lunedì 18 novembre 2013

Francesco Petrarca

Un intellettuale politico


Il Canzoniere, manoscritto
 miniato del XV secolo
























Lo schema critico che attribuisce a Francesco Petrarca la funzione storica di aver introdotto una separazione fra cultura e politica – separazione sconosciuta all’intellettuale municipale delle generazioni precedenti – è utile purché ne venga puntualizzato il senso: a partire dalla comprensione del fatto che Petrarca fu tutt’altro che indifferente alla politica né considerò la funzione del letterato come avulsa dalla sfera stessa dell’agire politico.



Petrarca maturò un proprio pensiero politico, sebbene lontano dalle rigidità e dall’organicismo del pieno Medioevo. Indubbiamente, la sua scelta netta in direzione di un’attività culturale di tipo professionale, di una sorta di specialismo del letterato, comportò la cosciente rinuncia a scalare vertici politici e istituzionali cui pure sarebbe potuto pervenire se lo avesse voluto: soprattutto in seno alla Chiesa, dove gli si aprì concretamente la prospettiva – da lui respinta – del cappello cardinalizio e di un alto incarico nella corte avignonese (presso la quale ebbe modo e cura di promuovere l’inserimento di altri letterati suoi amici). In questo senso egli perseguì un ideale di autonomia del letterato dal potere politico, che si trattasse del Papato o dell’Impero, del comune di Firenze o di una delle potenti signorie dell’Italia settentrionale. L’autonomia, ricercata con tenacia e sempre esibita con una ostentazione di modestia ma anche di distacco intellettuale, non significò tuttavia separatezza, né tanto meno contrapposizione, nonostante egli assumesse un atteggiamento critico – di volta in volta – su specifiche questioni, a proposito delle quali peraltro la polemica anche aspra (si pensi alle invettive contro la corruzione avignonese) non mise mai in discussione la ricerca di un rapporto di collaborazione e di influente consulenza. Autonomia voleva dire tenace rifiuto di coinvolgimento ai vertici del potere politico, specialmente perché questo avrebbe comportato una concentrazione mentale e un tempo di lavoro sottratti agli studi: laddove il fondamentale progetto di vita perseguito da Petrarca era quello di farsi, in grazia della vastità e profondità della sua produzione letteraria, promotore di una nuova coscienza culturale umanistico-cristiana. Inoltre la compromissione ai vertici del potere politico avrebbe implicato l’irreversibile identificazione con una sola parte, la fine di quell’habitus di equidistanza o di equilibrio che egli aveva cura di preservare come parte integrante e fondativa della sua figura.

Il Canzoniere, edizione umanistica illustrata
Il rapporto dell’intellettuale nei riguardi del dirigente politico è visto da lui piuttosto come quello del consigliere, dotato di una visione parzialmente autonoma, fondata su alcuni capisaldi: un ruolo da svolgere attraverso il metodo, di ascendenza senecana, dello speculum principis, di colui che tende a evidenziare e valorizzare le buone qualità e attitudini del potente, a indirizzarle a fini benefici, pur cosciente della relatività del suo sforzo date le condizioni storiche e le esigenze di Realpolitik.

I capisaldi della concezione petrarchiana sono: l’idea dell’unità culturale dell’Italia (tendenzialmente politica, sia pure nel senso di pacifica convivenza e di equilibrio diplomatico) e del primato italiano all’interno della cristianità, in ragione dell’eredità romana (che lo spinge a definire barbari i non Italiani, siano essi i Francesi che tengono il Papa in cattività oppure i soldati mercenari che imperversano nella penisola); la necessità di ristabilire la sede papale a Roma, capitale spirituale della cristianità stessa; il ruolo che l’Imperatore dovrebbe svolgere, di pacificatore e unificatore morale (se non politico, date le condizioni) dell’Italia e dell’Europa occidentale (cosicché egli riprende in parte l’idea dantesca, critica la corruzione della Chiesa e biasima l’imperatore Carlo IV per non aver rilanciato la coraggiosa e sfortunata impresa italiana del suo avo Enrico VII); la funzione positiva che gli Stati regionali più forti potrebbero svolgere in Italia in direzione della pace e della stabilità.

Nell’ambito di queste costanti del pensiero politico petrarchiano, è stato rilevato (da Ugo Dotti) il passaggio da un repubblicanesimo convinto (sostegno a Cola di Rienzo) a una visione che confida nell’efficacia della nuova istituzione signorile (trasferimento nella Milano viscontea). Un indizio di questo passaggio sarebbe la maggiore consistenza che nella prima fase ebbe il lavoro di stesura della biografia (per il De viris illustribus) di Scipione l’Africano, esponente della repubblica romana sia pure affascinata da un personaggio carismatico, mentre negli anni più tardi Petrarca dette uno spazio ben più ampio alla composizione della vita di Cesare, figura ‘monarchica’, nella quale si possono rilevare tratti di pragmatismo e realismo politico.

