domenica 8 dicembre 2013

Livio


La fine dei duellanti
Il lungo confronto fra Annibale e Scipione


Il libro XXXIX di Tito Livio include il racconto della morte di Annibale: un personaggio che, protagonista della decade riservata alla seconda guerra punica (libri XXI-XXX), ricompare nei libri successivi come figura per cosí dire eccentrica, ritratta nel mezzo di singoli e rapsodici episodi. Battuto a Zama, esule da Cartagine per sottrarsi alla vendetta dei Romani, appare nel ventennio successivo alla sconfitta cartaginese come una individualità irregolare: un sopravvissuto e un profugo “militante”, un nemico di Roma non rassegnato ma ormai ramingo e senza patria, un avventuriero, consigliere militare e agente al servizio di regni “antimperialisti”, almeno potenzialmente (prima la Siria di Antioco III, poi – dopo la sconfitta di questa – la Bitinia dell’ambiguo Prusia I). Ma nel momento della morte Livio ripropone il confronto fra Annibale e Scipione, stimolato anche da una tradizione storiografica che ama trovare le coincidenze, in questo caso la scomparsa quasi contemporanea, nello stesso anno, dei due grandi antagonisti, il Cartaginese e il Romano. Vale la pena, dunque, raggruppare e leggere contestualmente alcuni passi liviani che forniscono elementi per alimentare il confronto fra le due personalità e le due vicende umane.
Il primo brano (Ab Urbe condita XXXV, 14), raccoglie quello che si presenta come un aneddoto, di veridicità discutibile, ma per certi versi interessante. Sono raccontati, infatti, un incontro e una conversazione che sarebbero avvenuti fra Annibale e Scipione, in Asia, circa nel 193 a.C., prima della guerra siriaca. I due antagonisti in verità si erano già incontrati faccia a faccia nel 202 a.C., in Africa, per vane trattative di pace alla vigilia della battaglia di Zama. Il dialogo svoltosi in quella prima occasione è riferito da Livio con forte risalto, attraverso la presentazione di due discorsi, vere e proprie orazioni (XXX, 30-31). Già in tale circostanza lo storico aveva scritto: «si incontrarono quei due condottieri, i piú grandi non solo del loro tempo, ma di valore pari a qualunque re o condottiero di ogni altra nazione in tutte le età precedenti» (XXX, 30, trad. B. Ceva). Il parallelo Annibale-Scipione – che sottintende l’interrogativo su chi dei due massimi condottieri sia stato il primo in assoluto – è inevitabilmente sotteso a tutta la vicenda che li vede fronteggiarsi, nelle armi come nel contrasto verbale.

Lo stesso parallelo torna, in chiave aneddotica e quasi umoristica, nell’episodio qui riportato. Nove anni dopo Zama i due nemici si incontrano di nuovo in Asia, a Efeso. Annibale è consigliere del re Antioco III e l’Africano fa parte di una delegazione senatoria incaricata di valutare il rischio di guerra da parte del re seleucide. In un clima di cordialità, Scipione chiede ad Annibale chi sia stato a suo giudizio il migliore di tutti i generali. Lo stile narrativo è molto diverso da quello oratorio e paludato del primo incontro: la conversazione è brevemente riassunta mediante una colloquiale oratio obliqua. In un rapido «botta e risposta», il Cartaginese offre una graduatoria di merito, che colloca al primo posto Alessandro Magno, al secondo Pirro, al terzo lo stesso Annibale. A questo punto arrivano le due battute finali, in discorso diretto, che concentrano lo humour della storia. Incredulo e divertito per la presunzione del Cartaginese, Scipione gli domanda: «E che diresti di te se mi avessi sconfitto?» Risposta: «Allora mi sarei guadagnato il primo posto!».

Il senso della battuta conclusiva, secondo Livio – ma anche secondo Plutarco (Flaminino 21) e Appiano (Storia siriaca 10), i quali pure riferiscono l’aneddoto – sarebbe stato di rivolgere un implicito e tortuoso elogio a Scipione, quasi innalzandolo al rango di "fuori classe" tra i comandanti militari di tutti i tempi. Le radici di questa scena dialogica affondano forse nel gusto ellenistico dei «canoni» di grandi uomini, nel topos inevitabile della comparazione fra Greci e Romani, e nel ricorrente raffronto, in particolare, tra i geniali strateghi del mondo ellenico – Alessandro, il migliore di tutti (IX, 17), ma anche Pirro – cui l’autostima di Annibale lo induce ad associarsi, e i vincenti parvenus romani, un po’ faziosamente (e snobisticamente) retrocessi dai primi posti. 

Allo scoppio della guerra siriaca, i duellanti sono di nuovo avversari in armi, sia pure per interposta persona: Annibale è consulente di Antioco, Scipione di suo fratello Lucio che comanda le legioni. Conclusa la pace di Apamea (188 a.C.), la scena del racconto liviano si trasferisce a Roma, per rappresentare il dramma degli Scipioni e della loro caduta politica (vicenda, questa, narrata nel libro XXXVIII). L. Cornelio Scipione l’Asiatico, vincitore della Siria con l’aiuto determinante di suo fratello, è incriminato per appropriazione indebita nel quadro di un’aspra lotta interna contro l’egemonia del clan scipionico: gli si chiede conto delle ingenti somme versate da re Antioco privatamente nelle sue mani. Anche l’Africano è chiamato in causa e duramente accusato dai tribuni della plebe: risponde con un discorso pubblico vibrante di sdegno, riuscendo ancora una volta a conquistare il cuore del popolo romano. Ma «questo fu l’ultimo giorno luminoso per Scipione» (XXXVIII, 52, 1); da quel momento, adirato con la sua città, si ritirò in campagna, nella villa di Literno. Era l’anno 184 a.C., e all’Africano poco piú che cinquantenne, provato dalla devastante battaglia giudiziaria iniziatasi tre anni prima, restava poco da vivere: fu come se la sua resistenza psico-fisica si fosse spezzata.

Nel secondo passo (XXXVIII, 52-53) Livio riferisce il volontario esilio del grande generale, la morte, le ultime volontà di non tornare a Roma neppure defunto: «L’ingrata patria non avrà le mie ossa». E fa un bilancio della sua vita, dividendola nettamente in due parti: la prima splendida, coronata dall’immensa vittoria punica, di cui egli porta il merito da protagonista esclusivo; la seconda mediocre, vissuta da modesto comprimario (Livio deprezza ingiustamente il contributo dell’Africano alla vittoria siriaca), avvilito infine dalle contestazioni giudiziarie, dall’inimicizia politica e dal confino inflitto a se stesso. Uomo grande nella guerra, insignificante nella pace. Col che sembra chiudersi il cerchio della lettura liviana, a luci e ombre, di una tale personalità: Scipione audace, carismatico, ingannatore (XXVI, 19), moralmente irreprensibile e freddo calcolatore (XXX, 14), giovane glorioso e vecchio condannato a un oscuro declino.

