domenica 8 dicembre 2013

Livio


La fine dei duellanti
Il lungo confronto fra Annibale e Scipione


Il libro XXXIX di Tito Livio include il racconto della morte di Annibale: un personaggio che, protagonista della decade riservata alla seconda guerra punica (libri XXI-XXX), ricompare nei libri successivi come figura per cosí dire eccentrica, ritratta nel mezzo di singoli e rapsodici episodi. Battuto a Zama, esule da Cartagine per sottrarsi alla vendetta dei Romani, appare nel ventennio successivo alla sconfitta cartaginese come una individualità irregolare: un sopravvissuto e un profugo “militante”, un nemico di Roma non rassegnato ma ormai ramingo e senza patria, un avventuriero, consigliere militare e agente al servizio di regni “antimperialisti”, almeno potenzialmente (prima la Siria di Antioco III, poi – dopo la sconfitta di questa – la Bitinia dell’ambiguo Prusia I). Ma nel momento della morte Livio ripropone il confronto fra Annibale e Scipione, stimolato anche da una tradizione storiografica che ama trovare le coincidenze, in questo caso la scomparsa quasi contemporanea, nello stesso anno, dei due grandi antagonisti, il Cartaginese e il Romano. Vale la pena, dunque, raggruppare e leggere contestualmente alcuni passi liviani che forniscono elementi per alimentare il confronto fra le due personalità e le due vicende umane.
Il primo brano (Ab Urbe condita XXXV, 14), raccoglie quello che si presenta come un aneddoto, di veridicità discutibile, ma per certi versi interessante. Sono raccontati, infatti, un incontro e una conversazione che sarebbero avvenuti fra Annibale e Scipione, in Asia, circa nel 193 a.C., prima della guerra siriaca. I due antagonisti in verità si erano già incontrati faccia a faccia nel 202 a.C., in Africa, per vane trattative di pace alla vigilia della battaglia di Zama. Il dialogo svoltosi in quella prima occasione è riferito da Livio con forte risalto, attraverso la presentazione di due discorsi, vere e proprie orazioni (XXX, 30-31). Già in tale circostanza lo storico aveva scritto: «si incontrarono quei due condottieri, i piú grandi non solo del loro tempo, ma di valore pari a qualunque re o condottiero di ogni altra nazione in tutte le età precedenti» (XXX, 30, trad. B. Ceva). Il parallelo Annibale-Scipione – che sottintende l’interrogativo su chi dei due massimi condottieri sia stato il primo in assoluto – è inevitabilmente sotteso a tutta la vicenda che li vede fronteggiarsi, nelle armi come nel contrasto verbale.

Lo stesso parallelo torna, in chiave aneddotica e quasi umoristica, nell’episodio qui riportato. Nove anni dopo Zama i due nemici si incontrano di nuovo in Asia, a Efeso. Annibale è consigliere del re Antioco III e l’Africano fa parte di una delegazione senatoria incaricata di valutare il rischio di guerra da parte del re seleucide. In un clima di cordialità, Scipione chiede ad Annibale chi sia stato a suo giudizio il migliore di tutti i generali. Lo stile narrativo è molto diverso da quello oratorio e paludato del primo incontro: la conversazione è brevemente riassunta mediante una colloquiale oratio obliqua. In un rapido «botta e risposta», il Cartaginese offre una graduatoria di merito, che colloca al primo posto Alessandro Magno, al secondo Pirro, al terzo lo stesso Annibale. A questo punto arrivano le due battute finali, in discorso diretto, che concentrano lo humour della storia. Incredulo e divertito per la presunzione del Cartaginese, Scipione gli domanda: «E che diresti di te se mi avessi sconfitto?» Risposta: «Allora mi sarei guadagnato il primo posto!».

Il senso della battuta conclusiva, secondo Livio – ma anche secondo Plutarco (Flaminino 21) e Appiano (Storia siriaca 10), i quali pure riferiscono l’aneddoto – sarebbe stato di rivolgere un implicito e tortuoso elogio a Scipione, quasi innalzandolo al rango di "fuori classe" tra i comandanti militari di tutti i tempi. Le radici di questa scena dialogica affondano forse nel gusto ellenistico dei «canoni» di grandi uomini, nel topos inevitabile della comparazione fra Greci e Romani, e nel ricorrente raffronto, in particolare, tra i geniali strateghi del mondo ellenico – Alessandro, il migliore di tutti (IX, 17), ma anche Pirro – cui l’autostima di Annibale lo induce ad associarsi, e i vincenti parvenus romani, un po’ faziosamente (e snobisticamente) retrocessi dai primi posti. 