 

Gli anni di questo passaggio sono tumultuosi e complessi, sicuramente determinanti nelle scelte di vita di Petrarca. Prima del 1347 egli ha costruito la sua figura di letterato, pervenuta a precoce successo (la laurea in Campidoglio nel 1341), all’ombra della protezione dei Colonna, famiglia potentissima a Roma e ad Avignone. In Italia, egli ha ritenuto di individuare come punto di riferimento politico e morale la figura di Roberto II d’Angiò, il re dotto, il quale era alla guida di una entità statale vasta, il Regno di Napoli, storicamente legato alla Chiesa. Ma le vicende del Regno diventeranno, dopo la morte di re Roberto, sempre più complicate e irrisolte. Nel frattempo l’impresa di Cola di Rienzo suscita in Petrarca un’adesione entusiastica che forse non si ritroverà in nessun’altra occasione della sua vita: ma l’aspetto che egli sembra valorizzare non è tanto il carattere democratico e popolare del movimento di Cola (al quale anzi rimprovererà fra l’altro, dopo il fallimento, di essersi mescolato con persone cattive), quanto la prospettiva, letta in chiave umanistica, della rinascita di Roma come entità forte e unita (non più lacerata dalle faide nobiliari, nelle quali si distinguevano anche i Colonna), e nel ristabilimento delle condizioni per il ritorno del Papa nella sua capitale storica. Lo stesso Cola, peraltro, mostrò i tratti dell’utopista permeato di pensiero umanistico, che non potevano non incontrare la sintonia di Petrarca. Certo è che in questa vicenda si consumò anche la rottura – sebbene mai dichiarata e mai esplosa in momenti di aperta polemica – fra Petrarca e la famiglia Colonna, con la conseguente decisione, a lungo meditata e preparata, di lasciare Avignone (nonostante la vicinanza dell’amata Valchiusa) e di trasferirsi definitivamente in Italia. Qui Petrarca sceglie chiaramente come punto di riferimento politico la signoria (a partire dai Visconti), mentre altrettanto chiaramente esclude di stringere rapporti istituzionali con la repubblicana Firenze, patria dei suoi genitori e madre del volgare letterario. E a chi, come Boccaccio, gli rimprovera di sottomettersi a una tirannide, risponde in primo luogo che la libertà interiore resta per lui incontaminata, e in secondo luogo che la tirannide di uno solo è preferibile alla tirannide di molti (la democrazia comunale).

Manoscritto miniato del XV secolo
Bisogna riconoscere che, nonostante non siano mancati nella sua vita episodi in cui dovette piegarsi a prestare l’autorevolezza di cui godeva al servizio dei Visconti o dei da Carrara di Padova in atti di profilo abbastanza mediocre (come le epistole o le orazioni apologetiche), Petrarca riuscì nel complesso a preservare e mantenere alto il prestigio di letterato indipendente (prestigio che volle costruire sapientemente e con incessante pervicacia) e non venne mai meno alla sua immagine personale di portavoce e custode di superiori principi, di persuasore della pacificazione, nonché di mediatore al quale si potevano rivolgere città-stato in conflitto fra loro (come Venezia e Padova) per avvalersi di fini doti diplomatiche e comunicative.
Un personaggio politico, dunque, di notevole consistenza, che non a caso incominciò la sua carriera nell’alveo di una potente istituzione come la Chiesa e non abbandonò mai, ovviamente, la sua condizione di chierico. Al contrario, Dante era stato un intellettuale laico e uno dei “molti” (e neanche fra quelli di maggior peso) che avevano fatto politica in prima persona, come gestori o candidati alla gestione del potere, nell’ambito dell’istituzione comunale al tramonto, in una Firenze già florida e potente ma oramai precipitata nella crisi delle guerre di fazione. Una volta esiliato ed escluso dalla sfera del potere, l’Alighieri era diventato una “coscienza critica” che indirizzava i suoi messaggi alla Chiesa, all’Imperatore e più in generale alla società del suo tempo, tenendo d’occhio da un lato gli affari della sua Firenze, dall’altro il quadro generale e sconsolante dell’intera penisola.
Si può ben affermare, dunque, che Petrarca fu un intellettuale “organico” rispetto al potere storicamente dato, a differenza di Dante che restò sostanzialmente un predicatore isolato, sebbene non smettesse, anche negli anni dell’esilio, di ricercare le vie di una operatività pratica.

Pasquale Martino
(2004)