giovedì 13 febbraio 2014

Machiavelli

I Discorsi, non solo il Principe
nella famosa lettera del Segretario fiorentino
Santi di Tito, Machiavelli
La lettera che Niccolò Machiavelli mandò a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 – cinquecento anni fa – è uno dei testi più famosi della letteratura italiana. Vi è descritta una comune giornata del suo autore, ritiratosi in esilio presso il suo podere di San Casciano poco distante da Firenze. Dopo aver servito per una quindicina d’anni la repubblica fiorentina come alto funzionario, Machiavelli è stato estromesso dagli affari di Stato al ritorno dei Medici, che hanno ripreso il potere da cui erano stati allontanati nel 1494. Considerato un personaggio troppo compromesso col regime repubblicano, e sospettato di tramare contro la restaurazione medicea, Machiavelli è stato in carcere e ha subito torture. Liberato, ha lasciato la città per togliersi dalla vista dei nuovi-vecchi padroni. Scrivendo all’amico, riferisce le sue attività quotidiane con il piglio apparentemente svagato di un’ordinaria corrispondenza: le visite al podere, l’oziosa caccia ai volatili, il troppo tempo trascorso nell’osteria, a giocare con gli avventori e a «ingaglioffirsi», quasi infierendo sulla propria cattiva sorte.  Ma poi la lettera cambia tono: la sera, rientrato a casa, l’ex segretario fiorentino si spoglia dei panni quotidiani e indossa quelli «reali et curiali»; si immerge per ore nella lettura di antichi scrittori di storia, nutrendosi  «del cibo che solum è mio». E impara. Confronta la storia antica con quella del proprio tempo, vissuta  in qualità di osservatore privilegiato e in parte attore. Da ultimo, come per  caso (ma in realtà con intenzione) afferma nella lettera di aver preso appunti («ho notato») di quelle sue letture, finendo col comporre un opuscolo. In questo modo un po’ autoironico e un po’ seriamente commosso  Machiavelli annuncia di avere scritto Il principe:  quella che resterà la sua opera più nota, acclamata e criticata, che oggi non manca nei bookstore di tutto il mondo.
Il trattato politico di cui si celebra il quinto centenario fu integrato però in tempi successivi, quando vennero aggiunte la famosa esortazione finale a liberare l’Italia «dai barbari» (il giogo di regni stranieri), e la dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici. Nel frattempo Machiavelli si è convinto che la casa medicea, tornata al potere e inoltre detentrice del papato con Leone X (Giovanni de’ Medici), sia nelle condizioni di generare quel «principe nuovo» che unificherà l’Italia. È una previsione dettata più dall’ottimismo della volontà che dal pessimismo dell’intelligenza: la nascita di uno Stato unitario – che negli auspici di Machiavelli metterebbe l’Italia alla pari con le grandi monarchie nazionali europee – dovrà attendere oltre tre secoli.
Ma Il principe era solo uno dei testi-laboratorio cui il pensatore fiorentino si stava dedicando; contemporanea al trattato era la stesura dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, che anzi furono incominciati per primi, nello stesso anno, e che meglio corrispondono all’idea delle “note di lettura” presentata nell'epistola a Vettori. Rievocando l’antica Roma attraverso lo studio del grande storico latino, Machiavelli argomenta la necessità di prendere a modello la repubblica romana; non in nome di una idealizzazione umanistica, ma perché è convinto che la storia si ripeta sia pure in forme nuove.  La repubblica più forte – egli afferma – è quella che non teme la lotta politica e di classe al suo interno, anzi su quei conflitti si regge, istituzionalizzandoli, in modo da avere leggi sempre migliori: come avvenne a Roma, dove il lungo duello fra patrizi e plebei, fra senato e popolo giovò alla salute della repubblica. E dove la religione fu parte intrinseca della politica; fu in qualche modo una “religione civile”; diversamente dall’epoca moderna, in cui – sostiene Machiavelli – la religione rivaleggia con la politica, e la Chiesa facendosi Stato pretende di governare, male, le cose italiane (almeno fino a quel momento, prima dell’elezione di un Medici).  In definitiva, pensando a Roma Machiavelli ritiene che la forma repubblicana – il governo del popolo temperato dalle leggi, col suo equilibrio conflittuale di poteri – sia il sistema più efficace per condurre uno Stato ben ordinato. Pensa però che quando si tratta di fondare un «ordine nuovo», uno Stato non esistente, allora occorra «forzare»: è il compito di un principe libero da vincoli. Così interrompe l’ampio svolgimento dei Discorsi (che concluderà anni dopo) per concentrare l’impegno intellettuale sul libretto destinato a orientare un «principe nuovo» nell’impresa italiana. Il suo spirito repubblicano si adatta al tentativo pragmatico di trovare la soluzione giusta per l’oggi. Ma le due opere, Il principe e i Discorsi,  sono complementari: si illustrano e si spiegano a vicenda.   
Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 dicembre 2013