Il libro-inchiesta Le due città fu pensato e
scritto in poco più di due mesi, dal settembre al novembre del 1978, e fu
pubblicato alla vigilia del primo anniversario del delitto Petrone. Il progetto
maturò all’interno di un gruppo di parecchie decine di giovani (i più grandi
dei quali erano trentenni), che avevano, tutti quanti, vissuto «i giorni di
Benedetto Petrone» ed erano, all’epoca dei fatti, militanti del Movimento
Lavoratori per il Socialismo, una organizzazione della sinistra extraparlamentare,
filiazione del Movimento Studentesco della Statale di Milano e di altre
organizzazioni regionali. Usciti dal Mls nei mesi estivi del 1978, avevano dato
vita alla Libreria Cooperativa, una sorta di centro polivalente che voleva
essere a un tempo libreria, copisteria, associazione culturale e casa editrice.
Il primo volume pubblicato dalla cooperativa fu, appunto, Le due città.
Ci lavorò materialmente un collettivo di cinque-sei
persone, che raccolsero la rassegna stampa e realizzarono alcune interviste. In
questo ambito fu esaminato e discusso il dattiloscritto dei capitoli man mano
che questi venivano stesi e poi dati alle stampe. I materiali dell’inserto
fotografico furono scelti fra le
moltissime foto che circolavano; l’indicazione degli autori fu omessa un po’
per superficialità e un po’ perché si riteneva che tutto facesse parte di un
grande epos collettivo e fondamentalmente anonimo. Molti scatti prescelti erano
di Giuseppe (Fidel) Belviso, il quale a buon diritto ebbe a lamentarsi sommessamente
con i compagni della cooperativa per non essere stato citato. Gli ultimi giorni
furono convulsi: la correzione delle bozze fu troppo rapida e alcuni refusi
fastidiosi sopravvissero.
Non c’è notizia, a nostra memoria, di quante copie
furono stampate e quante vendute. Certo è che il libro si può considerare un
successo, peraltro imprevisto, per il suo «valore d’uso» rivelatosi duraturo: è
rimasto l’unica ricostruzione sufficientemente ampia dei fatti, cui hanno
attinto nei decenni seguenti quanti erano interessati a conoscere la vicenda,
compresi numerosi giornalisti. Le copie del libro, divenute nel frattempo
introvabili, sono passate di mano in mano e spesso sono state integralmente
fotocopiate, in una sorta di circuito underground che ha contribuito a
perpetuare la memoria storica. Più volte, negli anni, si è parlato di una
riedizione senza che questa avesse a realizzarsi.
Il libro è senza dubbio datato. Non certo perché è
un testo nettamente orientato a sinistra, ma
perché, in primo luogo, risente troppo della fresca e particolare
militanza politica dei suoi autori, la quale tende a invadere il punto di vista
della narrazione, nonostante sia pure evidente lo sforzo di assumere un’ottica
più imparziale e di tenere conto di tutte le visuali all’interno della
sinistra. In secondo luogo, a distanza di tanti anni si avverte la mancanza,
nel libro, di un capitolo finale che nel novembre 1978 non poteva ancora essere
scritto, ma che oggi non può essere ignorato: quello della vicenda giudiziaria
relativa al delitto.
Il primo processo Petrone si aprì il 13 novembre
1978, proprio nei giorni in cui appariva il libro. Imputati erano il solo Giuseppe
Piccolo (latitante) per l'omicidio di Benedetto e per il ferimento di Franco
Intranò, mentre altri sette fascisti (in libertà provvisoria) erano imputati
soltanto per favoreggiamento. Pochi giorni dopo, la notizia dell’arresto di
Piccolo in Germania determinava il rinvio del processo a nuovo ruolo, in attesa
dell’estradizione. Questa fu disposta dalle autorità tedesche soltanto nel
settembre del 1979 e il nuovo procedimento, apertosi a novembre, andò avanti
per un paio d’anni fra perizie psichiatriche e tentativi di suicidio del
principale imputato. Il dibattimento, svoltosi nel marzo del 1981, si concluse
con la condanna di Piccolo a 22 anni e a pene molto miti per i coimputati.
Nell’estate del 1984 nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto un suicidio
riuscito tolse di mezzo Giuseppe Piccolo.
