sabato 22 febbraio 2014

Giuseppe Pinelli

«Quella sera a Milano era caldo...»



Della Ballata del Pinelli circolano parecchie versioni testuali, disponibili nel web, con differenze anche sensibili. Composta di getto nell’ambito del movimento anarchico dopo la morte di Giuseppe Pinelli avvenuta nella notte del 15 dicembre 1969, sulla musica de Il feroce monarchico Bava (1898), è stata rimaneggiata da diversi autori; poi, diventata una canzone popolare fra le più eseguite, ha subito ulteriori modificazioni.
Questa è la versione che ricordo, indelebile nella memoria (ma, in un paio di passi, ricostruita grazie al ricordo di alcuni compagni), precedente al delitto Calabresi e alla fioca verità giudiziaria che comunque confermava la totale innocenza di Pinelli. Il testo è molto simile ma non identico a quello riportato da Giuseppe Vettori (Canzoni italiane di protesta, Newton Compton, Roma, 1974). Pubblico questa canzone come testimonianza e documento. Essa rappresenta uno stato d’animo e un pensiero di quella fase storica. 
Va detto (se ce ne fosse ancora bisogno) che l’assassinio di Luigi Calabresi non può essere in nessun modo considerato una forma se pure distorta di giustizia; e nemmeno può compendiare una storia di ribellione e di lotte: e questo è vero non solo oggi, ma lo fu anche allora, quando la maggioranza della stessa sinistra rivoluzionaria e del movimento non pensò che l'omicidio del commissario fosse attribuibile a una propria componente, ma lo interpretò (con ingenuo schematismo) come un ulteriore passo nella strategia della tensione.  «La vendetta più dura sarà» voleva dire sfiducia nella giustizia "borghese" e speranza in quella "proletaria", che avrebbe affermato la verità attraverso le lotte («questa lotta non avete fermato»). Se qualcuno intese quelle parole come una virtuale condanna a morte - che un giorno qualcun altro avrebbe potuto eseguire - l'ambiguità non venne sciolta.  Ma opinione prevalente a sinistra era che un gesto oscuro, tale da ritorcersi facilmente contro il movimento, non fosse farina del proprio sacco: «un compagno non può averlo fatto»   
Vanno infine ricordate alcune verità semplici e incontrovertibili. Un cittadino (per di più innocente) fu trattenuto nella questura in stato di fermo per due giorni in violazione dei suoi diritti. Un cittadino entrò vivo in un ufficio di polizia e ne uscì morto. Di questi fatti gravissimi – comunque siano andate le cose – c’è una responsabilità morale e politica dei dirigenti della questura, che non può essere elusa e resta indelebile.   

P.M.
16 dicembre 2013



Quella sera a Milano era caldo,
Calabresi nervoso fumava:
«Tu Lograno, apri un po' la finestra».
Ad un tratto Pinelli cascò.

«Commissario io ce l'ho già  detto,
le ripeto che sono innocente:
anarchia non vuol dire bombe,
ma giustizia nella libertà».

«Su confessa, indiziato Pinelli,
c’è Valpreda che ha già parlato:
è l'autore di questo attentato
ed il complice, è certo, sei tu!»

«Impossibile! – grida Pinelli –
Un  compagno non può averlo fatto,
e l'autore di questo delitto
tra i padroni bisogna cercar».

«Poche storie, indiziato Pinelli,
questa stanza è già  piena di fumo;
se tu insisti apriam la finestra,
quattro piani son duri da far».

Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo, che caldo faceva.
È bastato aprir la finestra,
ad un tratto Pinelli cascò.

L'hanno ucciso perché era un compagno,
non importa se era innocente;
«Era anarchico e questo ci basta!»
disse Guida, il fascista questor.

C'è una bara e tremila compagni,
stringevamo le nostre bandiere,
noi quel giorno l'abbiamo giurato:
«Non finisce di certo così».

Calabresi e tu Guida assassini,
se un compagno ci avete ammazzato
questa lotta non avete fermato,
la vendetta più dura sarà.

Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo, che caldo faceva.
È bastato aprir la finestra,
una spinta, e Pinelli va giù.

mercoledì 19 febbraio 2014

Salvatore Domenico Lugarà

Filologo, intellettuale, maestro


Ho incontrato per la prima volta Salvatore Lugarà nel settembre del 1983, quando era già un rinomato docente del Socrate, il liceo presso il quale prendevo allora servizio. Mi impressionò la familiarità con cui si rivolse al nuovo arrivato accogliendolo nell’estraneo ambiente di lavoro. Di quella prima conversazione non rammento gli argomenti precisi: mi rimane impresso lo stato d’animo di chi parla con una persona che gli sembri di conoscere da molto tempo, alla quale lo avvicini un’istintiva e cordiale sintonia.

Lugarà aveva allora 42 anni; era arrivato al Socrate nel 1976, poco dopo la nascita del «secondo liceo classico» di Bari.
Nato nel 1941 a Gioia Tauro, aveva compiuto gli studi superiori a Palmi, conseguendo la maturità classica nel 1959: il suo romanzo, Tutto giusto, rievoca con vivacità appassionata gli anni belli della formazione etica e culturale. In questo libro sofferto Lugarà non dissimula il rammarico per l’eccessiva severità di comportamento della famiglia e specie del padre, inflessibile lavoratore; ma riconosce ai genitori i sacrifici affrontati perché i figli potessero studiare, a cominciare da lui stesso, il primogenito. Dopo il diploma, scartata la possibile alternativa di Messina, si trasferisce a Bari con i familiari per iscriversi all’Università. Si lascia alle spalle l’amata Calabria. Non vi tornerà quasi piú, o lo farà molto raramente. Solo negli ultimi anni di vita i rientri nella terra patria diverranno piú frequenti, quando riallaccerà a Palmi i legami con il gruppo dei compagni di scuola da lui ritratti nel romanzo.
Laureatosi in lettere classiche nel 1965, incomincia subito a insegnare, prima come supplente, a Ostuni, poi con incarico annuale e triennale, a Monopoli; qui fa la conoscenza della collega Teresa De Benedictis, docente delle medesime materie, che diventerà sua moglie e diletta compagna. Nel frattempo consegue l’abilitazione ed entra in ruolo dal 1971, insegnando al liceo classico Sylos di Bitonto e, per cinque anni, al Casardi di Barletta. Infine, trentacinquenne, ottiene il trasferimento al Socrate, dove resterà diciotto anni, fino al 1994, lasciandovi un segno incisivo e duraturo. Si può dire, anzi, che del Socrate egli sia stato uno dei padri fondatori, sia per il prestigio del suo insegnamento che conferiva qualità e spessore al neonato liceo, sia perché fu attivamente impegnato nella lotta per dotare la nuova scuola delle indispensabili strutture. Si ricorda il giorno in cui, seguito dai suoi alunni, spostò i banchi dalla malmessa sede provvisoria fino al vicino immobile di via Guido Dorso, la nuova sede non ancora consegnata dal Comune alla scuola; e lí si mise a fare lezione.

