venerdì 22 novembre 2013

Pagina nostra

Lawrence Alma Tadema, il poeta preferito
Elogio del Latino

«accendere luci alla mente»
praepandere lumina menti

Lucrezio, De rerum natura I, 144



 
 
Il latino è l’italiano antico, e l’italiano è il latino moderno. Questa affermazione, non certo nuova e difficilmente contestabile, basterebbe di per sé a dare conto di quale valore abbia lo studio della lingua e della letteratura di Roma antica nel curricolo formativo. Un curricolo – beninteso – che contempli come obiettivo irrinunciabile la padronanza tanto della prospettiva storica quanto dei fenomeni linguistici.
Del resto, lo stesso concetto che abbiamo posto in apertura potrebbe sembrare decisamente parziale o addirittura limitativo. La lingua latina, infatti, non è soltanto la madre dell’italiano, ma anche di tutti gli idiomi neolatini o romanzi: dello spagnolo, la quarta lingua piú parlata nel mondo, nonché del portoghese e del francese che, a seconda delle diverse classifiche, si collocano fra il settimo e l’undicesimo posto (l’italiano segue, oscillando fra i numeri dodici e venti). È, insomma, il substrato delle parlate di circa un miliardo di persone. Senza contare la persistenza dell’eredità lessicale del latino – lingua internazionale comune per oltre un millennio – in un vasto arco di idiomi non romanzi, che spazia dall’inglese al russo, e le non irrilevanti analogie morfosintattiche che sussistono tra la famiglia linguistica latina e il greco, i ceppi germanico e slavo, fino ad arrivare al sanscrito e alle lingue che ne discendono, parlate in tutto il subcontinente indiano.
Per converso, è riduttivo e dunque inesatto configurare il latino soltanto come una lingua antica o come una lingua morta: dal Medioevo all’Umanesimo e per tutta l’età moderna, mentre si evolveva la storia parallela delle nuove lingue, in latino si è parlato, si è scritto e ci si è anche divertiti (basti pensare al latino «maccheronico»); per giunta, l’idioma di Cicerone e Virgilio – il cui vocabolario nel frattempo si era andato aggiornando – ha funzionato a lungo come strumento comunicativo della filosofia e fucina del linguaggio scientifico. Tuttora lo si studia e se ne fa uso nel mondo, e non solamente all’interno di cerchie accademiche o ecclesiastiche.
Piú pronta e generale adesione riscuote l’idea che la letteratura latina classica, o per lo meno i suoi capolavori, costituiscano un patrimonio di conoscenza che non può essere ignorato da chi si propone di diventare una persona cólta. Neppure i piú tenaci detrattori fra quanti considerano obsoleto e tedioso il lascito latino si sognerebbero di escludere dal canone delle letture consigliate l’Eneide o il De rerum natura, le poesie di Catullo o le operette morali di Seneca, le commedie di Plauto o gli epigrammi di Marziale, il Satyricon o L’asino d’oro. D’altra parte, sempre meno sostenitori – e sempre meno agguerriti – pare incontrare la tesi per cui sarebbe sufficiente leggere i testi latini solo in versione italiana, in un programma di “cultura generale”. Certo, come non rinunceremmo, sol perché non conosciamo lo sloveno o lo svedese, a leggere in traduzione i libri di Boris Pahor o di Stieg Larsson, allo stesso modo non penseremmo mai di dissuadere dalla lettura di buone traduzioni di Tacito chi eventualmente non possa accostarsi al testo latino. Altrettanto vero è che sarebbe del tutto improvvido disconoscere e quindi vanificare le (tuttora) solide condizioni che rendono relativamente agevole al pubblico italiano di misurarsi direttamente col testo latino: una tradizione di studi, un know how tutt'altro che disprezzabile, oltre al già citato rapporto di stretta filiazione latino-italiano. Inoltre, la diffusione di alcune collane economiche di classici latini tradotti con testo a fronte parla chiaro: dice dell’esistenza di una “quota di mercato” non propriamente elitaria, di una domanda che rende possibile tale offerta. Si tratta di giovani, di professionisti, di persone che, amando la cultura, vogliono riavvicinarsi ad autori a suo tempo incontrati nell'iter scolastico, e che non rinunciano a spostare lo sguardo sulla pagina a sinistra, per assaporare, quand’anche in modo intermittente, con assaggi parziali, il gusto della lingua originale. E se l’uso di un’edizione bilingue, da un certo livello di conoscenza in poi, diventa controproducente perché tende a distogliere il cultore del latino dal concentrarsi profondamente sul testo originale, esso è invece assai fruttuoso per chi si muove nella zona precedente a quel livello, con l’intento di predisporsi a ulteriori avanzamenti.
 