Non è questa la
sede per esaminare i contenuti e le dinamiche del processo (materia che non è
mai stata studiata né raccontata). Basti dire che, a nostro avviso, non fu resa
giustizia a Petrone, a Intranò e alla città, perché non furono individuate le
responsabilità morali e politiche del delitto. «Non è stato un omicidio politico»:
la frase che chiude il libro riassume efficacemente la chiave di lettura che
della vicenda fu data a Bari negli anni seguenti. In questo senso, davvero, le
città continuarono ad essere due: quella borghese, tradizionale e «di destra»,
aliena dal conflitto sociale e politico, la quale considerava i giovani
neofascisti (escluso il «forestiero» e ambiguo Piccolo) propri rampolli troppo
esuberanti; e quella «di sinistra», apparsa negli anni ’60 e ’70, conflittuale
e minoritaria, che si identificava nel
giovane Petrone quale modello di impegno civile e politico per il cambiamento.
Certo, fra le
due città vi sono state incursioni reciproche, contaminazioni e convivenze. È
in questi interstizi che si dipana la storia di lunga durata della lapide
commemorativa, testimone di una verità che l’«altra» città non ha mai voluto
riconoscere, fino ad anni recenti. Il libro racconta, nel finale, quando e come
la lapide fu apposta. Può essere interessante sapere che un paio d’anni dopo
essa fu distrutta da un atto vandalico, presumibilmente compiuto da fascisti.
Ne fu immediatamente ricollocata una uguale nello stesso posto, ma il testo era
leggermente cambiato. La firma «gli antifascisti di Bari» fu modificata con
«gli antifascisti e i democratici di Bari», e la dizione «18 anni, operaio,
comunista», sorta di sintetico e razionale curriculum biografico, fu sostituita
da quella descrittiva e lievemente più banale di «operaio comunista 18 anni».
Da allora la lapide non è stata più toccata. Davanti ad essa in ogni anniversario
gruppi di studenti e di giovani di varie formazioni politiche di sinistra hanno
manifestato e deposto fiori.
Da qualche anno anche l’Amministrazione Comunale di Bari
e poi la Regione Puglia hanno fatto proprio questo appuntamento. Il Comune ha
intestato una strada a Benedetto Petrone, qualificando il giovane, nella targa toponomastica, come
«vittima della violenza neofascista»; il che è avvenuto contro il parere della
Società di Storia Patria, che considera inappropriato il termine «neofascista»
(ma d’altra parte non approva nemmeno il termine «fascista», per la buona
ragione che «il fascismo è finito nel 1945»). La targa di via Benedetto Petrone
– una strada decentrata – è già stata danneggiata da ignoti*.
Nei «giorni di
Benedetto Petrone» tanti giovanissimi, attoniti, si ritrovarono in una
moltitudine mai enumerata prima, sconfinata, a perdita d'occhio. E provarono in
un modo mai provato prima il senso della morte e il valore della vita. Attoniti
come tanti anni dopo i loro figli, i giovanissimi di Genova di fronte alla
morte di Carlo Giuliani e al «macello» della scuola Diaz.
Anche quei
giorni, «i giorni di Benedetto Petrone», corrono il rischio di essere aspirati
nella superficialità delle evocazioni e nell’almanacco delle rievocazioni degli
«anni di piombo», risucchiati in una irresponsabile censura della violenza
della politica, una censura comminata pure alle vittime perché esse non
subirono "volentieri" l'aggressione. Un azzeramento delle differenze e delle
storie individuali e collettive dentro il clamore di una lotta tra Stato e
terrorismo che ha minimizzato o addirittura cancellato la lotta che ha opposto
– dentro le scuole, le fabbriche e i centri sociali – il movimento antifascista ed operaio al
terrorismo brigatista. La stessa lotta combattuta contro il neofascismo e le
sue connivenze dentro lo Stato, il sistema di collaborazione tra le
organizzazioni clandestine della destra, insieme a esponenti di primo piano del
Movimento sociale italiano, e le strutture deviate e semiclandestine dei servizi
segreti, di Gladio e della loggia P2, così come sono state accertate dalla
Commissione parlamentare d’indagine sulle stragi presieduta dal senatore
Pellegrino.
Questo libro, di
nuovo editato trent’anni dopo, si rivolge anche al giovane di allora che, come
Aramis in Vent’anni dopo di Alexandre Dumas, oggi risponde: «Ah, caro D’Artagnan, noi
fummo costretti a ingoiare anche l’ingratitudine dei grandi, lo sapete!».
Pasquale Martino
Nicola Signorile
Immagini: 1) Manifestazione del 29 novembre 1977, dopo l'assassinio; 2) funerali di Benedetto Petrone; 3) lapide in Piazza Libertà .