I giudizi sulla sua figura di docente, da parte dei tanti allievi – alcuni di essi, oggi, a loro volta docenti del Socrate – convergono nell’evocare binomi convenientemente antitetici: autorevolezza e umanità; severità e dolcezza; serietà e generosità. Tutti ricordano le sue lezioni sempre interessanti, spesso divertenti, ricche di spirito e di ironia. Austero e paterno al tempo stesso, era «un grande professore» – tale è la definizione che gli si adatta – capace di trasmettere la passione per la letteratura. Adorato dalle sue classi, serbava fedeltà a un codice deontologico rigoroso e inderogabile. Un termine abusato, «professionalità» (e nel suo caso si trattava di professionalità altissima), sembra riduttivo e non rende pienamente giustizia all’ingente magistero di Lugarà. Egli amava definirsi un «artigiano»: in questo termine c’è tutta la sua complessità umana e professionale; la sua riservatezza, il suo minimalismo ironico e sornione, proprio di chi è pienamente conscio e pago di un non comune valore e non ha bisogno di ostentarlo; odiava l’ostentazione sebbene la sua personalità forte lo caratterizzasse come un protagonista. Era un artigiano, cioè un lavoratore e, insieme, un detentore di una raffinata tecnica: di un saper fare, oltre che di un sapere; ma un saper fare libero, creativo, indipendente.
Al primo posto c’erano per lui la serietà e il rigore cognitivo. Nella prefazione a Baden, il libro di versioni greche da lui pubblicato (Laterza, Bari, 1996), in un discorso apparentemente “tecnico” e puramente esplicativo, capita di leggere notazioni di energica efficacia come le seguenti: «[quella che si richiede è] una visione didatticamente chiara ed accurata dei vari fenomeni, del tutto coerente con l’uso che di questo volume dovrà essere fatto nella dura quotidianità della scuola, e lontana, per quanto possibile, da deleterie approssimazioni e facilonerie»; «l’impegnativo lavoro necessario per impadronirsi decentemente dei meccanismi della traduzione dal greco…». Lo studio è da lui inteso come un duro lavoro quotidiano, i cui primi nemici sono la superficialità e il pressapochismo. Come ogni artigiano consapevole, peraltro, e come ogni lavoratore professionale, Lugarà era ben cosciente della sua funzione produttiva e sociale, nonché dei suoi diritti. La materia sindacale stimolava in lui una partecipazione attiva, ragionata e dialogante. Dette un notevole contributo personale di discussione e di elaborazione negli anni 1986-88, allorché s’andò sviluppando un impetuoso movimento rivendicativo degli insegnanti che approdò a qualche risultato non da poco.
Anni che coincisero con la sua malattia e convalescenza. L’infarto di Lugarà fu un episodio memorabile nella storia del Socrate. Novembre 1986: appena entrato in aula, durante la prima ora, si rende contro che un grave malore lo sta attaccando; davanti agli occhi esterrefatti degli alunni lascia la classe, cosa mai prima accaduta, e va in presidenza, dove chiede al capo d’istituto, Giorgio Coluccia, di essere condotto immediatamente in ospedale. Il preside lo accompagna personalmente con la sua automobile, e solo questa tempestività gli salva la vita. La diagnosi medica infatti descrive le sue condizioni come «gravissime».
Ma Lugarà supera la crisi, si riprende. Durante i mesi di assenza si consulta con la sua giovane supplente: ne nasce un’amicizia profonda e duratura, tanto che Salvatore sarà il testimone di nozze della collega (anche lei, oggi, docente del Socrate). Trascorre la convalescenza raccogliendosi nello studio e nella scrittura; redige un promemoria sui problemi sindacali dei docenti: la coscienza professionale e l’innata ripulsa delle ingiustizie lo avvicinano all’idea della rivolta contro il misero trattamento della categoria, alla lotta dura dei comitati di base e dell’appena nata costola dei Cobas, la Gilda, proprio per l’ideale suggestivo di antica “corporazione”, di maestria artistica e di alta responsabilità professionale. Ma Lugarà è troppo “anarchico” per affiliarsi a un’organizzazione, per lasciarsi inquadrare: radicalmente critico, è insofferente verso tutto ciò che tende a configurarsi come gruppo di potere, come nuova gerarchia.