Allo scoppio della guerra siriaca, i duellanti sono di nuovo avversari in armi, sia pure per interposta persona: Annibale è consulente di Antioco, Scipione di suo fratello Lucio che comanda le legioni. Conclusa la pace di Apamea (188 a.C.), la scena del racconto liviano si trasferisce a Roma, per rappresentare il dramma degli Scipioni e della loro caduta politica (vicenda, questa, narrata nel libro XXXVIII). L. Cornelio Scipione l’Asiatico, vincitore della Siria con l’aiuto determinante di suo fratello, è incriminato per appropriazione indebita nel quadro di un’aspra lotta interna contro l’egemonia del clan scipionico: gli si chiede conto delle ingenti somme versate da re Antioco privatamente nelle sue mani. Anche l’Africano è chiamato in causa e duramente accusato dai tribuni della plebe: risponde con un discorso pubblico vibrante di sdegno, riuscendo ancora una volta a conquistare il cuore del popolo romano. Ma «questo fu l’ultimo giorno luminoso per Scipione» (XXXVIII, 52, 1); da quel momento, adirato con la sua città, si ritirò in campagna, nella villa di Literno. Era l’anno 184 a.C., e all’Africano poco piú che cinquantenne, provato dalla devastante battaglia giudiziaria iniziatasi tre anni prima, restava poco da vivere: fu come se la sua resistenza psico-fisica si fosse spezzata.

Nel secondo passo (XXXVIII, 52-53) Livio riferisce il volontario esilio del grande generale, la morte, le ultime volontà di non tornare a Roma neppure defunto: «L’ingrata patria non avrà le mie ossa». E fa un bilancio della sua vita, dividendola nettamente in due parti: la prima splendida, coronata dall’immensa vittoria punica, di cui egli porta il merito da protagonista esclusivo; la seconda mediocre, vissuta da modesto comprimario (Livio deprezza ingiustamente il contributo dell’Africano alla vittoria siriaca), avvilito infine dalle contestazioni giudiziarie, dall’inimicizia politica e dal confino inflitto a se stesso. Uomo grande nella guerra, insignificante nella pace. Col che sembra chiudersi il cerchio della lettura liviana, a luci e ombre, di una tale personalità: Scipione audace, carismatico, ingannatore (XXVI, 19), moralmente irreprensibile e freddo calcolatore (XXX, 14), giovane glorioso e vecchio condannato a un oscuro declino.

Se non che, a epigrafe – per cosí dire – già dettata, si riparla di Scipione nel libro XXXIX, quando tocca ad Annibale andarsene da questo mondo. E Livio riprende – in realtà per confutarla – la notazione condivisa a suo dire da storici greci e latini, secondo cui nel medesimo anno 183 a.C. morirono i due nemici, nonché un terzo stratega, il generale greco Filopemene, animatore della Lega Achea (XXXIX, 50 e 52). La rilevazione di tale concomitanza s’intravede nei pur frammentari resconti di Polibio (Storie XXII, 12) – citato, questo, da Livio – e di Diodoro (Biblioteca storica XXIX, 18-20); ma lo storico romano dedica quasi un intero capitolo (Ab Urbe condita XXXIX, 52) a dimostrare – con risultati invero poco convincenti – che il decesso di Scipione dovrebbe essere avvenuto un anno prima. Però accetta l’accostamento dei duellanti e del Greco, in quanto morirono tutti in esilio e in stato di decadenza, e non furono sepolti in patria (XXXIX, 52). Subito prima di questo capitolo si colloca il breve e intenso racconto della fine di Annibale (XXXIX, 51).

Il vecchio combattente (sessantatreenne o, secondo Cornelio Nepote, settantenne) è ancora in fuga: dopo la sconfitta della Siria seleucide si è ritirato presso il re Prusia I di Bitinia, e ha offerto a lui  la sua preziosa consulenza militare nella guerra contro la filo-romana Pergamo. Ma Prusia non intende scontrarsi frontalmente con la potenza di Roma: ne accetta la mediazione per comporre il contenzioso con il re pergameno Eumene II. A questo punto l’ora del Cartaginese è scoccata.  

