venerdì 6 dicembre 2013

Messala Corvino

L’ozio che fece nascere l’elegia


Scavi della villa di Messala Corvino a Ciampino
Neanche il tempo di rallegrarsi per il rinvenimento della grande villa romana di Ciampino, avvenuto l’estate scorsa e ampiamente divulgato dalla stampa alcuni mesi or sono, e già su quell’area archeologica – è notizia di questi giorni – incombono allarmanti progetti edificatori. La colata di cemento contro cui protesta la cittadinanza attiva si fermerà – sembra – a pochi metri dal sito, rovinandone irrimediabilmente il contesto paesaggistico. Sarà bene perciò tornare sull’importanza di quella scoperta per la conoscenza della civiltà e della letteratura latina.


A quanto pare il sito archeologico, dove sono stati rinvenuti statue e frammenti riferibili al mito di Niobe, è proprio quello della grande villa di Marco Valerio Messala Corvino. Sulle tubature del quartiere termale – riferiscono le cronache – è inciso il nome Valerii Messallae, il che è più di un indizio; gli archeologi stabiliranno la datazione della villa, sembra però difficile a questo punto immaginare che l’imponente struttura sia appartenuta ad altri che alla nobile famiglia di Messala (Messalla) Corvino, di antica origine repubblicana e perpetuatasi dopo l’età augustea, ma che nei 45 anni di Augusto (31 a.C. – 14 d.C.)  raggiunse l’apice del suo splendore.

L’interesse immediato verte sul ciclo scultoreo che rievoca la tragica vicenda di Niobe privata dei suoi figli, e sul nesso fra l’opera figurativa e il racconto che si legge nelle Metamorfosi di Ovidio, protegé di Messala Corvino. Ma noi approfittiamo per richiamare l’attenzione piuttosto sulla figura del protettore stesso, questo singolare concorrente e antagonista di Mecenate, nonché patrocinatore di una produzione letteraria di opposizione rispetto a quella augustea.  

Marco Valerio era un patrizio di eccellente formazione intellettuale, che da giovane non aveva esitato a difendere la tradizione senatoria schierandosi contro Giulio Cesare, l’inventore di una tirannide semilegale basata su parvenus, soldati e ceti popolari. Perciò Messala aveva combattuto a Filippi (42 a.C.) dalla parte di Bruto e Cassio, i tirannicidi. Dopo la sconfitta e la morte dei suoi capi, gli toccò scegliere fra gli unici due concorrenti rimasti in campo: Antonio e Ottaviano, entrambi eredi di Cesare. Optò per il secondo, che al dispotismo orientaleggiante del primo opponeva un formale rispetto per le istituzioni repubblicane. In questo scontro decisivo faceva comodo a Ottaviano allearsi con la nobiltà, perciò assunse il consolato in coppia con Messala Corvino nel 31 a.C., l’anno in cui la vittoria contro Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio gli spianò la via del principato.

Messala pareva soddisfatto da questo compromesso, e celebrò anche un suo corteo trionfale nel 27 a.C., l’anno in cui Ottaviano fu insignito dell’appellativo di Augusto. Ma poco dopo il rapporto fra i  due si ruppe. Nel 26 a.C. Augusto voleva cucire addosso a Marco Valerio una nuova carica da lui concepita: la prefettura dell’Urbe; Messala sembra accettare, ma subito si dimette, dichiarando che questa è una «magistratura illegale» (incivilem potestatem esse contestans); in effetti, non ve n’era traccia nelle istituzioni della repubblica. Da allora si ritira, di fatto, a vita privata, limitandosi a partecipare in sordina alle sedute del senato. Non era più il tempo di opposizioni aperte, ma se mai di larvati dissensi. Solo 24 anni dopo, nel 2 a.C., l’ormai vecchio Marco Valerio riassume un ruolo attivo prendendo la parola per proporre al senato di attribuire ad Augusto il titolo di Pater Patriae, e lo avrà fatto senza dubbio per un calcolo di convenienza. La sua famiglia finì con l’imparentarsi con quella del principe, e dalle propaggini nacque fra gli altri Valeria Messalina, la futura “imperatrice” moglie di Claudio.