Nello stesso periodo incomincia a scrivere il suo romanzo autobiografico, che pubblicherà nel 1990 (Tutto giusto, Milella, Lecce), con lo pseudonimo «Tore De Vincenzo» (Vincenzo era il nome di suo padre). Si distinguono in lui ancora una volta il riserbo e il pudore: questo lavoro di scrittura intima è inteso quasi come un’evasione, un’applicazione a latere rispetto all’impegno professionale; qui egli si narra e si confessa liberamente, sia pure sotto altro nome. Negli anni successivi, appaiono l’uno dopo l’altro i suoi lavori critici e filologici. Oltre al libro di versioni già citato, pubblica i commenti a due orazioni di Lisia, Per l’uccisione di Eratostene (Loffredo, Napoli, 1992) e Per Mantiteo (ivi, 1996). Ammirevoli sono il rigore, la chiarezza e la sobrietà degli apparati di note e degli approfondimenti di carattere filologico, storico, biografico che accompagnano il testo. Prepara inoltre l’abbozzo di una grammatica greca che non potrà condurre a termine: a quattordici anni dal primo attacco di cuore, un secondo e fulmineo malore lo porterà via, nel 2000, a soli 59 anni di età. Curata e sviluppata da valorosi colleghi, la grammatica uscirà postuma presso Cappelli (Bologna, 2009). Restano altri scritti e abbozzi inediti, ancora da esplorare.
La competenza linguistica di Lugarà era senza alcun dubbio eccezionale. Si trattava di un’assoluta padronanza, che gli consentiva non solo di “parlare” in greco e in latino, ma anche, per esempio, di scomporre e sezionare con alcuni studenti un passo di Tucidide particolarmente complicato – come gli sentii fare una volta – e concludere con meditato convincimento che in quel caso nemmeno il grande scrittore aveva chiaro che cosa intendesse dire.
Si sarebbe indotti a supporre che un filologo di tale perizia ed erudizione si sia laureato con una tesi su un frammento controverso di un poeta raro. Niente affatto: Lugarà si laurea discutendo una tesi di storia delle religioni, relatore Ambrogio Donini; l’argomento verte su Martin Lutero. Salvatore univa la preparazione filologica a una visione culturale di ampio respiro, da intenditore della letteratura moderna, da amante dell’arte e della musica. Il tema Lutero non cesserà di alimentare il suo interesse: nel 1991, nel numero 1 dei «Quaderni del Socrate», pubblica un breve scritto sul riformatore tedesco, in cui si sofferma sulle parole sarcastiche da lui rivolte al re Enrico VIII, le stesse riservate all’imperatore Claudio nella Apokolokyntosis di Seneca, aut regem aut fatuum nasci oportet, «si nasce o re o scemo». E qui, preso atto di quanto piacesse a Salvatore l’irrisione del potere, è anche il caso di accennare con discrezione al suo inquieto rapporto con la religiosità: agnostico, disponibile alla ricerca; anticlericale, amico di religiosi intelligenti. Soprattutto, difensore del libero pensiero, diffidente verso tutte le strutture che si configurano in maniera chiesastica, come ideologie opprimenti, sul piano culturale e su quello politico, come le due “chiese” che negli anni Cinquanta – l’epoca della sua formazione – vede contrapporsi, «chierico rosso, o nero», per dirla con Montale. Ma nel romanzo racconta la sua presa di posizione di studente a sostegno di un professore del liceo di Palmi, perseguitato dalle autorità scolastiche per le sue idee comuniste (che, pure, erano vigorosamente discusse e contestate da quel giovane che lo difendeva).
È assai significativo che l’umanità e la dolcezza di Lugarà si rivelassero in modo disteso anzitutto con gli studenti. Nei rapporti umani si definiva un orso o un istrice; era orgoglioso, insofferente, tanto incline a mettere in tavola generosamente la sua cordialità quanto pronto ad adombrarsi di fronte a comportamenti che riteneva sbagliati o ingiusti nei suoi confronti. Con lui ci si poteva facilmente scontrare. Ricordo quando stroncò immediatamente, con gelida ira, una battuta certo innocente ma stupida che riproponeva lo stereotipo di una Calabria identificata con la criminalità.
Dopo quasi un ventennio, il «grande professore» lasciò la scuola che aveva fatto nascere, per trasferirsi presso il liceo Orazio Flacco dove prestò servizio negli ultimi anni; una scelta favorita dalla vicinanza di questo istituto alla sua abitazione, ma originata anche da disarmonie e logoramenti prodottisi nelle relazioni di lavoro. Un’incrinatura che non si poté o non si volle sanare. Restò l’amaro in bocca per questo divorzio: quello di un padre che si staccava dalla creatura; o della creatura che non badava al distacco del padre.
È anche vero però che, istituendo il certamen a lui intitolato e valorizzando con intelligenza il lascito di un non dimenticato insegnamento, il Socrate ha saputo tributare il riconoscimento dovuto a questo intellettuale e professore, sua nobile guida nell’età eroica della nascita e della crescita.

Pasquale Martino
2011

http://www.liceosocratebari.gov.it/Download/risorse/Agon/salvatore_lugara.pdf




sabato 15 febbraio 2014

Resistenza in Puglia


Nata dalla Resistenza
A proposito dello Statuto regionale


È in corso il dibattito sulla proposta avanzata da numerosi gruppi politici del Consiglio regionale (una maggioranza, sulla carta) di modificare l’articolo 1 dello Statuto della Puglia, ripristinando il riferimento alla Resistenza fra i principi ispiratori. Cosa vecchia, dirà qualcuno. Cosa inutile, oltretutto, visto che l’attuale statuto già menziona – con formulazione invero un po’ contorta ma non equivoca – «i valori che hanno informato quanti si sono battuti per la Liberazione e per la riconquista della democrazia nel nostro Paese». Tuttavia, è bene rammentare che l’art. 1 dello statuto originario (del 1971) recitava con ammirevole chiarezza: «La Puglia è regione autonoma nell’unità della Repubblica italiana nata dalla Resistenza». Quando si lavorò al nuovo statuto, nel 2003, la commissione del consiglio regionale a ciò preposta redasse una bozza che confermava tale riferimento; questo venne soppresso e sostituito come sopra nella versione definitiva licenziata dal consiglio nel 2004. Dunque la domanda vera è: perché cancellare la parola Resistenza? Che, per inciso, figura nei nuovi statuti di molte regioni compresi l’Abruzzo e la Campania.
Senza interferire nella discussione delle forze politiche, si potrà nondimeno trarre spunto da questa vicenda per svolgere qualche considerazione. La storiografia e il linguaggio comune hanno da tempo sancito l’uso del termine Resistenza per indicare l’opposizione popolare al nazifascismo durante la Seconda guerra mondiale, in tutta l’Europa, in forma di lotta armata, di movimento politico e di azione non violenta. La pur tardiva partecipazione italiana alla Resistenza europea ha consentito di attenuare in parte la grave responsabilità del nostro Paese (per colpa di chi lo dirigeva, il fascismo e la monarchia) nello scatenamento del conflitto mondiale dal quale è uscito drammaticamente sconfitto. Perciò la Resistenza è il nostro incipit. Potranno passare decenni ma essa resterà tale, finché sconvolgimenti comparabili (non certo da auspicare) impongano nuovi inizi che abbiamo la stessa sostanza storica e la medesima forza di un agire collettivo. È giusto e inevitabile che la Resistenza sia oggetto di un rinnovamento di studi, che ne vengano indagate le contraddizioni e le ombre, la tragicità del suo essere anche guerra civile. Ma ciò non cambia di una virgola il fatto che la libertà (di tutti, anche di chi ha combattuto dall’altra parte), la Repubblica e la Costituzione democratica siano figlie della Resistenza.  Come si sa, le parole sono importanti. Liberazione – un’altra parola importante – non è un sinonimo di Resistenza: essa indica l’obiettivo perseguito, il traguardo raggiunto dai resistenti.


