venerdì 7 settembre 2018

Il '68 in Puglia/3


La lunga rivolta delle campagne 
Occupazione, diritti, collocamento pubblico: conquiste che sembrarono irreversibili


Corteo di braccianti in sciopero nel Foggiano, 1971

Nelle campagne pugliesi il Sessantotto durò a lungo: iniziato nel 1967, culminò nel 1969 con una coda nel ’71. Nonostante la sua tradizione, il movimento bracciantile e contadino mostrò indubbie analogie con i nuovi movimenti, studentesco e operaio: perché oltre alla giusta richiesta di reddito da parte di lavoratori bisognosi e precari, dette voce anche alla loro rivendicazione di maggior potere, di diritti e tutele nel mercato del lavoro. 
Regione ancora massicciamente agricola, a dispetto dei recenti poli industriali, la Puglia presentava una struttura produttiva assai articolata, comprendente l’azienda agraria capitalistica, i vecchi feudi latifondistici, la miriade di piccoli poderi a coltivazione diretta. La figura del bracciante era a sua volta molto variegata: includeva una minoranza di salariati fissi, una maggioranza di lavoratori a giornata e stagionali e una serie di figure miste come piccoli contadini, coloni e mezzadri che lavoravano anche a salario per altri, o che a loro volta assumevano uno o due braccianti a giornata. Forse per la prima volta nel ’68 pugliese, tutte queste figure – fino a quel momento divise dalla imperante capacità di controllo degli agrari rappresentati dalla Confagricoltura – riuscirono a unificarsi in un fronte comune. Fu merito di un movimento sindacale che faticosamente superò le divisioni raggiungendo momenti inediti di unità, ma fu soprattutto l’effetto di una spinta dal basso, di un contesto generale, di un’onda di ribellione che pareva volersi estendere a ogni piega della società. 

Nell’estate del ’67 lo sciopero dura 17 giorni, più degli scioperi precedenti incluso quello importante del ’62. Non intendo esaltare lo sciopero fine a se stesso, ma evidenziare quanto sia difficile la situazione di partenza, quanto necessariamente duro il conflitto, il braccio di ferro con un padronato arrogante e tornato baldanzoso dopo i ripiegamenti subiti negli anni di Di Vittorio. Una associazione datoriale che non vuol neppure sedersi a trattare. Si capisce che, quando i sindacati su richiesta del prefetto di Bari propongono di sospendere lo sciopero in cambio della apertura di trattative, scoppino proteste dei lavoratori in molti comuni, numerosi comizi vengano interrotti, perché si teme una ennesima astuzia padronale. Così il mito della radicalità bracciantile, non disposta a compromessi, contagia le avanguardie giovanili del ’68. Spesso interi paesi solidarizzano ed è vistosa la partecipazione delle donne, come lavoratrici e non soltanto nella dimensione “popolare” del movimento. Raffaele Cavalluzzi – italianista, studioso del rapporto fra letteratura e cinema, militante e dirigente politico – mi dà la sua testimonianza a partire da Grumo Appula, dove vive: in quel ciclo di lotte – dice – non si muovono solo le zone di tradizione rossa, ma altresì la moderata conca barese, dove prevale la figura ambivalente del contadino-bracciante; è un moto generalizzato, nel quale secondo Cavalluzzi incide pure una memoria collettiva risalente sia alle burrascose rivolte contadine sia a movimenti coscienti e organizzati come gli “scioperi alla rovescia” (negli anni ’10 a Grumo i contadini di propria iniziativa completano una strada di campagna, da allora detta “strada dei socialisti”). A fianco di sindacalisti esperti, alcuni dei quali pubblicheranno saggi e memorie su quella esperienza (Vitantonio Abbatista, Giuseppe Gramegna, Antonio Mari) si cimentano a vari livelli le nuove leve, di cui è espressione Mimmo D’Onchia, cresciuto nel Pci (il più giovane dirigente della Federbraccianti nel ’69) come lo sono anche giovani del Circolo Lenin, il gruppo della sinistra extraparlamentare presente in molti comuni pugliesi e attivo fra i braccianti, nel quale fanno “gavetta” fra gli altri Pietro Alò, futuro senatore comunista, e Angelo Leo, una vita nella Cgil, entrambi fra i protagonisti della battaglia contro il caporalato negli anni seguenti. 

