Fatti e detti
del razzismo contemporaneo
analizzati da Annamaria Rivera
analizzati da Annamaria Rivera
L’emergenza
che ci è piombata addosso nel giro di poche settimane sembra averci assorbito
totalmente, cancellando d’un colpo paradigmi e riferimenti del dibattito
pubblico che parevano imprescindibili. I quali, tuttavia, non sono scomparsi,
continuano a “lavorare” sotto traccia, e torneranno prepotentemente a
coinvolgerci in prima persona come singoli e come collettività. La lunga lotta al virus ne cambierà però le
forme, il modo di manifestarsi, l’incidenza; perché, come si dice, nulla sarà
come prima.
Prendiamo per esempio il razzismo. Sembra
ieri, ma è quasi oggi che il presidente di una regione ha sostenuto senza
batter ciglio che «tutti abbiamo visto (ma tutti chi? e quando mai?) i cinesi
mangiare topi vivi». Nel prologo della drammatica vicenda che stiamo vivendo
divampò il pregiudizio contro i cinesi, i loro negozi e ristoranti. Pregiudizio
che pare ora rientrato dietro le quinte (abbiamo ben altro si cui occuparci),
ma c’è da stare certi che molti continuano a pensare e a dire che i cinesi «ci
hanno infettato»: c’è sempre un altro, “diverso”, “straniero”, che è
responsabile al posto nostro di ciò che ci capita. “Noi” non siamo mai
responsabili.
Nessuno oggi ardirebbe dirsi «francamente
razzista» come i dieci firmatari del Manifesto fascista del 1938; la tragedia
della Seconda guerra mondiale ha fatto del razzismo – quello “ufficiale” – un
tabù. Oggi piuttosto si dice: «non sono razzista ma…»; e dopo il “ma” arrivano
tesi razziste di fatto. Conoscere il razzismo, dunque, nominarlo e
decodificarlo. È uscito a Bari, a febbraio, per i tipi di Dedalo, l’utilissimo
libro di Annamaria Rivera Razzismo. Gli
atti, le parole, la propaganda (pp. 167, euro 17): una sorta di vademecum
del “pensiero” razzista, del linguaggio e delle azioni che lo esprimono in modo
palese o dissimulato. L’autrice è stata, a Bari, allieva del grande etnologo
Vittorio Lanternari e in seguito docente di Etnologia e Antropologia culturale
presso l’Ateneo barese; gli studi antropologici uniti a un attivismo militante
l’hanno indotta per tempo a indagare il fenomeno razzista nelle sue
manifestazioni politiche, sociali, culturali, fino a fare di lei una delle
massime studiose in merito. Un libro da meditare dunque; nell’auspicio che la
produzione e la circolazione libraria possano riprendere al più presto.
Il primo pregio dell’agile volume consiste
nella rigorosa dimostrazione che il razzismo è una costruzione storica
dell’Europa moderna; all’idea originaria di “razza” come entità biologica (demistificata
oggi dalla scienza) si è sostituita più di recente l’idea della diversità “culturale”
come dato omogeneo e immutabile, quasi un’essenza primigenia: può riguardare
una “etnia” descritta come organicamente denotata una volta per tutte, oppure
una religione, come l’Islam, di cui vengono ignorate le evoluzioni storiche e
le innumerevoli differenze interne, oppure un dato fenomenico come il colore
della pelle concepito come rappresentazione fisica di una “civiltà” irrimediabilmente
diversa (e in conflitto con la “nostra”) se non inferiore. Contro ogni visione
«essenzialista», Annamaria Rivera sostiene «il carattere storico, processuale,
fluido e artefatto delle identità e delle culture».
Il maggior punto di forza del libro
consiste, forse, nell’analisi delle forme lessicali, delle abitudini
espressive, delle metafore coniate in ambito politico, saggistico,
giornalistico e diventate d’uso comune, le quali sottendono la stigmatizzazione
dei “diversi” oppure una visione riduttiva e fuorviante delle azioni riconducibili
al razzismo. L’“ecologia delle parole” – afferma Rivera – è necessaria, anche
se non sufficiente, per incominciare a smontare il discorso razzista. È il caso
di definizioni come quelle di «extracomunitari» e «clandestini», che tendono a
delegittimare un fenomeno sociale enorme fissandolo a una identità
criminaloide. Ed è anche il caso di una espressione apparentemente neutra e
descrittiva come «guerra fra poveri», che suggerisce una soggettività attiva dei
poveri e una simmetria fra nativi e immigrati, dimenticando che i secondi sono
in assoluto gli ultimi e i più deboli, ben lontani dal far guerra a
chicchessia, e che i conflitti di nativi contro “stranieri” sono innescati
quasi sempre dalla propaganda di agitatori politici (spesso neofascisti).
Veniamo così all’ultimo punto (ma il libro
comprende un ventaglio di temi molto più ampio): il valore performativo di
certa propaganda politica, per cui l’enunciazione xenofoba e intollerante
diventa immediatamente gesto, azione pratica. Opporsi a ciò è dovere civico, in
particolare per chi si richiama all’antifascismo; che, per essere tale oggi – per
essere cioè l’erede di una grande idea storica di democrazia sociale e di
ampliamento dei diritti – non può che essere in primo luogo antirazzismo.
Pasquale
Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 2 aprile 2020