12 settembre 1943: fucilazioni di Barletta
Veniamo alla Puglia. Da anni ormai si assiste a un risveglio di memoria, a una riscoperta della storia resistenziale di una regione che non è stata affatto estranea alla scena della lotta partigiana. Protagonista di questo recupero è stata spesso la scuola, accompagnata dalla meritoria fatica di istituti come l’Ipsaic, dell’Anpi, di gruppi giovanili e di non poche amministrazioni comunali, nonché dal rilievo che questo stesso giornale ha dato ai momenti di un tale percorso. Uno sforzo che, coronato dalla medaglia d’oro alla città di Bari nel 2006, oggi si profonde ancora nelle commemorazioni degli eventi del 1943-1945, di cui ricorre il 70° anniversario. Non possiamo ricordarli tutti in questa sede. Basti dire degli eccidi per mano tedesca e degli scontri armati con la Wehrmacht disseminati lungo la Puglia; del Congresso dei CLN a Bari, prima assemblea libera a cui guardavano come a una nuova speranza le forze partigiane (proprio mentre il re e il governo Badoglio qui trasferiti la ostacolavano in tutti i modi); delle molte centinaia di pugliesi che hanno combattuto nelle formazioni partigiane, le cui storie individuali vanno emergendo grazie a un lavoro di ricerca che ha ancora parecchia strada da compiere; dei tanti caduti pugliesi, inclusi quelli uccisi alle Fosse Ardeatine e nella Risiera di San Sabba. E ancora: c’è un contributo pugliese alla resistenza dei militari che si opposero ai tedeschi in Grecia e in Iugoslavia, a quella delle centinaia di migliaia che furono internate in Germania, dove moltissimi morirono e sono sepolti: altre storie in gran parte da indagare; altre memorie che riguardano ogni comune della Puglia, piccolo o grande.  C’è il ruolo svolto da Radio Bari come voce dell’«Italia che combatte», quotidianamente ascoltata dai resistenti nelle regioni occupate. C’è l’accoglienza ai profughi, la nuova solidarietà internazionale che nasceva dalle macerie dell’Europa hitleriana. Per tacere della preparazione antifascista prima dell’8 settembre 1943. Uomini e donne di questa regione sono stati co-protagonisti di una dolorosa e grande pagina di riscatto nazionale: un segno indelebile dell’italianità popolare che ricominciava i suoi passi come nuovo Risorgimento. Una storia in cui la moderna Puglia democratica ha la sua radice. 

Pasquale Martino  

«La Gazzetta del Mezzogiorno» 15 febbraio 2014 

venerdì 14 febbraio 2014

l'Unità


Un giornale nella storia italiana
I 90 anni de "l'Unità"


Il primo numero de "l'Unità"
Il 12 febbraio 1924, 90 anni or sono, il primo numero de «l’Unità» inaugurava un’avventura fra le più straordinarie del Novecento. Quel giornale usciva in un momento di tempesta, mentre la violenza squadrista e il fascismo governativo smantellavano la libertà. Tre quotidiani comunisti, fra cui «L’Ordine nuovo», erano già stati chiusi. Eppure, nel progetto di Antonio Gramsci, il nuovo quotidiano non era un «organo del partito comunista» (definizione che arriverà in seguito), e non solo per un tentativo di sottrarlo alla repressione: quell’«unità» era il programma di una sinistra di classe più avanzata, comprendente la frazione socialista di cui facevano parte Di Vittorio e Li Causi; unità dei lavoratori, di operai e contadini, di Nord e Sud. Era l’ispirazione gramsciana, che interpretava in modo originale, nella situazione italiana, la linea dell’Internazionale Comunista. I primi passi del quotidiano furono accompagnati con fervore dal dirigente sardo: a Milano, dove «l’Unità» aveva sede, Gramsci dormiva su una brandina negli uffici del giornale. Ma il fondatore dovrà presto separarsi dalla sua creatura. E mentre il grande intellettuale, chiuso dietro le sbarre del carcere di Turi, compone i Quaderni che sono oggi studiati in tutto il mondo, «l’Unità» viene stampata con mezzi di fortuna in sottoscala e scantinati, o è trasportata da Parigi in Italia nel doppiofondo di valigie: fa sentire fra mille peripezie e pericoli una voce antifascista proprio quando il regime sembra trionfare.  
Nel novembre del 1942 «l’Unità» clandestina esce col titolo profetico: «Il 28 ottobre è stato l’ultimo anniversario fascista che vede Mussolini al potere». E tuttavia il 25 luglio e poi l’8 settembre del ’43 si incomincia un’altra storia, di lotta armata contro il nazifascismo, che il quotidiano del Pci contribuisce a narrare. Poi viene il tempo della democrazia repubblicana, della ricostruzione dalle macerie, del “partito nuovo” di Palmiro Togliatti: ancora un’Italia tutta da vivere e da raccontare. Ormai la vicenda del quotidiano s’intreccia con quella di un mondo popolare di incredibile vitalità: un «Paese nel Paese», come dirà Pasolini. Ci sono i diffusori dell’«Unità», centinaia di lavoratori che dedicano le loro domeniche alla vendita militante (la polizia di Scelba li perseguita denunciandoli come «ambulanti abusivi», mentre poi i tribunali sono costretti ad assolverli); ci sono le feste de «l’Unità», una kermesse popolare che si snoda lungo lo Stivale fin nei paesini, portando canzoni, idee e salsicciotti. Per un certo periodo c’è perfino un’associazione degli Amici de «l’Unità» con tanto di tessere e congressi. Certo, il rapporto fra il quotidiano e il Pci è strettissimo, e a dirigerlo sono chiamate di volta in volta individualità di primo livello come Amendola e Ingrao; e poi Alfredo Reichlin, che dalla Puglia arriva ai vertici del partito continuando a coltivare intensi rapporti con la sua terra, e un giovane Massimo D’Alema che nella regione del Tacco ha svolto un lungo tirocinio di direzione politica. Ma «l’Unità» non era soltanto portavoce di un partito: era anche un giornale vero, che faceva inchiesta e denuncia, e nel quale si formarono professionisti bravissimi. Per esempio Luigi Pintor, che lo stesso Berlinguer dichiarerà di considerare il miglior editorialista italiano ancora dopo la radiazione di Pintor dal partito e la nascita del «Manifesto». Negli anni ’60, con il «Paese Sera» di Roma e «l’Ora» di Palermo, «l’Unità» dette vita a un giornalismo di sinistra coraggioso e battagliero contro la speculazione edilizia e la corruzione; resta memorabile l’inchiesta di Tina Merlin sulla diga del Vajont.
Ma si distinsero anche le corrispondenze dai teatri di guerra e di resistenza (l’Algeria, la Spagna franchista, la Grecia dei colonnelli, il Vietnam). Meno efficace «l’Unità» era invece nei ritratti dell’Urss e del socialismo reale, temi in cui la venatura critica doveva farsi largo in mezzo a una costante tendenza apologetica. E fu in difficoltà anche a svolgere la politica italiana negli anni ’70, per il cammino incerto scelto dal Pci e per la concorrenza dei nuovi quotidiani di estrema sinistra, poi de «la Repubblica». Ciononostante a metà del decennio ’70 «l’Unità» arrivò a essere il secondo o il terzo quotidiano più venduto in Italia, nei giorni feriali (mentre in quelli festivi diventava il primo per effetto della diffusione militante). E ciò non era soltanto prodotto di una tendenza politica, ma anche di un giornalismo che funzionava. Nonché dei pezzi fulminanti del corsivista Fortebraccio (Mario Melloni).