Contadini e studenti in corteo nel Barese.
Dopo aver ottenuto risultati utili con la vertenza del ‘67, i braccianti aderiscono nel ’68 al movimento contro le gabbie salariali, e i loro elementi più sindacalizzati danno man forte ai primi scioperi degli operai della zona industriale. Nel ’69 una ulteriore e veemente lotta contrattuale scompagina il fronte padronale, ottenendo l’accordo separato con la Coldiretti, poi 140 accordi aziendali, e piegando infine anche la Confagricoltura: si conquistano i delegati aziendali e il diritto d’assemblea, cui si aggiunge la contrattazione collettiva dei patti colonici, finora lasciati ai singoli. Nel ’71 si perviene all’orario di 40 ore settimanali, al rapporto di lavoro a tempo indeterminato dopo 180 giorni, alle qualifiche specializzate oltre che alla estensione dei diritti sindacali ai coloni (che apre la strada alla trasformazione della colonia in affitto). 
Due questioni care ai braccianti sembrano avviate a soluzione: la salvaguardia degli elenchi anagrafici (dove sono iscritti i lavoratori destinatari di interventi assistenziali e previdenziali) che gli agrari vogliono “sfoltire”, e la fine del “mercato di piazza” con l’obbligo di ricorrere al collocamento pubblico (sancito per legge nel 1970). Di fatto il mercato di piazza sopravvivrà, e tornerà in auge negli anni recenti della deregulation, della intermediazione privata e del nuovo caporalato, nonché dei migranti che lavorano in condizioni spaventose, e intraprendono da capo una difficile lotta per i diritti. «I braccianti, italiani e stranieri – mi dice Anna Lepore, segretaria provinciale della Flai-Cgil di Bari (la Federbraccianti di oggi) – continuano ad essere reclutati attraverso il caporale, non necessariamente in piazza, magari col cellulare. È lui che decide chi, dopo una giornata che ancora adesso inizia alle tre del mattino, porterà a casa il pane, sulla base di una selezione che tiene conto esclusivamente di quanto il lavoratore ‘si adatta’ alle condizioni di lavoro offerte dal datore». 


Forme di lotta, partecipazione, repressione giudiziaria

Negli anni 1967-71 gli studenti assistono e talvolta partecipano alle forme della lotta bracciantile nei comuni: blocchi stradali e ferroviari, occupazioni di masserie, sequestro di trebbiatrici, in qualche caso abbattimento di alberi e vigneti, occupazioni di municipi e uffici del lavoro, blocco dei mercati, cortei, manifestazioni intercomunali, assemblee in piazza, dove si svolgono consigli comunali e si riscuote la solidarietà istituzionale, di associazioni, scuole e partiti compresa in molti casi la DC locale. È un conflitto duro ma nel complesso disciplinato, maturo, che non conosce le rabbiose esplosioni di violenza incontrollata del passato. È questa coralità impressionante che sconsiglia alle forze dell’ordine un drastico intervento immediato (ma ad Avola, in Sicilia, nel dicembre ’68 esse sparano sui braccianti in sciopero facendo due vittime); poco dopo arriva però la repressione di una magistratura ancora incrostata di mentalità punitiva, che nella sola provincia di Bari – riferisce il procuratore generale nel 1970 – ha aperto procedimenti giudiziari (per blocco stradale e picchettaggio) a carico di 188 braccianti e 85 studenti. I giuristi democratici protestano, i legali del comitato di solidarietà riescono in parte a limitare il danno.


Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 18 agosto 2018