Se non che, a epigrafe – per cosí dire – già dettata, si riparla di Scipione nel libro XXXIX, quando tocca ad Annibale andarsene da questo mondo. E Livio riprende – in realtà per confutarla – la notazione condivisa a suo dire da storici greci e latini, secondo cui nel medesimo anno 183 a.C. morirono i due nemici, nonché un terzo stratega, il generale greco Filopemene, animatore della Lega Achea (XXXIX, 50 e 52). La rilevazione di tale concomitanza s’intravede nei pur frammentari resconti di Polibio (Storie XXII, 12) – citato, questo, da Livio – e di Diodoro (Biblioteca storica XXIX, 18-20); ma lo storico romano dedica quasi un intero capitolo (Ab Urbe condita XXXIX, 52) a dimostrare – con risultati invero poco convincenti – che il decesso di Scipione dovrebbe essere avvenuto un anno prima. Però accetta l’accostamento dei duellanti e del Greco, in quanto morirono tutti in esilio e in stato di decadenza, e non furono sepolti in patria (XXXIX, 52). Subito prima di questo capitolo si colloca il breve e intenso racconto della fine di Annibale (XXXIX, 51).

Il vecchio combattente (sessantatreenne o, secondo Cornelio Nepote, settantenne) è ancora in fuga: dopo la sconfitta della Siria seleucide si è ritirato presso il re Prusia I di Bitinia, e ha offerto a lui  la sua preziosa consulenza militare nella guerra contro la filo-romana Pergamo. Ma Prusia non intende scontrarsi frontalmente con la potenza di Roma: ne accetta la mediazione per comporre il contenzioso con il re pergameno Eumene II. A questo punto l’ora del Cartaginese è scoccata.  

È Flaminino, il vincitore della seconda guerra macedonica, a presentarsi a Nicomedia nella reggia di Prusia, per reclamare la consegna di Annibale. Qui si apre una specie di (sottintesa) controversia storiografica, che poggia su versioni differenti relative a vari aspetti. Una questione è tutto sommato meno rilevante: se a circondare militarmente la residenza di Annibale furono i Bitini – come si comprende dal ragguaglio liviano – o i Romani, come sembrerebbe di capire da Cornelio Nepote (Vitae excellentium imperatorum, Hannibal 11). Nel secondo caso, Prusia avrebbe solo tollerato che i Romani agissero sul suolo bitinico. Ma nella storia Ab Urbe condita le ultime parole del Cartaginese sono proprio contro il fellone re di Bitinia, traditore dell’ospitalità. Piú decisivo, invece, è l’altro aspetto sul quale si manifestano spiegazioni differenti. Flaminino procedé contro Annibale su mandato senatorio o per iniziativa personale? Questa seconda tesi è avanzata da Appiano, il quale, inoltre, in modo esplicito mette a confronto «la magnanimità di Annibale e di Scipione e la meschinità di Flaminino» (Storia siriaca 11); il paragone è anche in Plutarco (Flaminino 21), secondo il quale il senato venne informato a posteriori della iniziativa di Flaminino e della conseguente morte di Annibale: dal che nacquero aspri commenti e raffronti tra la clemenza dell’Africano che non aveva perseguitato il nemico sconfitto, e lo sciacallaggio (diremmo oggi) di Flaminino che per farsi bello aveva infierito su un uomo oramai innocuo.  

Il disaccordo circa la reale dinamica dei fatti che determinarono la morte di Annibale ha origine probabilmente da motivazioni contingenti di polemica politica interna, fra chi aveva interesse a fregiarsi del risultato e chi, viceversa, intendeva mettere in ombra la primaria responsabilità dello Stato romano. Lo stesso Plutarco riferisce anche la tesi alternativa, che Flaminino fosse stato inviato come emissario di Roma con il preciso incarico di liquidare Annibale. Livio sembra aderire a questa versione, in quanto dice che Flaminino si recò da Prusia come legatus, dunque con un mandato ufficiale; ma adombra un’altra possibilità, che la consegna del Cartaginese vivo o morto sia stato un regalo spontaneo di Prusia per ingraziarsi i nuovi padroni del mondo. Ma in un modo o nell’altro era Roma a voler chiudere il conto. Del resto, Annibale nelle sue ultime parole afferma ironicamente di avere l'intenzione, suicidandosi, di «liberare il popolo romano dal suo incubo permanente». Lo stesso Africano, nelle circostanze date, non avrebbe forse agito diversamente. Anzi, nell’esposizione liviana era stato Scipione in persona, e in piú d’una occasione, a reclamare la consegna di Annibale: dai Cartaginesi subito dopo Zama, quando il generale battuto aveva appena lasciato l’Africa (Ab Urbe condita XXX, 37); da Antioco all’indomani della battaglia di Magnesia, quando Annibale fu costretto di nuovo a fuggire (XXXVII, 45).

Il capitolo è diviso in due sequenze. La prima è ambientata nella reggia di Nicomedia: descrive sommariamente l’arrivo di Flaminino e il suo abboccamento con Prusia. La seconda è ambientata nel palazzo bitinico di Annibale (altre fonti tramandano il nome della località, Libissa): il punto di vista narrativo è trasferito in quello individuale del vecchio nemico. Il Cartaginese ha sempre presentito questo momento, e la notizia dell’arrivo di Flaminino a Nicomedia lo ha fatto trasalire. Abituato a vigilare ininterrottamente sulla propria incolumità, ha predisposto sette vie di fuga dal palazzo. Ma deve prendere atto che tutte sono state circondate da uomini armati. Donde, con naturalezza e quasi con serenità, la decisione di compiere il gesto programmato da tempo: assumere il veleno predisposto ad hoc. La sua morte assomiglia agli exitus virorum illustrium, i modi di affrontare nobilmente la morte da parte di personalità vittime della fortuna, del tradimento, della crudeltà di un tiranno. E nel discorso di congedo dalla vita Livio gli attribuisce accenti propri di un Romano d’altri tempi: sono parole di rimpianto per la magnanimità e la grandezza degli uomini antichi, di deprecazione per la meschinità e slealtà dei loro immeritevoli epigoni.

