sabato 18 aprile 2020

Franco Martinelli


Storia del pilota partigiano che diventò pittore


Franco Martinelli, Soldati in ritirata
L’interesse per le vicende biografiche individuali sta alimentando uno dei filoni più proficui della ricerca sulla lotta di Liberazione in Italia. Ricostruire le biografie, far rivivere le persone nella drammaticità e concretezza delle loro scelte e dei loro percorsi, è tentare di comporre le innumerevoli tessere capaci di animare il grande mosaico collettivo della Resistenza. Per quanto riguarda Bari, l’acquisizione recente di maggiore spessore è forse la ritrovata figura di Giuseppe Zannini, morto a Mauthausen (di cui abbiamo scritto più volte su queste pagine nel 2017); e vanno ricordati i lavori di ricercatori dell’Ipsaic, nonché lo sforzo compiuto dallo storico salentino Ippazio Luceri, che ha pubblicato una sorta di dizionario di schede biografiche (migliaia) di partigiani pugliesi, in più volumi dei quali uno riservato a Bari e provincia. Viene alla luce ora – ne parliamo qui in anteprima – la storia di Franco Martinelli, che sua figlia Rita sta raccogliendo pazientemente attraverso il riordino del ricco archivio lasciatole dal padre. La ringraziamo per averci consentito di anticipare qui per sommi capi la vicenda su cui uscirà un volume da lei amorevolmente curato.  
     Franco Martinelli nasce a Turi nel 1917 e muore a Bari nel 1993. Nel 1940, quando l’Italia entra in guerra, è sottotenente dell’aeronautica. Nel 1941, pilota di aerei da ricognizione, compie numerose missioni esplorative in mare aperto, «dimostrando in ogni circostanza perizia e ardimento» (così la motivazione della medaglia di bronzo che gli viene conferita). Promosso tenente, è a Roma quando l’armistizio dell’8 settembre 1943 si abbatte con effetti disastrosi sulle forze armate italiane. Arrendersi o darsi alla fuga individuale verso casa? Resistere ai tedeschi o, al contrario, collaborare con loro e con i fascisti che rialzano la testa? Gravi alternative con le quali si misura allora la coscienza del singolo, poiché le catene di comando sono in crisi. La difesa armata di Roma contro l’occupante tedesco è abbandonata dagli stati maggiori, sebbene molti militari vi partecipino. Un gruppo consistente dell’aeronautica si riorganizza allora su base volontaria come un settore di punta di quello che diventerà il «Fronte militare clandestino della Resistenza» facente capo al colonnello Montezemolo martire delle Fosse Ardeatine; Martinelli prende parte attiva a questa vicenda, in cui il notevole contributo dell’aeronautica è meno conosciuto.
    
Il sottotenente Franco Martinelli nel 1941
Nel Sud occupato dagli Alleati si ricostruisce faticosamente ciò che è rimasto delle forze armate italiane; pur nella cobelligeranza, i velivoli della nostra aeronautica operano per volontà e agli ordini degli angloamericani soltanto al di fuori del territorio italiano. Ma a Roma tenuta in pugno dai nazisti è attiva dal novembre ’43 la rete clandestina dell’aeronautica con a capo il generale Umberto Cappa, organizzata in «bande», «gruppi» e «sottogruppi», uno dei quali è affidato alla guida di Martinelli e ne prende il nome: agisce da servizio informazioni militare, osserva i movimenti dei tedeschi e della polizia fascista, effettua sabotaggi, svolge attività logistiche; previene retate e deportazioni di lavoratori forzati, compie azioni di propaganda e riesce a individuare gli spostamenti notturni di un treno blindato tedesco che trasferisce pezzi di artiglieria. Azioni documentate in una relazione dattiloscritta del capogruppo di Martinelli, tenente colonnello Vincenzo Tabocchini, e in un volume stampato dall’aeronautica subito dopo la guerra. Rita ricorda che il padre – il quale non riservava che sobri e rari cenni a questa esperienza – soleva tuttavia compiere viaggi della memoria, veri pellegrinaggi nei luoghi della Resistenza romana, culminanti nella visita a via Rasella, dove i partigiani eseguirono la loro maggiore azione di guerra contro i tedeschi.  E in proposito va detto che anche l’aeronautica pagò un alto tributo di sangue alla feroce rappresaglia nazista, con 17 vittime delle Fosse Ardeatine. Il fronte militare clandestino – ha scritto Alessandro Portelli – fu «un movimento di colonnelli, tenenti e capitani» che agirono in condizioni materiali e psicologiche simili a quelle dei Gap partigiani, scambiando con questi informazioni e armi.
     Dopo la liberazione di Roma (giugno ’44) Martinelli rientra a Bari dove, congedato, si laurea in giurisprudenza. La sua coscienza antifascista è matura: nel giugno ’45 si iscrive all’Anpi, l’associazione partigiana appena costituita (tessera n. 155 della sezione provinciale barese, firmata dal segretario Raffaele Conte) con la qualifica di «patriota»; nel 1947 la Commissione laziale per il riconoscimento della qualifica di partigiano e patriota gli attribuirà l’ambita qualifica di «partigiano combattente». La sua visione politica lo orienta verso il partito d’azione; a Bologna, dove si reca per esercitare il giornalismo – e dove incontra la futura moglie – è in rapporti e in corrispondenza con personalità come il rettore Edoardo Volterra, vecchio antifascista e partigiano, poi giudice costituzionale, Cipriano Facchinetti e Cino Macrelli, entrambi azionisti e poi repubblicani, entrambi ministri con De Gasperi. Scambia lettere anche col comunista Giuliano Pajetta e frequenta il Fronte della Gioventù, nel quale il Pci è maggioranza. Dedicatosi infine alla famiglia, a Bari, dà spazio nondimeno alla sua vocazione artistica, di pittore e poeta. Ha lasciato manoscritti letterari e un gran numero di tele che ha esposto in più d’una mostra, al celebre Sottano, con Raffaele Spizzico e Guido Prayer. Alcuni disegni a china ritraggono momenti dolorosi della guerra, soldati sofferenti in ritirata, prigionieri suppliziati. Anche questa produzione figurativa Rita Martinelli intende presentare degnamente al pubblico. 

