Diodoro


Ritratti e personaggi
dalla Biblioteca storica, libri XXI-XL a cura di P. Martino
Sellerio, Palermo, 2000



Sofonisba

G. Francesco Caroto, Sofonisba
Sofonisba, che era stata sposata prima a Massinissa, poi a Siface, e infine, caduta in prigionia, s'era ricongiunta con Massinissa, era donna di aspetto avvenente, dai modi scaltri e capace in tutto e per tutto di assicurarsi servizievoli complici­. Poiché sosteneva le parti dei Cartaginesi, da veemente amante della patria qual era, non passava giorno che non incalzasse il suo uomo, pregandolo ossessivamente di ribellarsi a Roma. Infor­mato di ciò Siface rivelò a Scipione ogni cosa di quella donna e gli raccomandò di guardarsi da lei. Poiché anche Lelio gli diceva le stesse cose, Scipione ordinò che la donna fosse condotta al suo cospetto; e siccome Massinissa lo scongiurava di recedere, lo rimproverò piuttosto aspramente. Allora Massinissa, saggiamente cautelandosi, gli chiese di ritirare gli uomini incaricati di prendere la donna: si recò lui stesso alla tenda di lei e, offertole un veleno, la obbligò a berlo.

                                                                                                                                                                                                  XXVII, 7



Filopemene

P. P. Rubens, Filopemene riconosciuto da una vecchia 
Filopemene, il generale degli Achei, era uomo non comune per intelligenza, per capacità strategica e per altre qualità, il quale consacrò tutta la vita a un'attività politica irreprensibile. Fu ripetutamente stimato degno del comando militare, per quarant'anni ebbe la direzione degli affari di governo e più di ogni altro contribuì alla prosperità comune della confederazione achea; amministrò la cosa pubblica in maniera sempre rispettosissima verso il privato cittadino, e per il suo valore si guadagnò la positiva considerazione dei Romani; ma nel momento estremo incontrò una sorte ingrata. Dopo la morte, tuttavia, come per una sorta di provvidenza divina, ottenne gli onori di un dio in ripa­razione della disgrazia subita alla fine della vita. Oltre alle onoranze collettive deliberate dalla Lega Achea, la città patria gli innalzò un altare e istituì un sacrificio annuale in suo onore, e insegnò ai giovani a cantare encomi ed inni al suo valore.

XXIX, 18



Annibale

C. F. Beaumont, Il giuramento di Annibale
Annibale, il primo fra tutti i Cartaginesi per talento militare e per grandiosità delle imprese, non ebbe mai sedizioni nel suo esercito: anzi, grazie a una peculiare lungimiranza, riuscì sempre a tenere uniti e a far convivere armonicamente elementi che erano diversissimi per natura e divisi dalla eteroge­neità delle lingue. Allo stesso modo, mentre fra le milizie straniere è consuetudine, con motivazioni le più banali, disertare e passare al nemico, nessuno sotto il suo comando osò mai fare altrettanto. Pur avendo sempre grandi eserciti da rifornire, non si trovò mai in difficoltà per mancanza di denaro o di riforni­menti; e, cosa la più incredibile di tutte, i soldati stranieri che militavano con lui non erano da meno dei cittadini nell'at­taccamento al comandante, anzi di gran lunga li superavano. Pertanto, esercitando un buon comando sui soldati, ottenne anche buoni risultati pratici: muovendo guerra alla più grande potenza, mise a ferro e fuoco l'Italia più o meno per diciassette anni, restando imbattuto in ogni scontro. Con tali e così grandi impre­se vinse i comandanti di tutto il mondo, che, visto l'ingente numero di truppe sgominate da lui, nessuno osava più dargli battaglia faccia a faccia. Molte città espugnò a viva forza e dette alle fiamme; e le genti d'Italia, più d'ogni altra popolose, ridusse alla penuria d'uomini. Alla base della realizzazione di queste famose imprese, di cittadino c'erano solo i fondi stanziati, ma le truppe erano una mescolanza di mercenari e di alleati; e pur trovandosi di fronte avversari che la compattezza e l'omogeneità rendevano estremamente ostici, ebbe il sopravvento grazie all'intelligenza e alla virtù strategica sue: e così dette a tutti la dimostrazione che, come nel corpo è la mente, così in un esercito è il comandante che fa il buon esito.