Pasquale Martino
da: Livio, Antologia di passi tratti dai libri Ab Urbe condita, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2009

Immagini: busti di Annibale e di Scipione.

venerdì 6 dicembre 2013

Virgilio


Il corteo storico
libro VI dell'Eneide

 
Nel libro VI è narrata la discesa agli Inferi di Enea, che vi incontra lo spirito del padre Anchise; questi gli rivela il destino dei suoi discendenti, profetizza la missione universale di Roma e gli fa conoscere i grandi Romani dei secoli venturi, sotto forma di anime che soggiornano nell’Ade in attesa di raggiungere i corpi cui sono destinate. L’episodio (vv. 752-887) si può dividere in sequenze:




1) presentazione della serie dei re di Alba, a partire da Silvio qui considerato figlio di Enea (vv. 756-776);
    2) apparizione di Romolo, il primo dei re di Roma, e subito dopo di Augusto, il nuovo Romolo, del quale si celebra la gloria futura (vv. 777-807);
    3) presentazione dei re di Roma e degli eroi repubblicani, fra i quali il primo console Bruto, i Deci, L. Manlio Torquato, Camillo, Mummio, Catone, gli Scipioni, Fabrizio, Fabio Massimo (vv. 808-846; i vv. 826-835 sono riferiti a Cesare e a Pompeo);
     4) enunciazione della missione imperiale dei Romani (vv. 847-853);
     5) presentazione dei Marcelli e «epicedio» (dal greco epikédeion, «compianto funebre») per il giovane Marcello destinato a morte precoce (vv. 854-886).
 
La rassegna dei grandi di Roma è cosí concepita: Anchise,
Enea e la Sibilla accompagnatrice salgono su un’altura dalla quale possono meglio distinguere le figure e i volti dei personaggi (anime in attesa di incarnarsi, secondo la concezione orfico-pitagorica); la scena sarà ripresa nel IV canto dell’Inferno dantesco, quando Virgilio mostrerà a Dante gli «spiriti magni» dell’antichità. Gli eroi appaiono in fila, quasi in processione, secondo una prospettiva non dissimile da quella rappresentata nei posteriori rilievi dell’Ara Pacis, suggerita anche, forse, dall’uso – attestato da Polibio – di portare nei cortei funebri le immagini degli antenati. L’originalità è che qui si tratta di un corteo di personaggi non defunti né viventi, ma “imminenti”. Va da sé che Virgilio compie una scelta: dei re albani sono nominati soltanto alcuni fra quelli altrimenti attestati, e in ordine apparentemente casuale; ciò vale a maggior ragione per i molti eroi repubblicani. Significativo è l’abbinamento Romolo-Augusto; il primo è menzionato subito dopo la serie dei re albani, ma, prima di proseguire la serie dei re romani, Virgilio inserisce Augusto col pretesto di presentare la gens Iulia; egli è appunto il nuovo Romolo, colui che in qualche modo ha rifondato Roma riportandola alla purezza delle origini e estendendo l’impero «oltre le stelle».

Ancor piú interessante è il modo in cui è presentata la figura di Cesare: non si fa menzione esplicita di lui (tranne forse che al v. 789, dove però potrebbe trattarsi ancora di Augusto), nemmeno quando compare nella sfilata insieme con Pompeo (neanche lui nominato), costituendo la coppia di autori della sciagurata guerra civile. Dunque Cesare – che pure è il Divus la cui paternità è stata decisiva per l’avvio della carriera di Ottaviano (Divi genus, v. 792) – viene rimosso e, per cosí dire, messo tra parentesi, come responsabile di un eccessivo spargimento di sangue romano. Un tassello rilevante del mosaico politico e ideologico augusteo è la presa di distanze dal grande antesignano, funzionale a presentare il princeps Augusto come l’estirpatore delle lunghe guerre civili (lui, che ne aveva provocate altre!) e l’instauratore della pace universale. Non si può escludere, peraltro, che in questo passaggio di ripudio della guerra civile Virgilio intenda esprimere il suo personale orrore per tali guerre (delle quali aveva fatto amara esperienza) e l’auspicio che il nuovo signore di Roma se ne astenga d’ora in poi fermamente. La tendenza alla riprovazione dell’operato di Cesare e alla affermazione di una discontinuità fra Cesare e Augusto si può osservare anche in Tito Livio, contemporaneo di Virgilio, il quale si chiedeva se la nascita di Cesare fosse stato un bene o un male per Roma, e non nascondeva una riabilitazione di Pompeo. Del resto se si confronta il pur breve catalogo di grandi Romani offerto nelle Georgiche (II, 169-172) si nota che i Deci, Camillo, gli Scipioni ricompaiono nel corteo storico dell’Ade (VI, 824-825), Caio Mario invece sparisce: certo perché non fu soltanto il vincitore di Giugurta e dei Cimbri (motivo per cui era citato con onore nell’opera piú antica) ma anche il coautore con Silla della prima terrificante guerra civile. La linea di interpretazione storico-ideologica delle vicende romane contemporanee si era andata affinando e puntualizzando nei primi anni del principato trionfante, probabilmente attraverso un dibattito di posizioni comunque tollerate dal regime. Perfino Catone l’Uticense, campione del senato e avversario implacabile di Cesare, veniva rivalutato; ed è quasi certamente lui il Catone citato da Virgilio nell’ultima rassegna di «grandi» (libro VIII) raffigurati sullo scudo di Enea, subito dopo il reprobo Catilina, altro sobillatore di conflitti intestini e perciò punito negli Inferi, mentre l’Uticense vigila sulle anime dei pii (VIII, 668-670): del che si ricorderà Dante quando affiderà a Catone il suo Purgatorio.

Segue la celeberrima definizione, per bocca di Anchise, della peculiare funzione dei Romani nel mondo. Il termine di paragone, innominato, sono i Greci, il popolo che vantava piú d'un primato, anzi contendeva ai Romani l'eccellenza fra i popoli. Ai Greci è concessa la supremazia – evidentemente innegabile (credo equidem) – nelle arti della scultura bronzea e marmorea, nella retorica, nell'astronomia, probabilmente con implicita estensione alla cultura in generale; ai Romani è assegnata l'arte (haec tibi erunt artes) del dominio militare e politico sui popoli: dominio che è una realtà anche questa innegabile, sebbene trionfalisticamente esagerata (v. 287). La "sentenza" virgiliana arriva dopo quasi due secoli di dibattito sulla questione del rapporto fra le civiltà di Grecia e di Roma, di confronto tra filellenismo e antiellenismo. Già Cicerone, pur essendo un cultore e un teorico della humanitas, aveva rivendicato il predominio dei Romani nell'arte politica (De re publica) ma anche nell'arte oratoria (De oratore): due attività solidalmente unite, che nella visione ciceroniana costituivano la piú alta forma di abilità dell'essere umano e da cui derivava la supremazia generale dei Romani sui Greci. Virgi­lio non si esprime ufficialmente circa la contesa fra le arti, ma lascia intendere che il primato va al "governo mondiale", di pertinenza romana. Risuona in lui, come in Livio (l'altro grande "provinciale" contemporaneo), l'orgoglioso sentimento di potenza per cui il Romano dovrà «perdonare» i popoli che si sottomettono (parcere subiectis) e «sgominare» quelli che rifiutano di piegarsi (debellare superbos), e per questa via «imporre la pace»: slogan propagandistico di tutti gli imperi "gendarmi del mondo", passati e presenti; uno slogan che il capo barbaro Calgaco – nel discorso attribuitogli da Tacito (Agricola, 30) – demistificherà radicalmente: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, «dove (i Romani) portano la desolazione, la chiamano pace».

