Comunicare in privato. Da Cicerone a oggi
Il buon nome di Marco Tullio Cicerone fu danneggiato dalla
pubblicazione (non prevista) delle sue Epistole
ad Attico. Esse rivelavano post
mortem i retroscena, le debolezze, le
ambiguità di un uomo che era stato autorevole e prestigioso. La dissacrazione
fu ripetuta due volte a distanza di parecchio tempo. La prima volta, nell’età
antica: un secolo dopo la morte del grande oratore, Seneca dà un giudizio
sprezzante sulla meschinità di molti argomenti trattati nell’epistolario
ciceroniano. Nel lungo Medioevo i manoscritti della corrispondenza ad Attico
andarono perduti, ma ricomparvero nel XIV secolo. Ottennero una seconda volta
lo stesso effetto: Petrarca rimase sconcertato e deluso da una lettura che
metteva a nudo l’uomo senza infingimenti; o almeno, senza le simulazioni e le
autodifese che il medesimo uomo aveva costruito nelle opere destinate alla pubblicazione. E
mentre Cicerone a causa soprattutto delle sue lettere diventava una vittima privilegiata di quella «familiarità
insolente» contro cui Albin Lesky (richiamando Nietzsche) metteva
in guardia gli studiosi, nelle generazioni successive gli scrittori e le
personalità eminenti davano per scontato – a cominciare proprio da Seneca – che
i loro epistolari sarebbero finiti in mano a lettori estranei; perciò, li
scrivevano apposta in un certo modo.
Naturalmente, le lettere di Cicerone sono uno straordinario
documento storico, a cui non rinunceremmo solo perché sono “indiscrete”, o
perché fanno apparire chi le ha scritte in un chiaroscuro di luci e ombre diversamente
da altri personaggi di cui non si sono conservati gli epistolarî. Tuttavia,
dobbiamo sapere che c’è stato qualcuno che dopo la morte dell’oratore ha deciso
di pubblicare le lettere; che questo qualcuno ha avuto i suoi motivi; che
potrebbe aver scelto quali lettere rendere note e quali distruggere. Insomma,
quella divulgazione di testi privati è servita a rivelare aspetti ignoti o poco
noti della personalità di un intellettuale e uomo politico, ma non per questo ne
ha offerto un profilo di per sé integrale e obiettivo.
Come gli eredi di Cicerone capirono che non esisteva più una
corrispondenza davvero privata, così le personalità del mondo politico e
intellettuale odierno dovrebbero farsi una ragione dell’impossibilità di
assicurare una copertura di privacy
alle loro conversazioni telefoniche. Ci sono ovviamente articolate questioni di
legittimità delle intercettazioni e delle divulgazioni, di cui non vogliamo qui
dibattere; la sostanza è che la riservatezza dei colloqui è sempre meno
garantita. Del resto, è giusto che i rapporti fra coloro che prendono decisioni
di rilevanza generale siano del tutto cristallini; e sarebbe bene che i
pubblici decisori si abituassero una volta per tutte a mostrare verso qualunque
interlocutore, e in ogni momento, il volto del rigore e della chiarezza di chi
è al servizio della collettività, senza incresciose scivolate che denotano leggerezza
istituzionale e presunzione di onnipotenza. Parliamo di costume politico, non di eventuali
reati.
Può darsi che i circuiti del potere riescano presto a
escogitare nuovi modi per assicurarsi la segretezza delle comunicazioni; chi
può escluderlo? Per ora, specie se si hanno responsabilità pubbliche, ci si convinca
che il detto evangelico «sì sì, no no» debba contraddistinguere il proprio
parlare in qualunque sede; e perciò anche il proprio agire; perché come si può
agire senza comunicare? Il pubblico consapevole, però, abbia ben chiara una
realtà: come vi fu qualcuno che decise di rendere note le lettere di Cicerone,
così oggi c’è sempre qualcuno che decide, non di intercettare e registrare –
questo speriamo che lo stabilisca in modo trasparente un potere costituzionale
– ma di divulgare, che è un’altra cosa: a volte legittima, a volte no. E,
soprattutto, la divulgazione implica una scelta: che cosa pubblicare e che cosa
scartare, quale brano riportare e quale ignorare, quando divulgare e quando
soprassedere, quando minimizzare e quando enfatizzare. Non sono scelte neutre.
E non sempre sono compiute dagli operatori dell’informazione; non di rado la
scelta è fatta dalle loro fonti. Insomma, i destinatari dell’informazione dovrebbero
essere avvertiti che il frammento di conversazione intercettata – e magari doverosamente
pubblicata – non è la verità sconvolgente da dare in pasto alla “piazza
mediatica”, ma un tassello da confrontare con altri fatti e con altri detti. La
comprensione analitica non si propone di giustificare o di giudicare meno
severamente (anche se qualche volta produce questo risultato). Si propone di
avvicinarsi alla verità, che è cosa diversa e più importante.
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno» 17 novembre 2013