L’esperienza scolastica è la dimensione non solo congeniale, ma per molti versi unica e irripetibile (almeno, non facilmente surrogabile), in cui la futura persona cólta può acquisire le conoscenze e le abilità di base grazie alle quali avrà poi la possibilità di reinventare il proprio personale rapporto con le opere letterarie della classicità latina. Il primo scoglio, e il piú impegnativo, è senza dubbio il superamento della difficoltà linguistica: un lavoro che richiede una disciplina metodica, il “tempo lungo” di una scuola. Vero è che i rimaneggiamenti dei programmi e delle metodologie didattiche hanno ridimensionato tale ostacolo, se non altro rispetto all’epoca in cui l’apprendimento delle lingue classiche si presentava quale una temibile prova del fuoco, uno studio autocentrato, un vero e proprio rito di iniziazione (nonché di selezione sociale). Sembra sia oggi consolidata – quasi preambolo concettuale di ogni possibile percorso didattico – la convinzione che la competenza linguistica non possa che procedere di pari passo con il curioso accostarsi del giovane a un patrimonio culturale, a una storia, a una civiltà, e che la conoscenza del latino – come ogni vero processo di arricchimento culturale – produca l’emergere di livelli profondi di intelligenza del pensiero e della realtà, il dischiudersi di visioni non altrimenti sperimentate. Né si può rinunciare all’ineguagliabile tirocinio formativo della versione e del laboratorio sul testo: la salutare palestra della mente che consiste nel confrontarsi con un “rompicapo” senza poterne uscire prima di aver trovato la soluzione. Per quanto l’allievo possa procurarsi traduzioni (non di rado scorrette) tramite le risorse disponibili in Internet, l’accesso a tali risorse dovrebbe essere, se mai, rinviato al momento della revisione, e perciò escluso nella fase di un lavoro e di una verifica ben organizzati e saldamente governati dal docente.
La traduzione è, peraltro, soltanto una delle fasi del laboratorio sul testo, fase che risulterebbe poco utile se non fosse integrata dall’analisi sintattica, con la puntuale decostruzione del periodo, e dall’analisi-commento del testo sotto il profilo lessicale, stilistico e storico-critico: operazioni, queste, per le quali è molto meno probabile trovare risposte preconfezionate. Non ci si dovrebbe precludere, poi, il gusto di immaginare esercizi sul testo alternativi alla stessa versione: per esempio, comporre in latino il riassunto del passo esaminato, senza passare attraverso la stesura di una traduzione scritta, ma avvalendosi del dizionario italiano-latino per scegliere sinonimi e locuzioni equivalenti. Quello che dovrebbe apparire chiaro è che lo studio della lingua latina si fa sui testi, cioè su “organismi” vivi, il che implica la comprensione dei valori semantici, dei procedimenti retorici e stilistici, delle forme di eloquenza e dei linguaggi “speciali” (oratorio, epico, lirico, satirico, tecnico e via dicendo); insomma, lingua e letteratura – laddove, come nel caso del latino, entrambe siano rappresentabili solo mediante il testo scritto – sono talmente interconnesse da risultare quasi una cosa sola. Ma questo studio linguistico-letterario non può essere affrontato senza un metodo critico scientifico che tenga conto di tutte le risultanze (a loro volta problematiche) della filologia, della critica letteraria, della grammatica e della storia della lingua. Inoltre, questo studio non può essere svolto al di fuori di una prospettiva storica, senza, cioè, la consapevolezza che gli scritti letterari sono il documento di una civiltà nel suo divenire, e che se tale divenire non può essere compreso a prescindere da quei testi, nemmeno il messaggio dei testi può essere veramente esplicato se non in relazione a quel contesto. Infine, dovremmo essere coscienti che la scoperta della sostanza storica di un’opera non è data una volta per tutte, ma è una risposta sempre inedita alle domande proposte da sempre nuove generazioni di lettori; domande che nascono dalla sensibilità culturale e sociale contemporanea.
In definitiva, lo studio del latino ha come fine ultimo la condivisione – auspicabilmente, la piú ampia possibile – di una grande avventura della conoscenza: l’esegesi, l’ermeneutica, l’interpretazione e discussione critica delle opere letterarie. Purché sappiamo interrogare le pagine della letteratura mossi dalle sollecitazioni del nostro tempo, il latino, lungi dall’essere una lingua morta, parlerà attraverso i testi letterari alla nostra coscienza di contemporanei. Quale altro compito, piú grande e degno di entusiasmo, potrebbe proporsi la Scuola?

Pasquale Martino
 
da Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina.
Risorse per l'insegnante (D'Anna, Firenze, 2012)