Infine, l’episodio di Marcello. Questi è il giovanissimo erede designato del princeps, morto a diciannove anni nel 23 a.C. Il ragazzo compare all’improvviso quando la rassegna e la processione sembravano concluse: è accanto al grande avo M. Claudio Marcello, vincitore dei Galli a Casteggio. Egli è protagonista di una scena autonoma e tutta sua: è l’unico personaggio pervaso da una delicata atmosfera di tristezza, quasi presago dell’avvenire infelice che gli è riservato. Certo, anche questa è celebrazione della domus augustea; ma qui si può percepire la peculiare sensibilità di Virgilio nei confronti della giovinezza spezzata, che ispirerà gli accenti di commiserazione dedicati a Pallante, Lauso, Camilla. L’episodio non è strettamente indispensabile al sistema ideologico cui lo scrittore è chiamato a dare rappresentazione poetica. Ci piace pensare che esso, come la ripulsa della guerra civile, costituisca uno degli spazi di libera espressione che il poeta si concede e ricava nella sua opera; e che proprio per questo abbia sorpreso Augusto e sua sorella Ottavia – madre di Marcello – durante la recitazione del libro VI, come racconta Elio Donato, commuovendo la donna fino alla perdita dei sensi. 

Pasquale Martino

da: Virgilio, Antologia di passi tratti dalle Bucoliche, dalle Georgiche e dall'Eneide, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007.


La prima immagine: Francesco Del Cairo, Enea negli Inferi.
dal sito: http://fe.fondazionezeri.unibo.it/catalogo/


Messala Corvino

L’ozio che fece nascere l’elegia


Scavi della villa di Messala Corvino a Ciampino
Neanche il tempo di rallegrarsi per il rinvenimento della grande villa romana di Ciampino, avvenuto l’estate scorsa e ampiamente divulgato dalla stampa alcuni mesi or sono, e già su quell’area archeologica – è notizia di questi giorni – incombono allarmanti progetti edificatori. La colata di cemento contro cui protesta la cittadinanza attiva si fermerà – sembra – a pochi metri dal sito, rovinandone irrimediabilmente il contesto paesaggistico. Sarà bene perciò tornare sull’importanza di quella scoperta per la conoscenza della civiltà e della letteratura latina.


A quanto pare il sito archeologico, dove sono stati rinvenuti statue e frammenti riferibili al mito di Niobe, è proprio quello della grande villa di Marco Valerio Messala Corvino. Sulle tubature del quartiere termale – riferiscono le cronache – è inciso il nome Valerii Messallae, il che è più di un indizio; gli archeologi stabiliranno la datazione della villa, sembra però difficile a questo punto immaginare che l’imponente struttura sia appartenuta ad altri che alla nobile famiglia di Messala (Messalla) Corvino, di antica origine repubblicana e perpetuatasi dopo l’età augustea, ma che nei 45 anni di Augusto (31 a.C. – 14 d.C.)  raggiunse l’apice del suo splendore.

L’interesse immediato verte sul ciclo scultoreo che rievoca la tragica vicenda di Niobe privata dei suoi figli, e sul nesso fra l’opera figurativa e il racconto che si legge nelle Metamorfosi di Ovidio, protegé di Messala Corvino. Ma noi approfittiamo per richiamare l’attenzione piuttosto sulla figura del protettore stesso, questo singolare concorrente e antagonista di Mecenate, nonché patrocinatore di una produzione letteraria di opposizione rispetto a quella augustea.  

Marco Valerio era un patrizio di eccellente formazione intellettuale, che da giovane non aveva esitato a difendere la tradizione senatoria schierandosi contro Giulio Cesare, l’inventore di una tirannide semilegale basata su parvenus, soldati e ceti popolari. Perciò Messala aveva combattuto a Filippi (42 a.C.) dalla parte di Bruto e Cassio, i tirannicidi. Dopo la sconfitta e la morte dei suoi capi, gli toccò scegliere fra gli unici due concorrenti rimasti in campo: Antonio e Ottaviano, entrambi eredi di Cesare. Optò per il secondo, che al dispotismo orientaleggiante del primo opponeva un formale rispetto per le istituzioni repubblicane. In questo scontro decisivo faceva comodo a Ottaviano allearsi con la nobiltà, perciò assunse il consolato in coppia con Messala Corvino nel 31 a.C., l’anno in cui la vittoria contro Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio gli spianò la via del principato.

Messala pareva soddisfatto da questo compromesso, e celebrò anche un suo corteo trionfale nel 27 a.C., l’anno in cui Ottaviano fu insignito dell’appellativo di Augusto. Ma poco dopo il rapporto fra i  due si ruppe. Nel 26 a.C. Augusto voleva cucire addosso a Marco Valerio una nuova carica da lui concepita: la prefettura dell’Urbe; Messala sembra accettare, ma subito si dimette, dichiarando che questa è una «magistratura illegale» (incivilem potestatem esse contestans); in effetti, non ve n’era traccia nelle istituzioni della repubblica. Da allora si ritira, di fatto, a vita privata, limitandosi a partecipare in sordina alle sedute del senato. Non era più il tempo di opposizioni aperte, ma se mai di larvati dissensi. Solo 24 anni dopo, nel 2 a.C., l’ormai vecchio Marco Valerio riassume un ruolo attivo prendendo la parola per proporre al senato di attribuire ad Augusto il titolo di Pater Patriae, e lo avrà fatto senza dubbio per un calcolo di convenienza. La sua famiglia finì con l’imparentarsi con quella del principe, e dalle propaggini nacque fra gli altri Valeria Messalina, la futura “imperatrice” moglie di Claudio.

Nel fratttempo, però, l’ozio dell’ex console aveva fatto fiorire un cenacolo intellettuale di tutto rispetto. Tanto per cominciare, al circolo di Messala Corvino si deve il più cospicuo gruppo che si sia conservato di testi latini scritti da una donna prima del cristianesimo: le poesie di Sulpicia (nipote di Messala). In secondo luogo, molto significativo è che in quell’entourage si sperimenti un genere poetico minore se non marginale, l’elegia, ben diverso dalla tragedia, dall’epica e dalla lirica praticate dagli augustei Vario Rufo, Virgilio e Orazio, cui è demandata la funzione di comunicare i valori fondanti del principato: l’impero, la patria, l’eroismo guerriero, la religione e la morale tradizionale. L’elegia si occupa invece di amori, di eros, di beghe fra amanti, di mitologie secondarie, di tormenti sentimentali e sensazioni che si provano aggirandosi per i sentieri di campagna o per i vicoli di Roma. Una letteratura disimpegnata: il che, all’epoca, è il massimo della presa di distanza dall’“impegno” che la cultura ufficiale richiede.