Giusi del Mugnaio (a destra) 
Una rete efficiente di redazioni periferiche assicurò per molto tempo un’informazione regolare e pressoché unica sulle condizioni sociali e sulle vertenze sindacali in Italia. Negli anni ’60-’70 fu attiva la redazione in Puglia e in Basilicata; molti hanno viva memoria del corrispondente Italo Palasciano, cronista e narratore del mondo bracciantile e contadino. Vi si formarono pubblicisti che poi migrarono altrove. Ma qui vogliamo ricordare una giovane emiliana che venne a Bari negli anni ’80 a lavorare per «l’Unità» seguendo l’amore e la passione politica: la meteora Giusi Del Mugnaio, che fece in tempo a farsi ammirare per l’intelligenza, la modernità del sentire, la serietà dell’impegno professionale, e perse la vita in un terribile incidente stradale. Future personalità della politica pugliese e lucana si cimentarono sulle colonne del quotidiano: fra gli altri Piero Di Siena, che sarà dirigente del Pci di Basilicata e senatore, Nichi Vendola, futuro presidente della Regione Puglia, e Peppino Caldarola, che dell’«Unità» diventerà direttore, quando, però, negli anni ’90, il giornale non sarà più «organo» del Pci, perché il partito non c’è più. Da allora ha inizio un storia molto diversa: quella di un quotidiano politico che cerca sostegno nell’editoria privata, che è diretto e fatto da giornalisti “puri”. Che combatte in un mercato difficile e ha le sue vertenze di lavoro con i dipendenti. Ma che mostra orgogliosamente nella testata la paternità di Gramsci. Ed è ancora qui a raccontarsi e a raccontare il Paese. Buon compleanno «Unità».  