È Flaminino, il vincitore della seconda guerra macedonica, a presentarsi a Nicomedia nella reggia di Prusia, per reclamare la consegna di Annibale. Qui si apre una specie di (sottintesa) controversia storiografica, che poggia su versioni differenti relative a vari aspetti. Una questione è tutto sommato meno rilevante: se a circondare militarmente la residenza di Annibale furono i Bitini – come si comprende dal ragguaglio liviano – o i Romani, come sembrerebbe di capire da Cornelio Nepote (Vitae excellentium imperatorum, Hannibal 11). Nel secondo caso, Prusia avrebbe solo tollerato che i Romani agissero sul suolo bitinico. Ma nella storia Ab Urbe condita le ultime parole del Cartaginese sono proprio contro il fellone re di Bitinia, traditore dell’ospitalità. Piú decisivo, invece, è l’altro aspetto sul quale si manifestano spiegazioni differenti. Flaminino procedé contro Annibale su mandato senatorio o per iniziativa personale? Questa seconda tesi è avanzata da Appiano, il quale, inoltre, in modo esplicito mette a confronto «la magnanimità di Annibale e di Scipione e la meschinità di Flaminino» (Storia siriaca 11); il paragone è anche in Plutarco (Flaminino 21), secondo il quale il senato venne informato a posteriori della iniziativa di Flaminino e della conseguente morte di Annibale: dal che nacquero aspri commenti e raffronti tra la clemenza dell’Africano che non aveva perseguitato il nemico sconfitto, e lo sciacallaggio (diremmo oggi) di Flaminino che per farsi bello aveva infierito su un uomo oramai innocuo.  

Il disaccordo circa la reale dinamica dei fatti che determinarono la morte di Annibale ha origine probabilmente da motivazioni contingenti di polemica politica interna, fra chi aveva interesse a fregiarsi del risultato e chi, viceversa, intendeva mettere in ombra la primaria responsabilità dello Stato romano. Lo stesso Plutarco riferisce anche la tesi alternativa, che Flaminino fosse stato inviato come emissario di Roma con il preciso incarico di liquidare Annibale. Livio sembra aderire a questa versione, in quanto dice che Flaminino si recò da Prusia come legatus, dunque con un mandato ufficiale; ma adombra un’altra possibilità, che la consegna del Cartaginese vivo o morto sia stato un regalo spontaneo di Prusia per ingraziarsi i nuovi padroni del mondo. Ma in un modo o nell’altro era Roma a voler chiudere il conto. Del resto, Annibale nelle sue ultime parole afferma ironicamente di avere l'intenzione, suicidandosi, di «liberare il popolo romano dal suo incubo permanente». Lo stesso Africano, nelle circostanze date, non avrebbe forse agito diversamente. Anzi, nell’esposizione liviana era stato Scipione in persona, e in piú d’una occasione, a reclamare la consegna di Annibale: dai Cartaginesi subito dopo Zama, quando il generale battuto aveva appena lasciato l’Africa (Ab Urbe condita XXX, 37); da Antioco all’indomani della battaglia di Magnesia, quando Annibale fu costretto di nuovo a fuggire (XXXVII, 45).

Il capitolo è diviso in due sequenze. La prima è ambientata nella reggia di Nicomedia: descrive sommariamente l’arrivo di Flaminino e il suo abboccamento con Prusia. La seconda è ambientata nel palazzo bitinico di Annibale (altre fonti tramandano il nome della località, Libissa): il punto di vista narrativo è trasferito in quello individuale del vecchio nemico. Il Cartaginese ha sempre presentito questo momento, e la notizia dell’arrivo di Flaminino a Nicomedia lo ha fatto trasalire. Abituato a vigilare ininterrottamente sulla propria incolumità, ha predisposto sette vie di fuga dal palazzo. Ma deve prendere atto che tutte sono state circondate da uomini armati. Donde, con naturalezza e quasi con serenità, la decisione di compiere il gesto programmato da tempo: assumere il veleno predisposto ad hoc. La sua morte assomiglia agli exitus virorum illustrium, i modi di affrontare nobilmente la morte da parte di personalità vittime della fortuna, del tradimento, della crudeltà di un tiranno. E nel discorso di congedo dalla vita Livio gli attribuisce accenti propri di un Romano d’altri tempi: sono parole di rimpianto per la magnanimità e la grandezza degli uomini antichi, di deprecazione per la meschinità e slealtà dei loro immeritevoli epigoni.

Pasquale Martino
da: Livio, Antologia di passi tratti dai libri Ab Urbe condita, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2009

Immagini: busti di Annibale e di Scipione.