Fra l’altro, Messala Corvino componeva versi che però non ci sono pervenuti, così come non abbiamo le orazioni per le quali era famoso (di certo fu un oratore più bravo di Augusto, il quale leggeva i propri discorsi e per di più con tono monocorde). Il fiore di serra del suo circolo è l’elegiaco Tibullo, il poeta meno “schierato” che l’età augustea conosca, e il più esplicitamente pacifista di tutta la letteratura latina: ha orrore per la guerra, non vuole partire per una spedizione militare (sa di che si tratta, ne ha fatto la prova), e si interroga crucciato: «Chi fu quello che per primo costruì le orride armi? Fu un uomo feroce, fu un uomo proprio di ferro!» (Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? /Quam ferus et vere ferreus ille fuit!). Per contrastare l’egemonia di Messala in campo elegiaco, il suo grande competitore Mecenate arruola nel proprio circolo letterario il poeta rivale di Tibullo, il rampante Properzio, cui assegna il compito di scrivere le «elegie romane» riconducibili alla narrazione dell’ideologia augustea.

Poi arriva Ovidio, che ha 10-15 anni meno di Tibullo. Lui stesso riconoscerà in Messala Corvino un patronus, forse esagerando un po’: amico del figlio, frequenta il cenacolo dell’illustre aristocratico, si impratichisce nell’elegia e la rimaneggia a proprio uso e consumo, offrendo ai Romani un nuovo prodotto poetico “leggero” e disinibito, brillante e mondano, ormai del tutto post-augusteo, decisamente distante con la sua Arte di amare dall’austera e paludata ideologia del Padre della Patria. Il bello è che Ovidio è ben addentro nei salotti del principe, specie in quello di Giulia, figlia di Augusto. Ma ciò non gli evita la condanna all’esilio; anzi, forse è proprio tale vicinanza indiscreta a causarla, unitamente alla sua poesia politically uncorrect. E a nulla sarà valso il fatto che abbia prudentemente dedicato anche lui un po’ di rotoli cartacei all’ibrida «elegia romana», compilando nei Fasti il calendario delle festività latine. Neppure l’ex amico Messalino, uno dei mediocri figli del grande Messala Corvino, gli darà una mano per tornare in patria.

Pasquale Martino
Questo articolo è una versione ampliata di quella apparsa su
 «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 26 aprile 2013.


Appendice
Messalla Corvino a Varsavia


Palazzo Krasiński a Varsavia
Curiosamente, il più cospicuo monumento alla memoria di Marco Valerio Messala Corvino è un monumento moderno. Si tratta di un altorilievo raffigurante il trionfo del proconsole romano nel 27 a.C., che lo scultore barocco Andreas Schlueter realizzò per il frontone del palazzo Krasiński, costruito a Varsavia nella seconda metà del XVII secolo e restaurato dopo l’ultima guerra mondiale. I proprietari dell’edificio discendevano dal clan Korwin, ramificazione polacca della antica famiglia ungherese degli Hunyadi, la quale a sua volta si riconosceva erede del patrizio romano; questi, infatti, secondo una tradizione leggendaria, avrebbe posseduto vaste proprietà nei territori della Pannonia, lasciando ivi il seme del proprio lignaggio. Il principale esponente di tale discendenza romana sarebbe stato Mattia Corvino re di Ungheria e Boemia (1443-1490), accreditato come tale dall’umanista e storiografo italiano Antonio Bonfini (1427-1505), che visse alla sua corte.
P.M.

Le fotografie sono tratte dai siti:

sabato 30 novembre 2013

Ettore Ciccotti

La modernità dell’antichista

Ettore Ciccotti, il «professore socialista» di Potenza
A 150 anni dalla nascita, un protagonista solitario della cultura italiana

Ricorre in questi giorni il 150° anniversario della nascita di Ettore Ciccotti: «il professore socialista», «un solitario nella cultura italiana»; due definizioni che sono state date di lui, indicative della sua vicenda pubblica. Poco più anziano di Benedetto Croce, fu una figura di spicco nella generazione di intellettuali meridionali attiva dopo l’Unità. Venuto al mondo a Potenza il 24 marzo 1863 da una famiglia della borghesia antiborbonica (il padre diventerà sindaco del capoluogo lucano), Ciccotti si forma a Napoli, nutrendosi di idee mazziniane. È indirizzato agli studi di antichistica dallo storico ed epigrafista Ettore De Ruggiero, discepolo di Francesco De Sanctis e, in Germania, allievo di Theodor Mommsen. Nel 1891 si trasferisce a Milano, vincitore di un concorso di storia antica. Nella metropoli lombarda si accosta al socialismo emergente e al neonato partito dei lavoratori; collabora alla rivista di Turati «Critica sociale», propugnando la strutturazione dei circoli socialisti in una moderna organizzazione, e appoggiando il progetto di un quotidiano nazionale (l’«Avanti!» apparirà nel 1896). Ciccotti – ha scritto Piero Treves – «si buttava nella lotta politica a detrimento sicuro delle proprie fortune universitarie». Nel 1897 gli viene negata la promozione a docente ordinario a causa delle sue idee “sovversive”, nonostante la difesa del grande glottologo Graziadio I. Ascoli (la cui memorabile perorazione ebbe per titolo Il professore socialista: un ossimoro, all’epoca); per di più, dopo la repressione antioperaia di Bava Beccaris nel 1998 è costretto a fuggire in Svizzera.

Nel 1900 è eletto deputato; ma ha inizio allora anche la sua critica verso il partito socialista, da lui accusato di essere insensibile alla questione meridionale.  Amico e corrispondente del conterraneo Giustino Fortunato, sviluppa una posizione di  meridionalismo federalista affine per certi versi a quella di Salvemini; al quale lo accomuna anche l’adesione, nel 1915, all’interventismo democratico.  Nel dopoguerra coltiva simpatie per il nascente fascismo come non poca parte degli intellettuali politici del suo tempo, ma dal 1924, nominato senatore per iniziativa dell’ex allievo Alessandro Casati, allora ministro dell’istruzione, matura il progressivo distacco che lo porterà ad avversare la legislazione fascista e a difendere Ernesto Rossi perseguitato dal regime.  Ciccotti è ormai una figura isolata, anche rispetto alle scuole classiciste italiane, sempre più sedotte dalla “nuova Roma” e poi dal filo-germanesimo. Quando la morte lo coglie, il 20 maggio 1939, alla vigilia della seconda guerra, ha appena scritto un saggio (che sarà pubblicato solo dopo la caduta del fascismo) in cui – in piena campagna antisemita – ipotizza l’origine ebraica di Orazio.    
Sarebbe impossibile dare conto qui della fervida attività politico-culturale dello studioso potentino, nella quale si inseriscono la divulgazione delle opere di Marx ed Engels (in collaborazione con la moglie, la traduttrice Ernestina d’Errico) e la direzione, con Vilfredo Pareto, della Biblioteca di Storia Economica. Quel che più importa rilevare è la sua interpretazione pionieristica (nel decennio 1890-1900) e, si potrebbe dire, geniale, del metodo del materialismo storico applicato alla scienza dell’antichità: un terreno sul quale Ciccotti si muove guidato dal gusto delle analogie fra passato e presente, quasi anticipando la tesi crociana per cui ogni storia è storia contemporanea. Il lavoro, la schiavitù, la condizione femminile sono i temi preferiti dallo storico lucano, sull’onda del movimento operaio, dell’abolizione della schiavitù in America, delle manifestazioni proto-femministe.   