Pasquale Martino


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 febbraio 2014

giovedì 13 febbraio 2014

Machiavelli

I Discorsi, non solo il Principe
nella famosa lettera del Segretario fiorentino
Santi di Tito, Machiavelli
La lettera che Niccolò Machiavelli mandò a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 – cinquecento anni fa – è uno dei testi più famosi della letteratura italiana. Vi è descritta una comune giornata del suo autore, ritiratosi in esilio presso il suo podere di San Casciano poco distante da Firenze. Dopo aver servito per una quindicina d’anni la repubblica fiorentina come alto funzionario, Machiavelli è stato estromesso dagli affari di Stato al ritorno dei Medici, che hanno ripreso il potere da cui erano stati allontanati nel 1494. Considerato un personaggio troppo compromesso col regime repubblicano, e sospettato di tramare contro la restaurazione medicea, Machiavelli è stato in carcere e ha subito torture. Liberato, ha lasciato la città per togliersi dalla vista dei nuovi-vecchi padroni. Scrivendo all’amico, riferisce le sue attività quotidiane con il piglio apparentemente svagato di un’ordinaria corrispondenza: le visite al podere, l’oziosa caccia ai volatili, il troppo tempo trascorso nell’osteria, a giocare con gli avventori e a «ingaglioffirsi», quasi infierendo sulla propria cattiva sorte.  Ma poi la lettera cambia tono: la sera, rientrato a casa, l’ex segretario fiorentino si spoglia dei panni quotidiani e indossa quelli «reali et curiali»; si immerge per ore nella lettura di antichi scrittori di storia, nutrendosi  «del cibo che solum è mio». E impara. Confronta la storia antica con quella del proprio tempo, vissuta  in qualità di osservatore privilegiato e in parte attore. Da ultimo, come per  caso (ma in realtà con intenzione) afferma nella lettera di aver preso appunti («ho notato») di quelle sue letture, finendo col comporre un opuscolo. In questo modo un po’ autoironico e un po’ seriamente commosso  Machiavelli annuncia di avere scritto Il principe:  quella che resterà la sua opera più nota, acclamata e criticata, che oggi non manca nei bookstore di tutto il mondo.
Il trattato politico di cui si celebra il quinto centenario fu integrato però in tempi successivi, quando vennero aggiunte la famosa esortazione finale a liberare l’Italia «dai barbari» (il giogo di regni stranieri), e la dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici. Nel frattempo Machiavelli si è convinto che la casa medicea, tornata al potere e inoltre detentrice del papato con Leone X (Giovanni de’ Medici), sia nelle condizioni di generare quel «principe nuovo» che unificherà l’Italia. È una previsione dettata più dall’ottimismo della volontà che dal pessimismo dell’intelligenza: la nascita di uno Stato unitario – che negli auspici di Machiavelli metterebbe l’Italia alla pari con le grandi monarchie nazionali europee – dovrà attendere oltre tre secoli.
Ma Il principe era solo uno dei testi-laboratorio cui il pensatore fiorentino si stava dedicando; contemporanea al trattato era la stesura dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, che anzi furono incominciati per primi, nello stesso anno, e che meglio corrispondono all’idea delle “note di lettura” presentata nell'epistola a Vettori. Rievocando l’antica Roma attraverso lo studio del grande storico latino, Machiavelli argomenta la necessità di prendere a modello la repubblica romana; non in nome di una idealizzazione umanistica, ma perché è convinto che la storia si ripeta sia pure in forme nuove.  La repubblica più forte – egli afferma – è quella che non teme la lotta politica e di classe al suo interno, anzi su quei conflitti si regge, istituzionalizzandoli, in modo da avere leggi sempre migliori: come avvenne a Roma, dove il lungo duello fra patrizi e plebei, fra senato e popolo giovò alla salute della repubblica. E dove la religione fu parte intrinseca della politica; fu in qualche modo una “religione civile”; diversamente dall’epoca moderna, in cui – sostiene Machiavelli – la religione rivaleggia con la politica, e la Chiesa facendosi Stato pretende di governare, male, le cose italiane (almeno fino a quel momento, prima dell’elezione di un Medici).  In definitiva, pensando a Roma Machiavelli ritiene che la forma repubblicana – il governo del popolo temperato dalle leggi, col suo equilibrio conflittuale di poteri – sia il sistema più efficace per condurre uno Stato ben ordinato. Pensa però che quando si tratta di fondare un «ordine nuovo», uno Stato non esistente, allora occorra «forzare»: è il compito di un principe libero da vincoli. Così interrompe l’ampio svolgimento dei Discorsi (che concluderà anni dopo) per concentrare l’impegno intellettuale sul libretto destinato a orientare un «principe nuovo» nell’impresa italiana. Il suo spirito repubblicano si adatta al tentativo pragmatico di trovare la soluzione giusta per l’oggi. Ma le due opere, Il principe e i Discorsi,  sono complementari: si illustrano e si spiegano a vicenda.   
Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 dicembre 2013

Cicerone


Comunicare in privato. Da Cicerone a oggi


Il buon nome di Marco Tullio Cicerone fu danneggiato dalla pubblicazione (non prevista) delle sue Epistole ad Attico. Esse rivelavano post mortem i retroscena, le debolezze,  le ambiguità di un uomo che era stato autorevole e prestigioso. La dissacrazione fu ripetuta due volte a distanza di parecchio tempo. La prima volta, nell’età antica: un secolo dopo la morte del grande oratore, Seneca dà un giudizio sprezzante sulla meschinità di molti argomenti trattati nell’epistolario ciceroniano. Nel lungo Medioevo i manoscritti della corrispondenza ad Attico andarono perduti, ma ricomparvero nel XIV secolo. Ottennero una seconda volta lo stesso effetto: Petrarca rimase sconcertato e deluso da una lettura che metteva a nudo l’uomo senza infingimenti; o almeno, senza le simulazioni e le autodifese che il medesimo uomo aveva costruito nelle opere destinate alla pubblicazione. E mentre Cicerone a causa soprattutto delle sue lettere diventava una  vittima privilegiata di quella «familiarità insolente»  contro cui  Albin Lesky (richiamando Nietzsche) metteva in guardia gli studiosi, nelle generazioni successive gli scrittori e le personalità eminenti davano per scontato – a cominciare proprio da Seneca – che i loro epistolari sarebbero finiti in mano a lettori estranei; perciò, li scrivevano apposta in un certo modo.
Naturalmente, le lettere di Cicerone sono uno straordinario documento storico, a cui non rinunceremmo solo perché sono “indiscrete”, o perché fanno apparire chi le ha scritte in un chiaroscuro di luci e ombre diversamente da altri personaggi di cui non si sono conservati gli epistolarî. Tuttavia, dobbiamo sapere che c’è stato qualcuno che dopo la morte dell’oratore ha deciso di pubblicare le lettere; che questo qualcuno ha avuto i suoi motivi; che potrebbe aver scelto quali lettere rendere note e quali distruggere. Insomma, quella divulgazione di testi privati è servita a rivelare aspetti ignoti o poco noti della personalità di un intellettuale e uomo politico, ma non per questo ne ha offerto un profilo di per sé integrale e obiettivo.
Come gli eredi di Cicerone capirono che non esisteva più una corrispondenza davvero privata, così le personalità del mondo politico e intellettuale odierno dovrebbero farsi una ragione dell’impossibilità di assicurare una copertura di privacy alle loro conversazioni telefoniche. Ci sono ovviamente articolate questioni di legittimità delle intercettazioni e delle divulgazioni, di cui non vogliamo qui dibattere; la sostanza è che la riservatezza dei colloqui è sempre meno garantita. Del resto, è giusto che i rapporti fra coloro che prendono decisioni di rilevanza generale siano del tutto cristallini; e sarebbe bene che i pubblici decisori si abituassero una volta per tutte a mostrare verso qualunque interlocutore, e in ogni momento, il volto del rigore e della chiarezza di chi è al servizio della collettività, senza incresciose scivolate che denotano leggerezza istituzionale e presunzione di onnipotenza.  Parliamo di costume politico, non di eventuali reati.
Può darsi che i circuiti del potere riescano presto a escogitare nuovi modi per assicurarsi la segretezza delle comunicazioni; chi può escluderlo? Per ora, specie se si hanno responsabilità pubbliche, ci si convinca che il detto evangelico «sì sì, no no» debba contraddistinguere il proprio parlare in qualunque sede; e perciò anche il proprio agire; perché come si può agire senza comunicare? Il pubblico consapevole, però, abbia ben chiara una realtà: come vi fu qualcuno che decise di rendere note le lettere di Cicerone, così oggi c’è sempre qualcuno che decide, non di intercettare e registrare – questo speriamo che lo stabilisca in modo trasparente un potere costituzionale – ma di divulgare, che è un’altra cosa: a volte legittima, a volte no. E, soprattutto, la divulgazione implica una scelta: che cosa pubblicare e che cosa scartare, quale brano riportare e quale ignorare, quando divulgare e quando soprassedere, quando minimizzare e quando enfatizzare. Non sono scelte neutre. E non sempre sono compiute dagli operatori dell’informazione; non di rado la scelta è fatta dalle loro fonti. Insomma, i destinatari dell’informazione dovrebbero essere avvertiti che il frammento di conversazione intercettata – e magari doverosamente pubblicata – non è la verità sconvolgente da dare in pasto alla “piazza mediatica”, ma un tassello da confrontare con altri fatti e con altri detti. La comprensione analitica non si propone di giustificare o di giudicare meno severamente (anche se qualche volta produce questo risultato). Si propone di avvicinarsi alla verità, che è cosa diversa e più importante.  
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno» 17 novembre 2013

