I Discorsi, non solo il Principe
nella famosa lettera del Segretario fiorentino
Santi di Tito, Machiavelli |
La lettera che Niccolò Machiavelli mandò a Francesco Vettori
il 10 dicembre 1513 – cinquecento anni fa – è uno dei testi più famosi della
letteratura italiana. Vi è descritta una comune giornata del suo autore,
ritiratosi in esilio presso il suo podere di San Casciano poco distante da
Firenze. Dopo aver servito per una quindicina d’anni la repubblica fiorentina
come alto funzionario, Machiavelli è stato estromesso dagli affari di Stato al
ritorno dei Medici, che hanno ripreso il potere da cui erano stati allontanati
nel 1494. Considerato un personaggio troppo compromesso col regime
repubblicano, e sospettato di tramare contro la restaurazione medicea,
Machiavelli è stato in carcere e ha subito torture. Liberato, ha lasciato la
città per togliersi dalla vista dei nuovi-vecchi padroni. Scrivendo all’amico, riferisce
le sue attività quotidiane con il piglio apparentemente svagato di un’ordinaria
corrispondenza: le visite al podere, l’oziosa caccia ai volatili, il troppo
tempo trascorso nell’osteria, a giocare con gli avventori e a «ingaglioffirsi»,
quasi infierendo sulla propria cattiva sorte. Ma poi la lettera cambia tono: la sera, rientrato
a casa, l’ex segretario fiorentino si spoglia dei panni quotidiani e indossa
quelli «reali et curiali»; si immerge per ore nella lettura di antichi
scrittori di storia, nutrendosi «del
cibo che solum è mio». E impara. Confronta la storia antica con quella del
proprio tempo, vissuta in qualità di osservatore
privilegiato e in parte attore. Da ultimo, come per caso (ma in realtà con intenzione) afferma
nella lettera di aver preso appunti («ho notato») di quelle sue letture,
finendo col comporre un opuscolo. In questo modo un po’ autoironico e un po’
seriamente commosso Machiavelli annuncia
di avere scritto Il principe: quella che resterà la sua opera più nota, acclamata
e criticata, che oggi non manca nei bookstore
di tutto il mondo.
Il trattato politico di cui si celebra il quinto centenario
fu integrato però in tempi successivi, quando vennero aggiunte la famosa
esortazione finale a liberare l’Italia «dai barbari» (il giogo di regni
stranieri), e la dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici. Nel frattempo Machiavelli
si è convinto che la casa medicea, tornata al potere e inoltre detentrice del
papato con Leone X (Giovanni de’ Medici), sia nelle condizioni di generare quel
«principe nuovo» che unificherà l’Italia. È una previsione dettata più
dall’ottimismo della volontà che dal pessimismo dell’intelligenza: la nascita di
uno Stato unitario – che negli auspici di Machiavelli metterebbe l’Italia alla
pari con le grandi monarchie nazionali europee – dovrà attendere oltre tre secoli.
Ma Il principe era
solo uno dei testi-laboratorio cui il pensatore fiorentino si stava dedicando; contemporanea
al trattato era la stesura dei Discorsi
sulla prima deca di Tito Livio, che anzi furono incominciati per primi, nello
stesso anno, e che meglio corrispondono all’idea delle “note di lettura”
presentata nell'epistola a Vettori. Rievocando l’antica Roma attraverso lo
studio del grande storico latino, Machiavelli argomenta la necessità di
prendere a modello la repubblica romana; non in nome di una idealizzazione
umanistica, ma perché è convinto che la storia si ripeta sia pure in forme
nuove. La repubblica più forte – egli
afferma – è quella che non teme la lotta politica e di classe al suo interno,
anzi su quei conflitti si regge, istituzionalizzandoli, in modo da avere leggi
sempre migliori: come avvenne a Roma, dove il lungo duello fra patrizi e
plebei, fra senato e popolo giovò alla salute della repubblica. E dove la
religione fu parte intrinseca della politica; fu in qualche modo una “religione
civile”; diversamente dall’epoca moderna, in cui – sostiene Machiavelli – la
religione rivaleggia con la politica, e la Chiesa facendosi Stato pretende di
governare, male, le cose italiane (almeno fino a quel momento, prima
dell’elezione di un Medici). In
definitiva, pensando a Roma Machiavelli ritiene che la forma repubblicana – il governo
del popolo temperato dalle leggi, col suo equilibrio conflittuale di poteri – sia
il sistema più efficace per condurre uno Stato ben ordinato. Pensa però che
quando si tratta di fondare un «ordine nuovo», uno Stato non esistente, allora occorra
«forzare»: è il compito di un principe libero da vincoli. Così interrompe
l’ampio svolgimento dei Discorsi (che
concluderà anni dopo) per concentrare l’impegno intellettuale sul libretto destinato
a orientare un «principe nuovo» nell’impresa italiana. Il suo spirito
repubblicano si adatta al tentativo pragmatico di trovare la soluzione giusta
per l’oggi. Ma le due opere, Il principe
e i Discorsi, sono complementari: si illustrano e si
spiegano a vicenda.
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 dicembre 2013