XXIX, 19



Scipione

Pompeo Batoni, Scipione l'Africano
Scipione, ancora giovanissimo, seppe condursi insperabilmente bene in Spagna, debellando i Cartaginesi; e nel momento critico sottrasse la patria all'estremo pericolo. Con acuta inventiva, senza combattere e senza correre rischi, obbligò Annibale, imbattuto, a lasciare l'Italia. Finalmente, affrontò Annibale sino a quel momento invitto, e grazie al suo valore e all'abilità mili­tare lo sconfisse in una grande battaglia campale, piegando così Cartagine.
A causa delle sue grandi imprese Scipione appariva più forte di quanto fosse tollerabile alla dignità della patria. Infatti, imputato da loro di un reato passibile di pena di morte, quando prese la parola disse questo soltanto: che non si addiceva ai Romani emettere una sentenza contro di lui, al quale gli accusa­tori dovevano il fatto di aver conservato la libertà di parola. Il popolo, profondamente scosso dalla forza di questo discorso, abbandonò l'assemblea e l'accusatore, lasciato solo, se ne tornò a casa disprezzato. Un'altra volta, durante una seduta del senato, quando era sopravvenuta una necessità di denaro, e il questore rifiutava di aprire l'erario, Scipione prese le chiavi per aprirlo lui stesso: perché era a lui che si doveva anche il fatto che i questori potessero chiudere l'erario. In un'altra occasione, qualcuno in senato gli chiese di fornire il resoconto dei fondi da lui presi per le spese militari; egli ammise di avere quel resoconto, ma rifiutò di fornirlo: perché non era tenuto a sottostare ad indagini come chiunque altro. Poiché l'accusatore non demordeva, mandò a chiedere al fratello il registro e, fattolo portare in senato, lo stracciò e ingiunse al suo accusatore di fare la somma utilizzando i brandelli. Rivolto poi agli altri senatori, domandò come mai gli chiedessero conto dei tremila talenti che aveva speso, mentre dei diecimilacinque­cento talenti che ricevevano in entrata da Antioco non gli chiedevano conto, e non calcolavano il fatto di trovarsi padroni, praticamente in un colpo solo, dell'Iberia, della Libia e anche dell'Asia. A queste parole né l'accusatore né alcuno dei senatori fiatarono:  tanto  potente risultò la franchezza di  quel discorso.

XXIX, 20-21


Gaio Gracco

J.-B. Suvéee, Cornelia e i suoi figli
La massa popolare era tutta con lui, non solo quando assunse la carica, ma già quando era candidato e prima ancora che si candidasse. E al suo ritorno dalla Sardegna gli andò incon­tro, e quando sbarcò dalla nave lo accolse con acclamazioni e applausi: fino a tale dismisura la massa popolare gli era devota.

