Le due città al palazzo di Giustizia
1978-1981: i neofascisti sul banco degli imputati*
Sembrava ancora nuovo fiammante il
giovane Palazzo di Giustizia di piazza De Nicola, quel 13 novembre 1978 quando
ebbe inizio uno dei dibattimenti destinati a segnare in qualche modo la storia
di Bari: il processo per l’omicidio di Benedetto Petrone. Il diciottenne
comunista era stato ucciso un anno prima, il 28 novembre ’77, in un agguato neofascista.
Il processo ebbe in verità un prologo, pochi mesi prima: il procedimento per
ricostituzione del partito fascista, a carico di militanti della sezione
Passaquindici del Msi, formazione erede della Repubblica di Salò. Prologo assai
significativo, per l’ampiezza dell’impianto accusatorio (il Pm Nicola Magrone collegava
in un disegno premeditato decine di episodi dello squadrismo nero
imperversante), per l’oggettivo carico politico che ricadeva sulle spalle dei
testimoni (fra i quali il solo a sostenere coraggiosamente il proprio compito
fu il segretario della sezione del Pci di Carrassi, l’intellettuale Raffaele
Licinio, mentre altri testimoni si sfilarono indebolendo l’accusa), e per la
conclusione (la sentenza respinse la tesi accusatoria, condannando alcuni
imputati soltanto per «attività fascista»): essa costituiva in effetti un
precedente che avrebbe condizionato il processo per il delitto Petrone.
Fra gli imputati del primo processo
c’era anche il latitante Giuseppe Piccolo, unico chiamato in causa per omicidio
nel successivo processo Petrone, mentre i 7 coimputati, in libertà provvisoria,
rispondevano solo di favoreggiamento. Il che già indica che si arrivava al
dibattimento dopo un’indagine e un’istruttoria lacunose: da una parte era
innegabile la «aggressione missina» (del Msi), come affermò il Pm Carlo
Curione, dall’altra non erano stati individuati i responsabili di concorso in
omicidio, che avevano spalleggiato Piccolo contro Petrone. I testimoni
neofascisti, presenti ai fatti, erano stati più che reticenti. Il dibattimento
non sciolse questo nodo; si indirizzò, anzi, nella direzione già indicata dal
processo-prologo: l’assenza di una responsabilità politica del delitto. Due
circostanze favorirono un tale esito. Innanzitutto il prolungamento e la
complicazione dell’iter processuale, rallentato da rinvii (in attesa della
estradizione di Piccolo che intanto era stato arrestato in Germania), dalle
ripetute richieste dilatorie della difesa: la richiesta di trasferire il
processo per legittima suspicione, che fu
respinta, e la richiesta di una perizia psichiatrica, che fu invece
accolta. L'attesa della perizia impegnò nove mesi e poi ci furono le scene di
impazzimento di Piccolo in aula e in carcere, e i ripetuti tentativi di
suicidio. Finalmente il dibattimento riprese il 2 marzo 1981, a più di tre anni
dai fatti. Il secondo fattore fu proprio la figura dell’omicida, “oggetto
misterioso” di questa vicenda. Personaggio inquietante, per molti versi
sconosciuto, venuto da un comune dell’Avellinese, di sicura fede fascista ma
implicato in altre attività losche oltre che in prove di infiltrazione nella
estrema sinistra, uomo imbarazzante assurto alla statura di condottiero sul
campo della folta squadra missina nella delittuosa impresa, spietato esecutore
di un omicidio e di un tentato omicidio (di Franco Intranò, compagno di
Benedetto). Aiutato con molta efficienza a espatriare, nel contempo additato
dai camerati come il “folle” e unico colpevole (in uno scontro ad armi pari,
arrivarono a sostenere alcuni!), indotto a recitare la parte dello squilibrato
di fronte alle telecamere in aula, e consegnato a una difesa quasi “d’ufficio”
(i legali Franza e Preziosi del foro di Avellino); laddove i sette coimputati,
appartenenti a famiglie della Bari “bene”, godono di un collegio prestigioso nel
quale figura un autentico principe del foro barese come Achille Lombardo Pijola,
oltre agli avvocati Plotino, Crocco e altri ancora.
Anche la parte civile poté
disporre di un collegio importante che prestò opera volontaria e gratuita: fra
gli altri Pietro Leonida Laforgia, Giuseppe Castellaneta, Mario Russo Frattasi
e un giovane Niki Muciaccia. Accusato dalla difesa di essere troppo
“militante”, il collegio di parte civile dové fronteggiare il progressivo
diradarsi di quella atmosfera di tensione civile che aveva accompagnato la
risposta della città al delitto e i primi passi dell’iter giudiziario
(manifestazioni, cortei, presidî fuori del Palazzo di Giustizia e nutrite
presenze di pubblico in aula si registrarono nelle prime fasi), e d’altro canto
la crescente, ferrea volontà di una classe dirigente moderata di chiudere
l’“incidente” derubricandolo a parentesi incresciosa e irrilevante da
dimenticare. Volontà che fece pressione anche sulla delicata posizione del Pci,
oggetto di polemica per un presunto uso politico del processo; e produsse
qualche incrinatura nel collegio di parte civile. Era in gioco la faccia
perbenista della città, con la sorte di quei «giovani figli di buona famiglia – così li definì l’avvocato
Montesano della difesa –
terrorizzati, dopo l'accaduto, da questo terribile impatto con i giovani di
sinistra, e dalla prospettiva delle conseguenze giudiziarie»; quelli che
invece, secondo Castellaneta,
avvocato della parte civile, erano «i nipotini degeneri della borghesia
bottegaia degli anni '50, che si incappucciano, che si armano, che occupano i
quartieri per il gusto della violenza fine a se stessa».
Il giorno della sentenza, 23 marzo 1981, lo spazio del pubblico in
aula era di nuovo gremito fino all’inverosimile. I «giovani di buona famiglia»
se la cavarono con pene irrisorie. Piccolo fu condannato a 22 anni, che
diventarono 16 in appello. Nell’agosto del 1984 si suicidò per davvero, in
carcere.
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 settembre 2019
* Nicola Signorile ha letto il testo e mi ha dato utili suggerimenti, dei quali lo ringrazio.