giovedì 2 aprile 2020

Un libro per smontare i razzisti


Fatti e detti del razzismo contemporaneo
analizzati da Annamaria Rivera


L’emergenza che ci è piombata addosso nel giro di poche settimane sembra averci assorbito totalmente, cancellando d’un colpo paradigmi e riferimenti del dibattito pubblico che parevano imprescindibili. I quali, tuttavia, non sono scomparsi, continuano a “lavorare” sotto traccia, e torneranno prepotentemente a coinvolgerci in prima persona come singoli e come collettività. La  lunga lotta al virus ne cambierà però le forme, il modo di manifestarsi, l’incidenza; perché, come si dice, nulla sarà come prima.
    Prendiamo per esempio il razzismo. Sembra ieri, ma è quasi oggi che il presidente di una regione ha sostenuto senza batter ciglio che «tutti abbiamo visto (ma tutti chi? e quando mai?) i cinesi mangiare topi vivi». Nel prologo della drammatica vicenda che stiamo vivendo divampò il pregiudizio contro i cinesi, i loro negozi e ristoranti. Pregiudizio che pare ora rientrato dietro le quinte (abbiamo ben altro si cui occuparci), ma c’è da stare certi che molti continuano a pensare e a dire che i cinesi «ci hanno infettato»: c’è sempre un altro, “diverso”, “straniero”, che è responsabile al posto nostro di ciò che ci capita. “Noi” non siamo mai responsabili.   
     Nessuno oggi ardirebbe dirsi «francamente razzista» come i dieci firmatari del Manifesto fascista del 1938; la tragedia della Seconda guerra mondiale ha fatto del razzismo – quello “ufficiale” – un tabù. Oggi piuttosto si dice: «non sono razzista ma…»; e dopo il “ma” arrivano tesi razziste di fatto. Conoscere il razzismo, dunque, nominarlo e decodificarlo. È uscito a Bari, a febbraio, per i tipi di Dedalo, l’utilissimo libro di Annamaria Rivera Razzismo. Gli atti, le parole, la propaganda (pp. 167, euro 17): una sorta di vademecum del “pensiero” razzista, del linguaggio e delle azioni che lo esprimono in modo palese o dissimulato. L’autrice è stata, a Bari, allieva del grande etnologo Vittorio Lanternari e in seguito docente di Etnologia e Antropologia culturale presso l’Ateneo barese; gli studi antropologici uniti a un attivismo militante l’hanno indotta per tempo a indagare il fenomeno razzista nelle sue manifestazioni politiche, sociali, culturali, fino a fare di lei una delle massime studiose in merito. Un libro da meditare dunque; nell’auspicio che la produzione e la circolazione libraria possano riprendere al più presto.
     Il primo pregio dell’agile volume consiste nella rigorosa dimostrazione che il razzismo è una costruzione storica dell’Europa moderna; all’idea originaria di “razza” come entità biologica (demistificata oggi dalla scienza) si è sostituita più di recente l’idea della diversità “culturale” come dato omogeneo e immutabile, quasi un’essenza primigenia: può riguardare una “etnia” descritta come organicamente denotata una volta per tutte, oppure una religione, come l’Islam, di cui vengono ignorate le evoluzioni storiche e le innumerevoli differenze interne, oppure un dato fenomenico come il colore della pelle concepito come rappresentazione fisica di una “civiltà” irrimediabilmente diversa (e in conflitto con la “nostra”) se non inferiore. Contro ogni visione «essenzialista», Annamaria Rivera sostiene «il carattere storico, processuale, fluido e artefatto delle identità e delle culture». 
     
Il maggior punto di forza del libro consiste, forse, nell’analisi delle forme lessicali, delle abitudini espressive, delle metafore coniate in ambito politico, saggistico, giornalistico e diventate d’uso comune, le quali sottendono la stigmatizzazione dei “diversi” oppure una visione riduttiva e fuorviante delle azioni riconducibili al razzismo. L’“ecologia delle parole” – afferma Rivera – è necessaria, anche se non sufficiente, per incominciare a smontare il discorso razzista. È il caso di definizioni come quelle di «extracomunitari» e «clandestini», che tendono a delegittimare un fenomeno sociale enorme fissandolo a una identità criminaloide. Ed è anche il caso di una espressione apparentemente neutra e descrittiva come «guerra fra poveri», che suggerisce una soggettività attiva dei poveri e una simmetria fra nativi e immigrati, dimenticando che i secondi sono in assoluto gli ultimi e i più deboli, ben lontani dal far guerra a chicchessia, e che i conflitti di nativi contro “stranieri” sono innescati quasi sempre dalla propaganda di agitatori politici (spesso neofascisti).
     Veniamo così all’ultimo punto (ma il libro comprende un ventaglio di temi molto più ampio): il valore performativo di certa propaganda politica, per cui l’enunciazione xenofoba e intollerante diventa immediatamente gesto, azione pratica. Opporsi a ciò è dovere civico, in particolare per chi si richiama all’antifascismo; che, per essere tale oggi – per essere cioè l’erede di una grande idea storica di democrazia sociale e di ampliamento dei diritti – non può che essere in primo luogo antirazzismo.

Pasquale Martino      
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 aprile 2020