Gracco sosteneva nelle sue orazioni al popolo che avrebbe abolito il potere della nobiltà e avrebbe instaurato il potere popolare; e, riscuotendo credito da tutti gli ordini sociali, ebbe in costoro non più dei compagni che si fossero uniti alla sua lotta, ma quasi degli artefici e iniziatori della sua temera­ria impresa. Ciascuno di loro, sedotto dalle aspettative del suo particolare, era pronto ad affrontare qualsiasi pericolo per dare sostegno alle leggi proposte, come a diretta difesa del proprio vantaggio. Sottraendo la funzione giudicante ai senatori e designando come giurati i cavalieri, fece sì che nello stato l'ele­mento più basso comandasse su quello più elevato; spezzando la concordia preesistente fra senato e ordine equestre dispose la plebe all'odio verso entrambi; costruendo il proprio dominio sulla discordia generalizzata e usando il pubblico erario per spese sconvenienti e inopportune e per elargire favori, si pose al centro dell'attenzione di tutti; gettando le province in pasto alla sfrontatezza e all'avidità degli appaltatori delle imposte pubbliche, attiròsull'impero un giusto odio da parte dei suddi­ti; allentando con le sue leggi l'antica e austera disciplina dell'esercito, introdusse la disubbidienza e l'anarchia nella vita pubblica: giacché, infatti, chi disprezza i suoi comandanti si rivolta anche contro le leggi, e da questi comportamenti scaturiscono una fatale illegalità e uno sconvolgimento nella vita della città.

Gracco giunse a tal grado di dispotismo e di superbia che, mentre la plebe aveva deciso di esiliare Ottavio da Roma, egli lo lasciò libero, spiegando al popolo che faceva questo come favore a sua madre, che aveva fatto intercessione presso di lui.

Diciassette tribù respingevano la legge e altrettante la approvavano. Quando fu aggiunta nel computo la diciottesima, vi fu la maggioranza di un solo voto a favore della legge. Poiché l'esito della decisione popolare era affidato a uno scarto così ristretto, Gracco era in ansia come se fosse in gioco la sua stessa vita; e quando seppe di aver vinto grazie all'aggiunta di un solo voto, esclamò con gioia: "La spada pende sulla testa dei miei avversari! Quanto al resto, quel che la Fortuna vorrà, accetteremo".                    

Gracco con i molti sostenitori insisteva nella sua contrapposizione; ma la sua battaglia risultava sempre più perdente, e i tentativi andati a vuoto contraddicevano ogni aspettativa, finché egli cadde in uno stato di rabbioso furore. Riuniti i congiurati a casa sua, e seduto a consiglio con Flacco, decise di prendere le armi per avere partita vinta sugli avversari e di usare la forza contro i supremi magistrati e il senato. Perciò invitò tutti quanti a portare la spada sotto la toga e a seguirlo da vicino, stando attentissimi ai suoi ordini. Poiché Opimio si trovava a consiglio sul Campidoglio, si lanciò in quella direzio­ne col suo seguito di malintenzionati; ma trovò il tempio già occupato e una folla di nobili radunata, e perciò si ritirò sotto il portico dietro al tempio, agitatissimo e in preda alle Furie.
Ormai era fuori di sé, e quando un certo Quinto, che aveva familiarità con lui, si gettò alle sue ginocchia scongiurandolo di non commettere una violenza irreparabile contro la patria, egli, che si comportava oramai da tiranno, lo fece cadere di faccia a terra: e ai suoi seguaci ordinò di farlo fuori; e quello sarebbe stato l'inizio della vendetta contro gli avversari. Il console, sgomento, informò il senato dell'assassinio e dell'at­tacco contro di loro.

Dopo la morte di Gracco per mano del suo proprio schiavo, accadde che Lucio Vitellio, uno dei suoi amici, il quale per primo arrivò presso il suo cadavere, lungi dal soffrire per la sventurata fine di quell'uomo, gli tagliò la testa e se la portò a casa, dando prova di un'inventiva tutta particolare al servizio della sua avidità, oltre che di una ferocia senza pari. Il console infatti aveva annunciato che, a chi gli avesse portato la testa, l'avrebbe pagata a peso d'oro. Orbene Lucio aprì un buco nella nuca e attraverso quello estrasse il cervello e vi infuse piombo liquefatto: egli dunque alla consegna della testa ricevet­te l'oro, ma per il resto della sua vita fu condannato come traditore dell'amicizia. Allo stesso modo, furono fatti fuori i Flacchi.      


XXXIV-XXXV, 24-25, 27, 28a, 29