giovedì 13 febbraio 2014

Cicerone


Comunicare in privato. Da Cicerone a oggi


Il buon nome di Marco Tullio Cicerone fu danneggiato dalla pubblicazione (non prevista) delle sue Epistole ad Attico. Esse rivelavano post mortem i retroscena, le debolezze,  le ambiguità di un uomo che era stato autorevole e prestigioso. La dissacrazione fu ripetuta due volte a distanza di parecchio tempo. La prima volta, nell’età antica: un secolo dopo la morte del grande oratore, Seneca dà un giudizio sprezzante sulla meschinità di molti argomenti trattati nell’epistolario ciceroniano. Nel lungo Medioevo i manoscritti della corrispondenza ad Attico andarono perduti, ma ricomparvero nel XIV secolo. Ottennero una seconda volta lo stesso effetto: Petrarca rimase sconcertato e deluso da una lettura che metteva a nudo l’uomo senza infingimenti; o almeno, senza le simulazioni e le autodifese che il medesimo uomo aveva costruito nelle opere destinate alla pubblicazione. E mentre Cicerone a causa soprattutto delle sue lettere diventava una  vittima privilegiata di quella «familiarità insolente»  contro cui  Albin Lesky (richiamando Nietzsche) metteva in guardia gli studiosi, nelle generazioni successive gli scrittori e le personalità eminenti davano per scontato – a cominciare proprio da Seneca – che i loro epistolari sarebbero finiti in mano a lettori estranei; perciò, li scrivevano apposta in un certo modo.
Naturalmente, le lettere di Cicerone sono uno straordinario documento storico, a cui non rinunceremmo solo perché sono “indiscrete”, o perché fanno apparire chi le ha scritte in un chiaroscuro di luci e ombre diversamente da altri personaggi di cui non si sono conservati gli epistolarî. Tuttavia, dobbiamo sapere che c’è stato qualcuno che dopo la morte dell’oratore ha deciso di pubblicare le lettere; che questo qualcuno ha avuto i suoi motivi; che potrebbe aver scelto quali lettere rendere note e quali distruggere. Insomma, quella divulgazione di testi privati è servita a rivelare aspetti ignoti o poco noti della personalità di un intellettuale e uomo politico, ma non per questo ne ha offerto un profilo di per sé integrale e obiettivo.
Come gli eredi di Cicerone capirono che non esisteva più una corrispondenza davvero privata, così le personalità del mondo politico e intellettuale odierno dovrebbero farsi una ragione dell’impossibilità di assicurare una copertura di privacy alle loro conversazioni telefoniche. Ci sono ovviamente articolate questioni di legittimità delle intercettazioni e delle divulgazioni, di cui non vogliamo qui dibattere; la sostanza è che la riservatezza dei colloqui è sempre meno garantita. Del resto, è giusto che i rapporti fra coloro che prendono decisioni di rilevanza generale siano del tutto cristallini; e sarebbe bene che i pubblici decisori si abituassero una volta per tutte a mostrare verso qualunque interlocutore, e in ogni momento, il volto del rigore e della chiarezza di chi è al servizio della collettività, senza incresciose scivolate che denotano leggerezza istituzionale e presunzione di onnipotenza.  Parliamo di costume politico, non di eventuali reati.
Può darsi che i circuiti del potere riescano presto a escogitare nuovi modi per assicurarsi la segretezza delle comunicazioni; chi può escluderlo? Per ora, specie se si hanno responsabilità pubbliche, ci si convinca che il detto evangelico «sì sì, no no» debba contraddistinguere il proprio parlare in qualunque sede; e perciò anche il proprio agire; perché come si può agire senza comunicare? Il pubblico consapevole, però, abbia ben chiara una realtà: come vi fu qualcuno che decise di rendere note le lettere di Cicerone, così oggi c’è sempre qualcuno che decide, non di intercettare e registrare – questo speriamo che lo stabilisca in modo trasparente un potere costituzionale – ma di divulgare, che è un’altra cosa: a volte legittima, a volte no. E, soprattutto, la divulgazione implica una scelta: che cosa pubblicare e che cosa scartare, quale brano riportare e quale ignorare, quando divulgare e quando soprassedere, quando minimizzare e quando enfatizzare. Non sono scelte neutre. E non sempre sono compiute dagli operatori dell’informazione; non di rado la scelta è fatta dalle loro fonti. Insomma, i destinatari dell’informazione dovrebbero essere avvertiti che il frammento di conversazione intercettata – e magari doverosamente pubblicata – non è la verità sconvolgente da dare in pasto alla “piazza mediatica”, ma un tassello da confrontare con altri fatti e con altri detti. La comprensione analitica non si propone di giustificare o di giudicare meno severamente (anche se qualche volta produce questo risultato). Si propone di avvicinarsi alla verità, che è cosa diversa e più importante.  
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno» 17 novembre 2013