La sua opera più nota e più importante, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico (1899), fu tradotta in varie lingue e recensita favorevolmente, fra gli altri, da Karl Kautsky, il massimo teorico marxista dopo la morte di Engels; ripubblicata dalla «Universale Laterza» nel 1977, è oggi pressoché introvabile.  Nonostante il titolo, il saggio ricostruisce anzitutto le origini e l’apice del modo di produzione schiavistico ad Atene e a Roma, dando limpido risalto alla «esistenza normale e generale di una classe di schiavi» e indicando in questa «la base ed il sostrato della società antica». Il punto più problematico rimane però la causa del declino di quel sistema economico. Entrata in ombra la spiegazione respinta da Ciccotti – che attribuiva la fine della schiavitù all’influenza del cristianesimo – e consolidatosi il principio metodologico della ricerca sul contesto economico-sociale, è tuttora discussa la tesi di fondo di quel libro: che il tramonto dello schiavismo antico sia stato causato dalla scarsa produttività del lavoro, meno competitivo rispetto a quello dei servi della gleba man mano affermatosi. Una tesi che la storiografia del secolo successivo, ivi compresa quella marxista, ha talora accolto, talora contestato, senza mai invalidarne del tutto l’efficacia.

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 23 marzo 2013

mercoledì 27 novembre 2013

Cesare


Il discorso di Critognato

De bello Gallico, VII, 77



Come è noto, Cesare riferisce di norma i discorsi dei protagonisti in oratio obliqua: ciò è considerato dai commentatori una garanzia di maggiore veridicità, perché permette allo scrittore di andare alla sostanza delle argomentazioni, senza costringersi a quell’invenzione retorica che è il portato inevitabile delle orazioni dirette. L’unica significativa eccezione all’uso generalizzato dell’oratio obliqua è la cospicua oratio Critognati, vero pezzo di bravura oratoria. Un testo che, fra l’altro, ha il pregio di documentare la maestria di Cesare oratore, tanto lodata dai contemporanei e da Quintiliano, ma a noi altrimenti sconosciuta, visto che i discorsi di Cesare non si sono conservati. La singolarità di questo testo – unita al fatto che il personaggio di Critognato è nominato solo qui – ha indotto a dubitare della sua autenticità e a sospettare una interpolazione. Tuttavia l’orazione appare assolutamente organica al contesto del racconto. Del tutto plausibile è la motivazione di questo passo addotta dall’Autore: egli è venuto a sapere della “eccezionale e spietata crudezza” della proposta di Critognato e ha ritenuto opportuno darle il dovuto rilievo. Ma vanno considerate anche altre due motivazioni implicite: dal punto di vista letterario e narrativo, il discorso acuisce la tensione drammatica nel momento piú critico della guerra gallica; inoltre, esso ha un chiaro contenuto ideologico, sul quale torneremo piú avanti.

Questi in sintesi i fatti. Al culmine della rivolta gallica (anno 52 a.C.), 80.000 guerrieri guidati da Vercingetorige sono asserragliati nella città di Alesia. I Romani hanno costruito attorno agli assediati una possente circonvallazione. Prima che i passaggi fossero completamente ostruiti, Vercingetorige è riuscito a far filtrare dei messaggeri spediti in tutta la Gallia per chiedere rinforzi. Consapevole di ciò, Cesare incomincia a far costruire una fortificazione attorno alla cinta d’assedio, in modo da reggere anche l’assalto esterno e poter combattere su due fronti. I Galli hanno calcolato di avere in Alesia cibo sufficiente per trenta giorni, o poco piú se il razionamento verrà ridotto; alla scadenza di questo termine si aspettano di ricevere l’armata di soccorso. Questa è effettivamente in preparazione, ma i tempi sono piú lunghi: alla fine le tribú galliche radunano 240.000 fanti e 8.000 cavalieri che, sotto il comando di Commio Atrebate, si dirigono verso Alesia. L’informazione di ciò raggiunge i Romani, che intensificano i lavori di protezione esterna; gli assediati invece non hanno notizia dell’evolversi della situazione, perché ormai ogni accesso ai messaggeri è bloccato. Poiché le scorte sono esaurite, viene riunito ad Alesia il consiglio dei capi per decidere il da farsi. All’inizio del consesso si confrontano due ipotesi contrastanti, le quali hanno però in comune la convinzione che gli aiuti, quand’anche arrivino, giungeranno troppo tardi: la prima ipotesi è di arrendersi ai Romani, la seconda di compiere una sortita disperata e tentare di rompere la linea di assedio. Sembra che quest’ultima proposta raccolga una larga maggioranza: è a questo punto che prende la parola Critognato, presentato come un nobilissimo e autorevole principe degli Arverni. Questa è la stessa tribú di Vercingetorige, e ciò lascia supporre che l’opinione di Critognato risponda al pensiero del comandante in capo (del quale non viene detto che si sia espresso durante il dibattito); ma, soprattutto, la proposta di Critognato rilancia nella sostanza la tattica di Vercingetorige: attendere a ogni costo l’arrivo dell’armata di soccorso, per impegnare i Romani da due parti con forze preponderanti. L’indizio che dà fiducia circa l’imminente arrivo – dice Critognato – è proprio la visibile accelerazione dei lavori di sbarramento esterno da parte dei Romani. Egli dunque propone di resistere strenuamente e, se il cibo è terminato, di nutrire gli 80.000 combattenti con le carni dei non combattenti: cioè di tutte le persone inadatte alla guerra. Vecchi, donne, bambini dovranno perciò soccombere onde i guerrieri sopravvivano. L’atrocità singolare della oratio, che tanto ha colpito Cesare, sta principalmente in questa proposta di cannibalismo. Ma la durezza è anche nell’approccio che Critognato mostra verso le altre due proposte. Non prende nemmeno in considerazione i sostenitori della resa; anzi, propone che vengano espulsi dal consiglio dei capi: una sorta di drastico provvedimento di salute pubblica. Discute solo con i fautori della sortita (che, a quanto dice, sono in maggioranza): ma li accusa di scarsa fermezza d’animo o, nel migliore dei casi, di avventatezza, di “stolta temerarietà”. Sostiene che il vero coraggio è di resistere pur in questa condizione penosa, mentre gettare via le vite dei guerrieri equivale a danneggiare irreparabilmente tutta la Gallia. Fa riferimento infine al precedente di antropofagia praticato dai Galli chiusi nelle loro fortezze durante la rovinosa calata dei Cimbri e dei Teutoni (è questo il solo luogo della tradizione in cui venga riportata tale notizia). L’intervento di Critognato è determinante per la decisione finale del consiglio (De bello Gallico VII, 78): il quale, pur non accettando la proposta piú estrema, quella del cannibalismo, stabilisce di evacuare dalla città l’intera popolazione non combattente, cioè tutta o quasi tutta la cittadinanza originaria di Alesia (i Mandubi), lasciando fra le mura solo i guerrieri gallici. In questo modo tutto il poco cibo rimasto verrà distribuito fra i combattenti, consentendo loro di resistere in attesa dei soccorsi. Non è un provvedimento meno crudele: tranne che i Galli non sperino nella pietà dei Romani, che si convincano a nutrire gli espulsi (come ipotizza Cassio Dione); cosa che, ovviamente, non accade. I Romani non sono da meno, diffidano di questa massa che si accalca davanti al campo e hanno da preservare i loro rifornimenti. Cesare non dice, per reticenza, che cosa avvenne degli sventurati; ma si può immaginare, come ha fatto Cassio Dione, che morirono tutti di fame nel tratto fra le mura e il vallo romano. 
Questi i contenuti essenziali del discorso di Critognato. Il resto – la costruzione delle argomentazioni, il pathos, l’espressione, le figure retoriche – è creazione letteraria, come sempre nella storiografia antica, dove la materia delle allocuzioni originarie è solo lo spunto per l’esercitazione oratoria degli storici. Ma perché – è lecito domandarsi – l’intera orazione, nella forma e nel contenuto, non dovrebbe essere stata inventata di sana pianta da Cesare? Si può rispondere che la pura invenzione di concetti attribuiti ai personaggi storici è profondamente estranea al metodo di Cesare. Egli omette, enfatizza, contestualizza a modo suo, distorce, ma non inventa dal nulla. C’è una seconda obiezione: come avrebbe fatto Cesare a sapere del discorso di Critognato? Le notizie dal campo nemico provenivano, com’egli stesso spiega, specialmente dai disertori. Ma questo dibattito avvenne in una città strettamente assediata, per di piú in un consesso appartato: non era un’assemblea popolare, perché queste assemblee non si facevano in Gallia De bello Gallico VI, 1, 3: plebes nullo adhibetur consilio) se non all’inizio di una guerra (De bello Gallico V, 56). Sono possibili però diverse risposte. A dare notizia del dibattito potrebbero essere stati dei prigionieri eminenti dopo la vittoria finale di Cesare; magari soprattutto coloro che nel consiglio sostennero la resa, al fine di distinguere le loro responsabilità da quelle degli intransigenti come Critognato e Vercingetorige. Oppure potrebbero averlo fatto quelli che erano stati evacuati da Alesia, ai quali una qualche motivazione del loro destino doveva essere stata data (persino come conforto per non aver subito il destino peggiore di essere mangiati dai guerrieri); i quali, giunti fin sotto il vallo per implorare aiuto, potrebbero aver raccontato queste cose ai Romani per convincerli che essi erano delle vittime e non un pericolo.