Nel fratttempo, però, l’ozio dell’ex console aveva fatto fiorire un cenacolo intellettuale di tutto rispetto. Tanto per cominciare, al circolo di Messala Corvino si deve il più cospicuo gruppo che si sia conservato di testi latini scritti da una donna prima del cristianesimo: le poesie di Sulpicia (nipote di Messala). In secondo luogo, molto significativo è che in quell’entourage si sperimenti un genere poetico minore se non marginale, l’elegia, ben diverso dalla tragedia, dall’epica e dalla lirica praticate dagli augustei Vario Rufo, Virgilio e Orazio, cui è demandata la funzione di comunicare i valori fondanti del principato: l’impero, la patria, l’eroismo guerriero, la religione e la morale tradizionale. L’elegia si occupa invece di amori, di eros, di beghe fra amanti, di mitologie secondarie, di tormenti sentimentali e sensazioni che si provano aggirandosi per i sentieri di campagna o per i vicoli di Roma. Una letteratura disimpegnata: il che, all’epoca, è il massimo della presa di distanza dall’“impegno” che la cultura ufficiale richiede.

Fra l’altro, Messala Corvino componeva versi che però non ci sono pervenuti, così come non abbiamo le orazioni per le quali era famoso (di certo fu un oratore più bravo di Augusto, il quale leggeva i propri discorsi e per di più con tono monocorde). Il fiore di serra del suo circolo è l’elegiaco Tibullo, il poeta meno “schierato” che l’età augustea conosca, e il più esplicitamente pacifista di tutta la letteratura latina: ha orrore per la guerra, non vuole partire per una spedizione militare (sa di che si tratta, ne ha fatto la prova), e si interroga crucciato: «Chi fu quello che per primo costruì le orride armi? Fu un uomo feroce, fu un uomo proprio di ferro!» (Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? /Quam ferus et vere ferreus ille fuit!). Per contrastare l’egemonia di Messala in campo elegiaco, il suo grande competitore Mecenate arruola nel proprio circolo letterario il poeta rivale di Tibullo, il rampante Properzio, cui assegna il compito di scrivere le «elegie romane» riconducibili alla narrazione dell’ideologia augustea.

Poi arriva Ovidio, che ha 10-15 anni meno di Tibullo. Lui stesso riconoscerà in Messala Corvino un patronus, forse esagerando un po’: amico del figlio, frequenta il cenacolo dell’illustre aristocratico, si impratichisce nell’elegia e la rimaneggia a proprio uso e consumo, offrendo ai Romani un nuovo prodotto poetico “leggero” e disinibito, brillante e mondano, ormai del tutto post-augusteo, decisamente distante con la sua Arte di amare dall’austera e paludata ideologia del Padre della Patria. Il bello è che Ovidio è ben addentro nei salotti del principe, specie in quello di Giulia, figlia di Augusto. Ma ciò non gli evita la condanna all’esilio; anzi, forse è proprio tale vicinanza indiscreta a causarla, unitamente alla sua poesia politically uncorrect. E a nulla sarà valso il fatto che abbia prudentemente dedicato anche lui un po’ di rotoli cartacei all’ibrida «elegia romana», compilando nei Fasti il calendario delle festività latine. Neppure l’ex amico Messalino, uno dei mediocri figli del grande Messala Corvino, gli darà una mano per tornare in patria.

Pasquale Martino
Questo articolo è una versione ampliata di quella apparsa su
 «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 26 aprile 2013.


Appendice
Messalla Corvino a Varsavia


Palazzo Krasiński a Varsavia
Curiosamente, il più cospicuo monumento alla memoria di Marco Valerio Messala Corvino è un monumento moderno. Si tratta di un altorilievo raffigurante il trionfo del proconsole romano nel 27 a.C., che lo scultore barocco Andreas Schlueter realizzò per il frontone del palazzo Krasiński, costruito a Varsavia nella seconda metà del XVII secolo e restaurato dopo l’ultima guerra mondiale. I proprietari dell’edificio discendevano dal clan Korwin, ramificazione polacca della antica famiglia ungherese degli Hunyadi, la quale a sua volta si riconosceva erede del patrizio romano; questi, infatti, secondo una tradizione leggendaria, avrebbe posseduto vaste proprietà nei territori della Pannonia, lasciando ivi il seme del proprio lignaggio. Il principale esponente di tale discendenza romana sarebbe stato Mattia Corvino re di Ungheria e Boemia (1443-1490), accreditato come tale dall’umanista e storiografo italiano Antonio Bonfini (1427-1505), che visse alla sua corte.
P.M.

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