi marxisti anche il socialista beneventano Pasquale Martignetti, lui pure corrispondente di Engels (al quale inoltre pervengono lettere da semplici militanti e simpatizzanti di Trani e Molfetta); tuttavia, mentre Il Capitale viene pubblicato a dispense a Torino, sulla rivista borghese «Bilbioteca dell’Economista», nel socialismo italiano l’assimilazione della teoria di Marx è superficiale e venata di positivismo. Toccherà al pensatore napoletano Antonio Labriola dare impulso alla fine del secolo a una rigorosa conoscenza del marxismo e dello stesso Manifesto di Marx ed Engels. La traduzione e pubblicazione delle opere dei due tedeschi sarà intrapresa nel 1899 da un altro valoroso intellettuale delle nostre terre, il “professore socialista” cioè il potentino Ettore Ciccotti, in collaborazione con la moglie Ernestina D’Errico. E siamo ormai alla prima delle – anch’esse cicliche – “crisi del marxismo”, addirittura alla “morte del marxismo teorico” proclamata da Benedetto Croce al sorgere del Novecento. 
     Invece il “secolo breve” segna l’avventura drammatica di un movimento storico di grandi masse che in tutto il pianeta ha nelle idee di Marx il proprio vessillo. Concluso quel secolo con dolorosi fallimenti ma con una inevasa domanda di eguaglianza e libertà, rimane il fascino di un pensatore radicalmente critico, che nel Bicentenario della nascita è forse ancora il più studiato nel mondo, e grazie a un intelligente regista haitiano (Raoul Peck) fa ora discutere il pubblico del grande schermo.   

Pasquale Martino   
"La Gazzetta del Mezzogiorno", 5 maggio 2018