Edifici scolastici

Le scuole non sono mai troppe:
chiudere è gettare la spugna

Dal caso della “S. Nicola” di Bari



Uno dei più strani luoghi comuni che, spacciati per certezze, pregiudicano le politiche dell’istruzione pubblica è che vi siano in giro troppi edifici scolastici. Che questi siano semivuoti e inutilizzati e che, pertanto, sarebbe il caso di affidarli a soggetti privati che possano farne migliore uso.  Il luogo comune ha come presupposto l’assioma per cui le compatibilità di bilancio consentono al soggetto pubblico di fornire un limitato servizio scolastico “di base”, e il di più è da  ricercare mediante la libera iniziativa privata. Di conseguenza, in un edificio scolastico contano le aule da adibire a classi (poche e con molti alunni) e non contano gli spazi da adibire a laboratori, biblioteche, mense, palestre, assemblee; se qualcuno se ne può ricavare, bene, se no pazienza. Per intenderci: se c’è un solo laboratorio di lingue, è già molto; pretendere di averne due, perché questo migliorerebbe la qualità didattica potenziando l’accessibilità dell’attività laboratoriale, compromette il rigore dei conti pubblici.  Con questa logica non solo non si costruiscono nuovi spazi scolastici, ma si svuotano quelli esistenti.  Ben altri sono gli sprechi. Basti pensare a quante scuole pubbliche – specialmente nelle città del Sud – sono tuttora in affitto, dislocate in edifici concepiti per altre destinazioni che di scolastico non hanno nulla. Ed è anche vero, per converso, che talora i presidi “imboscano” le aule vuote per non vedersele requisire dall’Ente Locale che è a caccia di vani. Ma purtroppo il meccanismo vigente obbliga i dirigenti a guardare ai problemi del proprio istituto in un’ottica particolaristica. Invece la scuola dovrebbe essere un sistema di governance  articolata e condivisa, la cui legge non sia mors tua vita mea, ma sia l’aiutarsi a risolvere i problemi  e ad arricchire il servizio.

Fatta la somma, dunque, si scoprirebbe che gli edifici scolastici pubblici risultano insufficienti;  e se spazi vuoti vi si aprono, essi dovrebbero ospitare tutte quelle attività didattiche di cui è giocoforza privarsi perché «non ci sono soldi» (sempre che qualcuno i soldi li trovi), e inoltre dovrebbero essere offerti a quelle scuole che non hanno sede in un immobile di proprietà pubblica. Per fare un esempio, la dislocazione di un liceo o di un istituto tecnico nell’immobile di una scuola media semivacante dovrebbe essere cosa fattibile, scontata  e anche virtuosa dal punto di vista della spesa pubblica.  Previo coordinamento fra Provincia e Comune, s’intende, con la sovrintendenza della Regione che dimensiona le scuole e del Ministero che le istituisce.
È in questa chiave che bisognerebbe leggere la vicenda e le prospettive della scuola San Nicola, storica istituzione di Bari Vecchia, la cui sorte è oggetto di discussione nella cittadinanza. Intanto perché non si può sottovalutare la storia altamente paradigmatica di questa struttura. Dopo aver formato varie generazioni di cittadini – per le quali essa rappresenta un realtà della memoria, da non sradicare – la scuola media San Nicola è stata coinvolta negli anni ’90 dalla sanguinosa guerra di criminalità che ha sconvolto l’antico quartiere. Come è accaduto in altri territori meridionali “di frontiera”,  la scuola è diventata un posto di parcheggio dei minori appartenenti alle “famiglie”, un luogo della riproduzione delle gerarchie dei capi, dei gregari, delle donne del clan.
Presidi intelligenti e docenti pressoché eroici hanno fronteggiato la drammatica situazione, tentando di sottrarre quei ragazzi a un destino maledetto, alcune volte riuscendovi.  Ma non è stato possibile fermare la contestuale emorragia di iscritti; i genitori volevano allontanare i loro figli da un ambiente ritenuto incorreggibile.  La scuola San Nicola è entrata in un circolo vizioso che non si è riusciti a invertire. È qui che la logica della competizione fra scuole mostra interamente il suo fiato corto: le famiglie corrono a iscrivere i figli altrove, trovando accoglienza; da un lato c’è il sovraffollamento, dall’altro lo svuotamento e la conseguente ghettizzazione. Difficile negare che tutto ciò sia irrazionalità, spreco. Non “autonomia”, non sana competizione.  Ed è qui invece che la politica, o il soggetto sovraordinato – lo Stato, la Regione, l’Ente Locale – dovrebbero  intervenire, non per assecondare l’andamento delle cose, ma per contrastarlo, preservando le singole scuole dalla guerra fra poveri.  Una diversa destinazione di un immobile scolastico con quella storia emblematica andrebbe comunque discussa pubblicamente in ordine alla sua finalità non di lucro e a una fruizione non privatistica a vantaggio della comunità (altrimenti, il privato ricerchi gli immobili sul mercato). Ma, per quanto interessante e giovevole possa apparire tale destinazione alternativa, la rinuncia, il gettare la spugna, la derubricazione dell’edificio come scuola rischierebbero di apparire di per se stessi come una insperata rivincita postuma della mafia; un relitto simbolico della sua potenza distruttiva; e proprio oggi, quando gli immobili confiscati alla criminalità in molti comuni meridionali, e nella stessa Bari Vecchia, vengono destinati a percorsi pubblici di educazione e di riscatto sociale.  

