La ferita che non si rimargina
La strage fascista, il golpe fallito, la montatura mostruosa
La figura esemplare di Giuseppe Pinelli
I funerali delle vittime della strage, il 15 dicembre 1969 a Milano |
Sarebbe stata una gran bella parte
quella di Sofia Loren, nel 1972, in un film prodotto da Carlo Ponti e diretto
da Giuliano Montaldo: la parte di Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, il
manovratore di treni anarchico ingiustamente fermato per la bomba di Piazza
Fontana e precipitato dalla finestra della questura di Milano la notte del 15
dicembre 1969. Ma non se ne fece niente: l’assassinio del commissario Luigi
Calabresi, sotto la cui responsabilità Pinelli fu trattenuto in questura,
oscurò l’indignazione per la sorte dell’innocente ferroviere. La vicenda del
film mancato (insieme con quella altrettanto significativa de I funerali dell’anarchico Pinelli, il
grande quadro del pittore Enrico Baj la cui esposizione venne annullata per lo
stesso motivo) è narrata da Enrico Deaglio nel bel libro da poco uscito, La bomba (Feltrinelli), rievocazione
accurata e dolente – fra le migliori che si vanno pubblicando nell’anniversario
– di tutta la storia della terribile strage, delle sue 17 vittime (onesti
contadini, piccoli imprenditori agricoli, commercianti) e della “diciottesima”,
Pinelli.
Ricorre dunque il mezzo secolo da un evento capitale, che fu un
discrimine nella storia dell’Italia repubblicana. La bomba esplosa nella Banca
dell’Agricoltura il 12 dicembre segnò il fragoroso emergere di una “strategia
della tensione” i cui tasselli si andavano disponendo nel quadro ferreo della
guerra fredda che doveva impedire una vittoria delle sinistre nel mondo
occidentale. E il momento fu topico: era l’Autunno caldo, quando grandi
scioperi di tutte le categorie di lavoratori stavano per ottenere risultati
contrattuali e sindacali mai visti prima. 35 anni di tormentata vicenda
processuale (di cui abbiamo parlato su queste pagine lo scorso 22 giugno) non hanno
punito i colpevoli, ma hanno sancito una verità giudiziaria e storica: la
strage fu attuata dal gruppo neofascista Ordine Nuovo, dai suoi capi Franco
Freda e Giovanni Ventura, non più processabili perché già assolti in via
definitiva. Essi ebbero complici e burattinai nei servizi segreti, che poi deviarono
le indagini verso la falsa pista anarchica, preparata nei mesi precedenti
tramite attentati “sperimentali” compiuti da Ordine Nuovo e attributi ad
anarchici.
La strategia della tensione trovava adesioni anche in settori politici
di governo e di destra, che miravano a un colpo di stato strisciante, alla
instaurazione di una “democrazia autoritaria”, se non a un vero golpe fascista come
quello del 1967 in Grecia. Il massacro del 12 dicembre avrebbe dovuto essere
ancora più tragico: c’erano altre quattro bombe a Milano e a Roma, che per caso
non provocarono morti. I massimi vertici politici del complotto si spaventarono
e fecero marcia indietro; l’imponente presenza silenziosa del popolo di Milano
ai funerali della vittime non si trasformò, al contrario di quanto i golpisti
speravano, in una violenta resa dei conti contro i “rossi”. L’adunata nazionale
del partito neofascista Msi a Roma, prevista il 14 dicembre, fu vietata. Ma
tutti gli sforzi vennero indirizzati a coprire le tracce del misfatto: perciò, gli
anarchici colpevoli. La caccia all’uomo dilaga in tutta Italia: anche a Bari la
stampa dà notizia di perquisizioni della polizia in quattro sedi della sinistra
extraparlamentare. Viene incolpato l’anarchico Pietro Valpreda, di cui la
sentenza definitiva stabilirà l’innocenza; viene fermato Pinelli, trattenuto tre
giorni illegalmente, sottoposto a stressanti interrogatori con tipici trabocchetti
polizieschi («c’è Valpreda che ha confessato!») e alla fine il ferroviere
esperantista già staffetta partigiana e appassionato lettore di Edgar L.
Masters muore cadendo da una finestra del quarto piano. Il questore Guida (ex
direttore del confino fascista di Ventotene) afferma subito, mentendo, che si
tratta di suicidio. Da sinistra si accusa la polizia di aver causato la morte
del ferroviere durante il fermo. Calabresi sostiene di essere stato assente
dalla sua stanza, dove si svolgeva l’interrogatorio, quando avvenne la caduta
di Pinelli; querela «Lotta continua», il giornale di estrema sinistra che invece
lo incolpa di quella morte. Ne segue un processo infuocato, finito in un nulla
di fatto. Dario Fo mette in scena la satira Morte
accidentale di un anarchico. Con una indignata lettera, centinaia di intellettuali
di tutta l’Italia contestano magistratura, polizia e Calabresi: tra le firme da
Bari si notano Vito Laterza, Vitilio Masiello, Nico Perrone. Si dirà poi che la
lettera fu la sentenza di morte per il commissario dell’Ufficio politico di
Milano: un altro falso. Denunciare la responsabilità di Calabresi, che avrebbe
dovuto proteggere la vita di un uomo da lui fermato, un uomo morto – in un modo
o nell’altro – mentre in era in mano alle forze dell’ordine, non significava
incitare all’assassinio. Che fu un crimine; attribuito, al termine di un altro
percorso processuale controverso, ai capi di Lotta continua.
La catena dello stragismo nero imperversò per un decennio. Fu anche il
decennio della risposta democratica, della controinchiesta (che coniò
l’espressione «Strage di Stato»), del nuovo antifascismo. Anni di piombo, si
dice, per colpa del terrorismo rosso. Ma anni di riforme, di cambiamento in
meglio della società italiana.
Pino Pinelli fu un uomo di sinceri e grandi ideali, universalmente
stimato. Nel 2009 per la prima volta un presidente della repubblica, Giorgio
Napolitano, invitò al Quirinale Licia Pinelli e rese omaggio al marito, «che fu
– disse – vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di
un’improvvisa, assurda fine». Dopo aver commemorato i morti per la bomba il 12
dicembre, Milano ricorderà Pinelli il 14, con una catena musicale da piazza
Fontana al palazzo della Questura. L’Italia democratica sarà lì.
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12
dicembre 2019
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