Pasquale Martino       
« La Gazzetta del Mezzogiorno», 18 aprile 2020
  
    

giovedì 2 aprile 2020

Un libro per smontare i razzisti


Fatti e detti del razzismo contemporaneo
analizzati da Annamaria Rivera


L’emergenza che ci è piombata addosso nel giro di poche settimane sembra averci assorbito totalmente, cancellando d’un colpo paradigmi e riferimenti del dibattito pubblico che parevano imprescindibili. I quali, tuttavia, non sono scomparsi, continuano a “lavorare” sotto traccia, e torneranno prepotentemente a coinvolgerci in prima persona come singoli e come collettività. La  lunga lotta al virus ne cambierà però le forme, il modo di manifestarsi, l’incidenza; perché, come si dice, nulla sarà come prima.
    Prendiamo per esempio il razzismo. Sembra ieri, ma è quasi oggi che il presidente di una regione ha sostenuto senza batter ciglio che «tutti abbiamo visto (ma tutti chi? e quando mai?) i cinesi mangiare topi vivi». Nel prologo della drammatica vicenda che stiamo vivendo divampò il pregiudizio contro i cinesi, i loro negozi e ristoranti. Pregiudizio che pare ora rientrato dietro le quinte (abbiamo ben altro si cui occuparci), ma c’è da stare certi che molti continuano a pensare e a dire che i cinesi «ci hanno infettato»: c’è sempre un altro, “diverso”, “straniero”, che è responsabile al posto nostro di ciò che ci capita. “Noi” non siamo mai responsabili.   
     Nessuno oggi ardirebbe dirsi «francamente razzista» come i dieci firmatari del Manifesto fascista del 1938; la tragedia della Seconda guerra mondiale ha fatto del razzismo – quello “ufficiale” – un tabù. Oggi piuttosto si dice: «non sono razzista ma…»; e dopo il “ma” arrivano tesi razziste di fatto. Conoscere il razzismo, dunque, nominarlo e decodificarlo. È uscito a Bari, a febbraio, per i tipi di Dedalo, l’utilissimo libro di Annamaria Rivera Razzismo. Gli atti, le parole, la propaganda (pp. 167, euro 17): una sorta di vademecum del “pensiero” razzista, del linguaggio e delle azioni che lo esprimono in modo palese o dissimulato. L’autrice è stata, a Bari, allieva del grande etnologo Vittorio Lanternari e in seguito docente di Etnologia e Antropologia culturale presso l’Ateneo barese; gli studi antropologici uniti a un attivismo militante l’hanno indotta per tempo a indagare il fenomeno razzista nelle sue manifestazioni politiche, sociali, culturali, fino a fare di lei una delle massime studiose in merito. Un libro da meditare dunque; nell’auspicio che la produzione e la circolazione libraria possano riprendere al più presto.
     Il primo pregio dell’agile volume consiste nella rigorosa dimostrazione che il razzismo è una costruzione storica dell’Europa moderna; all’idea originaria di “razza” come entità biologica (demistificata oggi dalla scienza) si è sostituita più di recente l’idea della diversità “culturale” come dato omogeneo e immutabile, quasi un’essenza primigenia: può riguardare una “etnia” descritta come organicamente denotata una volta per tutte, oppure una religione, come l’Islam, di cui vengono ignorate le evoluzioni storiche e le innumerevoli differenze interne, oppure un dato fenomenico come il colore della pelle concepito come rappresentazione fisica di una “civiltà” irrimediabilmente diversa (e in conflitto con la “nostra”) se non inferiore. Contro ogni visione «essenzialista», Annamaria Rivera sostiene «il carattere storico, processuale, fluido e artefatto delle identità e delle culture». 
     
Il maggior punto di forza del libro consiste, forse, nell’analisi delle forme lessicali, delle abitudini espressive, delle metafore coniate in ambito politico, saggistico, giornalistico e diventate d’uso comune, le quali sottendono la stigmatizzazione dei “diversi” oppure una visione riduttiva e fuorviante delle azioni riconducibili al razzismo. L’“ecologia delle parole” – afferma Rivera – è necessaria, anche se non sufficiente, per incominciare a smontare il discorso razzista. È il caso di definizioni come quelle di «extracomunitari» e «clandestini», che tendono a delegittimare un fenomeno sociale enorme fissandolo a una identità criminaloide. Ed è anche il caso di una espressione apparentemente neutra e descrittiva come «guerra fra poveri», che suggerisce una soggettività attiva dei poveri e una simmetria fra nativi e immigrati, dimenticando che i secondi sono in assoluto gli ultimi e i più deboli, ben lontani dal far guerra a chicchessia, e che i conflitti di nativi contro “stranieri” sono innescati quasi sempre dalla propaganda di agitatori politici (spesso neofascisti).
     Veniamo così all’ultimo punto (ma il libro comprende un ventaglio di temi molto più ampio): il valore performativo di certa propaganda politica, per cui l’enunciazione xenofoba e intollerante diventa immediatamente gesto, azione pratica. Opporsi a ciò è dovere civico, in particolare per chi si richiama all’antifascismo; che, per essere tale oggi – per essere cioè l’erede di una grande idea storica di democrazia sociale e di ampliamento dei diritti – non può che essere in primo luogo antirazzismo.

Pasquale Martino      
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 aprile 2020