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno», 15 giugno 2013

Fotografia: Lato Nord della Basilica di Sa Nicola e facciata della scuola media San Nicola.
presa dal sito: http://www.basilicasannicola.it/

Andreotti

Così il divo Giulio amministrò il caos

Fino alla caduta del Muro di Berlino
L’“antibiografia” di Andreotti firmata da Gambino per Manni


Non è un instant book, l’«antibiografia del Divo Giulio» – così il sottotitolo – scritta da Michele Gambino (Andreotti il Papa nero, Piero Manni, San Cesario di Lecce, 2013, pp. 216, euro 16). Esce quasi simultaneamente alla morte del novantaquattrenne ex primo ministro, ma l’idea nacque – racconta l’autore – quando il giovane giornalista allievo di Giuseppe Fava (il direttore de I Siciliani ucciso a Catania dalla mafia nel 1984) ebbe per la prima volta la percezione dell’inattaccabile influenza di Giulio Andreotti in Sicilia. Lunga gestazione per questo accattivante racconto di mezzo secolo di vita nazionale sub specie andreottiana (fino al 1992, quando la mancata elezione a capo dello Stato determinò il pensionamento del pupillo di De Gasperi). Gambino – che, ricordiamolo, ha vinto nel 1996 il premio «Ilaria Alpi» con i reportage dall’Afghanistan talebano – non rimarca le ovvie differenze fra Andreotti e Berlusconi; se mai si diverte a scoprire le analogie fra le corti dei due principi (non inappropriato il parallelo Evangelisti / Letta, Vitalone / Previti, Ciarrapico / Verdini). Ma il libro non tratta del recente ventennio, se non per analizzare le carte dei processi, che riguardano però fatti passati. Un’analisi che diventa quasi preponderante: perché le motivazioni delle sentenze, sia quando riconoscono la responsabilità dell’imputato Andreotti, pur dichiarando prescritto il reato (la sentenza d’appello del 2001, confermata dalla Cassazione, accerta i legami del leader democristiano con la mafia fino al 1980), sia quando lo assolvono (per la condotta successiva a quella data, nonché, nel processo di Perugia, per l’omicidio del giornalista Pecorelli), scrivono in realtà delle straordinarie pagine di storia. Spesso i giudici sono degli storici, anche – e forse soprattutto – quando non emettono verdetti di colpevolezza. Pure l’ «Io so» di Pasolini nasce dal rigore di chi indaga il senso delle cose con gli strumenti intellettuali, anche se non raggiunge prove giudiziarie. E la storia si dipana sotto il segno della complessità: come ebbe a dire – ricorda Gambino – il giudice Giovanni Falcone, che, alla sua domanda se Andreotti fosse davvero Belzebù (il nomignolo non innocente affibbiatogli da Craxi), rispose che «certe domande erano sbagliate, perché semplificavano argomenti complessi». Risposta simile a quella data nel film di Sorrentino (Il Divo, 2008) dal personaggio di Andreotti – un memorabile Toni Servillo – a un Eugenio Scalfari che lo incalza con l’elenco degli intrighi in cui il suo nome è coinvolto: appunto la «complessità». Da questo agile profilo biografico, che poco concede alla dietrologia, emerge comunque la presenza cruciale del politico romano nella instabile intersezione fra i poteri “esterni” che hanno condizionato lo Stato italiano: Cosa nostra, gli Americani e il Vaticano. Una presenza dialogante, negoziatrice, non gregaria e non conflittuale, quella di un “papa nero” che – preferibilmente fuori della ribalta – si pone come mediatore di un vasto magma di forze; che tenta di amministrare il caos con la necessaria dose di cinismo bene espressa dai suoi celebri aforismi («meglio tirare a campare che tirare le cuoia») e con la granitica convinzione che quanti si illudono di contrastare il disordine senza scendere a patti con esso (i Moro, i Dalla Chiesa, gli Ambrosoli) sono gente che «se la va a cercare».
Citando il documentato studio di Aldo Giannuli, storico e consulente della commissione stragi (Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Tropea editore, Milano, 2011), Gambino attinge agli archivi che comprovano il ruolo di Andreotti come referente politico dei settori più opachi dei servizi segreti. Il paradosso della guerra fredda era che, dentro quell’equilibrio mondiale, un uomo di destra come Andreotti risultasse il miglior garante (lui, non Moro) della sostenibilità di un governo democristiano appoggiato dai comunisti; che un politico di provata fede atlantica potesse compiere spregiudicate aperture al mondo arabo (non tanto per amore della causa palestinese, quanto, forse, per la freddezza vaticana verso Israele); che un anticomunista potesse sperare nella mancata unificazione della Germania. Perché questa sarebbe stata la vera fine di quell’equilibrio di contrasti grazie al quale il politico romano fu «maestro e donno». E non è un caso che la sua caduta sia coincisa con la fine dell’impero sovietico; perché questa fine inverava cose impensabili come la vittoria di Mandela in Sudafrica, la rivelazione della rete Gladio in Italia, e anche la profezia pasoliniana del «processo alla Dc» sia pure celebrato in un tribunale di giustizia e non nella pubblica piazza.
Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 28 maggio 2013