mercoledì 27 novembre 2013

Cesare


Il discorso di Critognato

De bello Gallico, VII, 77



Come è noto, Cesare riferisce di norma i discorsi dei protagonisti in oratio obliqua: ciò è considerato dai commentatori una garanzia di maggiore veridicità, perché permette allo scrittore di andare alla sostanza delle argomentazioni, senza costringersi a quell’invenzione retorica che è il portato inevitabile delle orazioni dirette. L’unica significativa eccezione all’uso generalizzato dell’oratio obliqua è la cospicua oratio Critognati, vero pezzo di bravura oratoria. Un testo che, fra l’altro, ha il pregio di documentare la maestria di Cesare oratore, tanto lodata dai contemporanei e da Quintiliano, ma a noi altrimenti sconosciuta, visto che i discorsi di Cesare non si sono conservati. La singolarità di questo testo – unita al fatto che il personaggio di Critognato è nominato solo qui – ha indotto a dubitare della sua autenticità e a sospettare una interpolazione. Tuttavia l’orazione appare assolutamente organica al contesto del racconto. Del tutto plausibile è la motivazione di questo passo addotta dall’Autore: egli è venuto a sapere della “eccezionale e spietata crudezza” della proposta di Critognato e ha ritenuto opportuno darle il dovuto rilievo. Ma vanno considerate anche altre due motivazioni implicite: dal punto di vista letterario e narrativo, il discorso acuisce la tensione drammatica nel momento piú critico della guerra gallica; inoltre, esso ha un chiaro contenuto ideologico, sul quale torneremo piú avanti.

Questi in sintesi i fatti. Al culmine della rivolta gallica (anno 52 a.C.), 80.000 guerrieri guidati da Vercingetorige sono asserragliati nella città di Alesia. I Romani hanno costruito attorno agli assediati una possente circonvallazione. Prima che i passaggi fossero completamente ostruiti, Vercingetorige è riuscito a far filtrare dei messaggeri spediti in tutta la Gallia per chiedere rinforzi. Consapevole di ciò, Cesare incomincia a far costruire una fortificazione attorno alla cinta d’assedio, in modo da reggere anche l’assalto esterno e poter combattere su due fronti. I Galli hanno calcolato di avere in Alesia cibo sufficiente per trenta giorni, o poco piú se il razionamento verrà ridotto; alla scadenza di questo termine si aspettano di ricevere l’armata di soccorso. Questa è effettivamente in preparazione, ma i tempi sono piú lunghi: alla fine le tribú galliche radunano 240.000 fanti e 8.000 cavalieri che, sotto il comando di Commio Atrebate, si dirigono verso Alesia. L’informazione di ciò raggiunge i Romani, che intensificano i lavori di protezione esterna; gli assediati invece non hanno notizia dell’evolversi della situazione, perché ormai ogni accesso ai messaggeri è bloccato. Poiché le scorte sono esaurite, viene riunito ad Alesia il consiglio dei capi per decidere il da farsi. All’inizio del consesso si confrontano due ipotesi contrastanti, le quali hanno però in comune la convinzione che gli aiuti, quand’anche arrivino, giungeranno troppo tardi: la prima ipotesi è di arrendersi ai Romani, la seconda di compiere una sortita disperata e tentare di rompere la linea di assedio. Sembra che quest’ultima proposta raccolga una larga maggioranza: è a questo punto che prende la parola Critognato, presentato come un nobilissimo e autorevole principe degli Arverni. Questa è la stessa tribú di Vercingetorige, e ciò lascia supporre che l’opinione di Critognato risponda al pensiero del comandante in capo (del quale non viene detto che si sia espresso durante il dibattito); ma, soprattutto, la proposta di Critognato rilancia nella sostanza la tattica di Vercingetorige: attendere a ogni costo l’arrivo dell’armata di soccorso, per impegnare i Romani da due parti con forze preponderanti. L’indizio che dà fiducia circa l’imminente arrivo – dice Critognato – è proprio la visibile accelerazione dei lavori di sbarramento esterno da parte dei Romani. Egli dunque propone di resistere strenuamente e, se il cibo è terminato, di nutrire gli 80.000 combattenti con le carni dei non combattenti: cioè di tutte le persone inadatte alla guerra. Vecchi, donne, bambini dovranno perciò soccombere onde i guerrieri sopravvivano. L’atrocità singolare della oratio, che tanto ha colpito Cesare, sta principalmente in questa proposta di cannibalismo. Ma la durezza è anche nell’approccio che Critognato mostra verso le altre due proposte. Non prende nemmeno in considerazione i sostenitori della resa; anzi, propone che vengano espulsi dal consiglio dei capi: una sorta di drastico provvedimento di salute pubblica. Discute solo con i fautori della sortita (che, a quanto dice, sono in maggioranza): ma li accusa di scarsa fermezza d’animo o, nel migliore dei casi, di avventatezza, di “stolta temerarietà”. Sostiene che il vero coraggio è di resistere pur in questa condizione penosa, mentre gettare via le vite dei guerrieri equivale a danneggiare irreparabilmente tutta la Gallia. Fa riferimento infine al precedente di antropofagia praticato dai Galli chiusi nelle loro fortezze durante la rovinosa calata dei Cimbri e dei Teutoni (è questo il solo luogo della tradizione in cui venga riportata tale notizia). L’intervento di Critognato è determinante per la decisione finale del consiglio (De bello Gallico VII, 78): il quale, pur non accettando la proposta piú estrema, quella del cannibalismo, stabilisce di evacuare dalla città l’intera popolazione non combattente, cioè tutta o quasi tutta la cittadinanza originaria di Alesia (i Mandubi), lasciando fra le mura solo i guerrieri gallici. In questo modo tutto il poco cibo rimasto verrà distribuito fra i combattenti, consentendo loro di resistere in attesa dei soccorsi. Non è un provvedimento meno crudele: tranne che i Galli non sperino nella pietà dei Romani, che si convincano a nutrire gli espulsi (come ipotizza Cassio Dione); cosa che, ovviamente, non accade. I Romani non sono da meno, diffidano di questa massa che si accalca davanti al campo e hanno da preservare i loro rifornimenti. Cesare non dice, per reticenza, che cosa avvenne degli sventurati; ma si può immaginare, come ha fatto Cassio Dione, che morirono tutti di fame nel tratto fra le mura e il vallo romano. 
Questi i contenuti essenziali del discorso di Critognato. Il resto – la costruzione delle argomentazioni, il pathos, l’espressione, le figure retoriche – è creazione letteraria, come sempre nella storiografia antica, dove la materia delle allocuzioni originarie è solo lo spunto per l’esercitazione oratoria degli storici. Ma perché – è lecito domandarsi – l’intera orazione, nella forma e nel contenuto, non dovrebbe essere stata inventata di sana pianta da Cesare? Si può rispondere che la pura invenzione di concetti attribuiti ai personaggi storici è profondamente estranea al metodo di Cesare. Egli omette, enfatizza, contestualizza a modo suo, distorce, ma non inventa dal nulla. C’è una seconda obiezione: come avrebbe fatto Cesare a sapere del discorso di Critognato? Le notizie dal campo nemico provenivano, com’egli stesso spiega, specialmente dai disertori. Ma questo dibattito avvenne in una città strettamente assediata, per di piú in un consesso appartato: non era un’assemblea popolare, perché queste assemblee non si facevano in Gallia De bello Gallico VI, 1, 3: plebes nullo adhibetur consilio) se non all’inizio di una guerra (De bello Gallico V, 56). Sono possibili però diverse risposte. A dare notizia del dibattito potrebbero essere stati dei prigionieri eminenti dopo la vittoria finale di Cesare; magari soprattutto coloro che nel consiglio sostennero la resa, al fine di distinguere le loro responsabilità da quelle degli intransigenti come Critognato e Vercingetorige. Oppure potrebbero averlo fatto quelli che erano stati evacuati da Alesia, ai quali una qualche motivazione del loro destino doveva essere stata data (persino come conforto per non aver subito il destino peggiore di essere mangiati dai guerrieri); i quali, giunti fin sotto il vallo per implorare aiuto, potrebbero aver raccontato queste cose ai Romani per convincerli che essi erano delle vittime e non un pericolo.