È evidente il valore ideologico del discorso. In primo luogo Cesare intende rimarcare, come di consueto nelle rappresentazioni dell’‘altro’, il tratto di irriducibile ‘diversità’ barbarica che è agli antipodi della humanitas greco-latina, e che, ovviamente, si rivela soprattutto nella proposta di antropofagia. In secondo luogo – ed è questo l’aspetto pú interessante – lo scrittore compie uno sforzo di elaborazione ideologica che in qualche modo è in contrasto con il precedente assunto della diversità barbarica. Egli tenta infatti di penetrare nel punto di vista del nemico, di rappresentarne vivacemente le ragioni, che consistono soprattutto nell’aspirazione alla libertà, unita alla coscienza di possedere leggi e istituzioni autonome, e nella critica dell’imperialismo romano in quanto spietata macchina di asservimento dei popoli: due volte, nel discorso di Critognato, ricorre la parola libertas, due volte compare il binomio iura / leges e quattro volte ricorre la parola servitus (la schiavitú che i Romani impongono), accompagnata dagli aggettivi turpissima, perpetua, aeterna. Una servitú irreversibile, la piú ignobile che si possa immaginare. Come ha giustamente osservato L. Canali (Cesare senza miti, Torino, 1969, p. 71), è proprio l’acuta sensibilità politica di Cesare a consentirgli di immedesimarsi nell’avversario e di dare dignità alle sue motivazioni: che sono in contraddizione insanabile con quelle di Roma (delle quali non è mai messa in dubbio la prevalenza), ma non indegne di essere nominate; anche perché la gagliardia degli ideali di resistenza dei popoli attaccati conferisce maggiore gloria alla fatica dei vincitori. Cesare apre cosí la serie notevole di "orazioni del nemico" in cui si cimenteranno gli storici latini, e che avrà i suoi esiti salienti nella lettera di Mitridate in Sallustio e nella tacitiana orazione di Calgaco.

Pasquale Martino
da: Cesare, Antologia di passi tratti dal De bello Gallico e dal De bello civili, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2006

Immagini: Il Galata che uccide se stesso e la moglie, particolari: Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps, Roma.

Storia operaia

Cortei e occupazioni, Bari in tuta blu
Breve storia della lunga protesta operaia

 
Forse si è in tempo per scongiurare la chiusura della Bridgestone di Bari:  un disastro che si abbatterebbe su una zona industriale già profondamente ferita dagli esuberi, dalla cassa integrazione, dalle procedure di mobilità.  Solo poco tempo fa  il caso simile della OM Carrelli elevatori ha trovato per fortuna una via di scampo*. Si comprende che l’attenzione si incentri sull’urgenza della questione occupazionale, eppure la vicenda della fabbrica di pneumatici barese ha un significato emblematico che va al di là dell’immediato: è una pagina importante di storia industriale e soprattutto di storia operaia del territorio. 
Sarebbe, dunque, il momento di riscoprire la biografia di Bari e della sua area metropolitana dal punto di vista della classe lavoratrice, anche se il capoluogo pugliese ha sempre faticato a fare i conti con la propria componente industriale e operaia. Bari ha convissuto con una identità di città commerciale, in cui la rendita agraria si traduceva in investimento finanziario e  in proprietà immobiliare, alimentando le professioni tradizionali oltre che la burocrazia pubblica. Però una città così restia a riconoscere i conflitti sociali ha dovuto periodicamente accorgersi dell’esistenza di un proletariato industriale, delle sue rivendicazioni e della sua soggettività; della sua capacità di lasciare una traccia nei processi storici. Nel 1962 la dirompente rivolta degli edili fu seguita dalla formazione della prima giunta comunale di centro-sinistra. E non fu certo un nesso casuale: la società cambiava e di ciò la lotta operaia era sintomo e concausa. 
Nel frattempo si costruiva la zona industriale fra Bari e Modugno e una parte di quegli edili veniva assorbita come forza lavoro dell’impresa manifatturiera. Si trattava di una rete di medie e piccole fabbriche, per lo più sostenute dalle partecipazioni statali, che a Bari realizzarono fra l’altro la Breda Fucine Meridionali e la fabbrica di pneumatici Brema, di lì a poco unitasi con l’americana Firestone. E sorsero fra le altre la Pignone Sud, la Breda Hupp, l’Isotta Fraschini, mentre in quel contesto prosperavano ditte metalmeccaniche locali come la Calabrese e la Uniblok e si insediava la nordeuropea Hettemarks, industria di abbigliamento con manodopera femminile. Non poche aziende sperimentavano produzioni di avanguardia: e Bari diventava una città industriale avanzata quasi senza saperlo.  All’inizio degli anni ’70 arrivò lo stabilimento Fiat, che nasceva ormai nel segno della nuova coscienza di classe maturata durante l’autunno caldo del ’69.
Ma già nel 1968 la grande vertenza contro le “gabbie salariali” era stata il primo battesimo del fuoco di una neonata classe lavoratrice, poco sindacalizzata, non di rado sottomessa alla direzione aziendale, che però  scopriva ora il gusto della ribellione: e nel moto di protesta di tutto il Mezzogiorno contro l’ingiustizia di un salario differenziato fra Nord e Sud faceva valere il proprio sentimento ugualitario, procedeva alla resa dei conti con le piccole e grandi sopraffazioni dentro l’universo quotidiano della fabbrica.  I 47 giorni di occupazione operaia delle Fucine Meridionali (maggio-giugno 1968) – un episodio senza precedenti, che scosse la città  – non furono motivati soltanto da sacrosante rivendicazioni economiche, ma anche dal bisogno di affermare una democrazia nei rapporti di lavoro, di contestare la gerarchia autoritaria e le logiche punitive dentro l’ officina. Si formavano allora le commissioni interne e poi i consigli di fabbrica, nei reparti entrava il sindacato: non la “burocrazia” – poca cosa in quella giovane zona industriale – ma l’organizzazione dei lavoratori, il proprio strumento di lotta e di crescita democratica.
Gli operai iniziarono a sfilare in città perché tutti sapessero contro che cosa si battevano, che cosa volevano. I primi a mescolarsi con loro furono gli studenti: non era ancora un rituale ripetitivo, era il convergere spontaneo di forze giovani che si andavano liberando.  E nei cortei non mancava mai l’ondeggiante striscione della Firestone Brema, in testa a una folta schiera.
Questa presenza operaia ricorrente, questo dialogo con gli studenti, non sono stati senza effetti nella educazione di quella generazione e delle successive, dal punto di vista civile e politico. Non era una partecipazione meramente protestataria ed economicista. Se si guardano i servizi fotografici e i filmati della grande manifestazione del 29 novembre 1977, seguita all’assassinio di Benedetto Petrone per mano fascista, si resta colpiti dall’onnipresenza delle tute blu e degli striscioni di numerose fabbriche baresi.  L’esperienza e perizia tecnica delle maestranze era diventata anche cultura dei diritti, coscienza civile. 
Dal sito di SkyTg24
Aveva inizio però il declino: il ciclo economico sfavorevole, la crisi delle politiche di sostegno al Mezzogiorno, la ritirata strategica delle partecipazioni statali; quello che Nico Perrone in un suo libro del 1991 ha chiamato il «dissesto programmato». Era anche una rivincita dei datori di lavoro, un contrattacco che sottraeva parte del terreno guadagnato dalle classi lavoratrici.  La parabola dal capitale pubblico al capitale privato, alle riconversioni, dismissioni, riduzioni di personale, riguarda anche la Firestone, divenuta Bridgestone alla fine degli anni ’80 con l’immissione di capitale nipponico. La produzione è ridimensionata e l’occupazione diminuisce, vengono introdotti i contratti week end e varie forme di flessibilità. È in questo quadro contrattuale che, negli anni ’90, arrivano i tedeschi a dare un po’ di respiro alla zona industriale barese con le loro fabbriche di componenti automobilistiche, la Bosch e la Getrag. Gli operai Bridgestone, tuttavia, aprono un altro versante di lotta: quello della salute in fabbrica, connesso non soltanto ai procedimenti produttivi, ma alla diffusa presenta dell’amianto. Come i lavoratori della Fibronit – l’industria innervata nel cuore di un grande quartiere popolare – gli operai Bridgestone hanno costituito una combattiva associazione di esposti all’amianto, intitolata alla memoria di uno di loro, il manutentore elettrico Benedetto Piscazzi, vittima dell’asbesto. La coscienza operaia ha insegnato parecchie cose alla città, anche in termini di cultura della salute e dell’ambiente.

Pasquale Martino
 
*In realtà la vertenza della OM Carrelli Elevatori si è riaperta e nell'estate del 2013 sembra ancora lontana da soluzione.
 
Dal sito: Il lato sinistro
Davanti ai cancelli delle fabbriche
E gli studenti al fianco degli operai
 
 
 
 
 
 
La solidarietà operai-studenti nei primi anni ’70 fu una cosa vera e nuova. Non c’era solo l’incontro nei cortei che gremivano i grandi assi della scacchiera urbana. Decine, centinaia di quegli studenti si recavano all’alba davanti ai cancelli delle fabbriche, per volantinare, per aiutare gli operai a scioperare, a realizzare i picchetti. Nella geografia della zona industriale barese, la Firestone (poi Bridgestone) era uno snodo strategico: una delle destinazioni obbligate dei volantinaggi che si effettuavano a ogni cambio turno. Gli operai vedevano di buon occhio il sostegno degli studenti: per loro – che fino al ‘68 non avevano mai scioperato – era all’inizio più difficile gettarsi nella lotta, visto che perdevano giornate di paga  e rischiavano il posto di lavoro. Per gli studenti quello era un modo di trasmettere ai lavoratori la propria radicalità, la propria carica antiautoritaria, ma era anche un lavacro purificatore che consentiva a un potenziale “proletariato intellettuale” di negare il proprio substrato piccolo-borghese contaminandosi nell’abbraccio con i veri proletari, i veri produttori sfruttati in procinto di rivoluzionare l’economia e la società. Fu una scuola di vita e un amalgama culturale, anche se non abbatté del tutto le barriere sociali come l’utopia avrebbe preteso. Molti studenti e operai si ritrovarono nei movimenti, nei gruppi, nei sindacati, nei partiti. Nasceva una generazione impegnata, militante; nascevano anche una cultura civile e una tradizione di movimento che in molte forme si sarebbe trasmessa alle generazioni successive.  
 
P.M.
 
pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 12 marzo 2013