È evidente il valore ideologico del discorso. In primo luogo Cesare intende rimarcare, come di consueto nelle rappresentazioni dell’‘altro’, il tratto di irriducibile ‘diversità’ barbarica che è agli antipodi della humanitas greco-latina, e che, ovviamente, si rivela soprattutto nella proposta di antropofagia. In secondo luogo – ed è questo l’aspetto pú interessante – lo scrittore compie uno sforzo di elaborazione ideologica che in qualche modo è in contrasto con il precedente assunto della diversità barbarica. Egli tenta infatti di penetrare nel punto di vista del nemico, di rappresentarne vivacemente le ragioni, che consistono soprattutto nell’aspirazione alla libertà, unita alla coscienza di possedere leggi e istituzioni autonome, e nella critica dell’imperialismo romano in quanto spietata macchina di asservimento dei popoli: due volte, nel discorso di Critognato, ricorre la parola libertas, due volte compare il binomio iura / leges e quattro volte ricorre la parola servitus (la schiavitú che i Romani impongono), accompagnata dagli aggettivi turpissima, perpetua, aeterna. Una servitú irreversibile, la piú ignobile che si possa immaginare. Come ha giustamente osservato L. Canali (Cesare senza miti, Torino, 1969, p. 71), è proprio l’acuta sensibilità politica di Cesare a consentirgli di immedesimarsi nell’avversario e di dare dignità alle sue motivazioni: che sono in contraddizione insanabile con quelle di Roma (delle quali non è mai messa in dubbio la prevalenza), ma non indegne di essere nominate; anche perché la gagliardia degli ideali di resistenza dei popoli attaccati conferisce maggiore gloria alla fatica dei vincitori. Cesare apre cosí la serie notevole di "orazioni del nemico" in cui si cimenteranno gli storici latini, e che avrà i suoi esiti salienti nella lettera di Mitridate in Sallustio e nella tacitiana orazione di Calgaco.

Pasquale Martino
da: Cesare, Antologia di passi tratti dal De bello Gallico e dal De bello civili, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2006

Immagini: Il Galata che uccide se stesso e la moglie, particolari: Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps, Roma.