giovedì 12 dicembre 2019

Cinquant'anni da Piazza Fontana


La ferita che non si rimargina
La strage fascista, il golpe fallito, la montatura mostruosa
La figura esemplare di Giuseppe Pinelli

I funerali delle vittime della strage, il 15 dicembre 1969 a Milano

Sarebbe stata una gran bella parte quella di Sofia Loren, nel 1972, in un film prodotto da Carlo Ponti e diretto da Giuliano Montaldo: la parte di Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, il manovratore di treni anarchico ingiustamente fermato per la bomba di Piazza Fontana e precipitato dalla finestra della questura di Milano la notte del 15 dicembre 1969. Ma non se ne fece niente: l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, sotto la cui responsabilità Pinelli fu trattenuto in questura, oscurò l’indignazione per la sorte dell’innocente ferroviere. La vicenda del film mancato (insieme con quella altrettanto significativa de I funerali dell’anarchico Pinelli, il grande quadro del pittore Enrico Baj la cui esposizione venne annullata per lo stesso motivo) è narrata da Enrico Deaglio nel bel libro da poco uscito, La bomba (Feltrinelli), rievocazione accurata e dolente – fra le migliori che si vanno pubblicando nell’anniversario – di tutta la storia della terribile strage, delle sue 17 vittime (onesti contadini, piccoli imprenditori agricoli, commercianti) e della “diciottesima”, Pinelli.    

     Ricorre dunque il mezzo secolo da un evento capitale, che fu un discrimine nella storia dell’Italia repubblicana. La bomba esplosa nella Banca dell’Agricoltura il 12 dicembre segnò il fragoroso emergere di una “strategia della tensione” i cui tasselli si andavano disponendo nel quadro ferreo della guerra fredda che doveva impedire una vittoria delle sinistre nel mondo occidentale. E il momento fu topico: era l’Autunno caldo, quando grandi scioperi di tutte le categorie di lavoratori stavano per ottenere risultati contrattuali e sindacali mai visti prima. 35 anni di tormentata vicenda processuale (di cui abbiamo parlato su queste pagine lo scorso 22 giugno) non hanno punito i colpevoli, ma hanno sancito una verità giudiziaria e storica: la strage fu attuata dal gruppo neofascista Ordine Nuovo, dai suoi capi Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili perché già assolti in via definitiva. Essi ebbero complici e burattinai nei servizi segreti, che poi deviarono le indagini verso la falsa pista anarchica, preparata nei mesi precedenti tramite attentati “sperimentali” compiuti da Ordine Nuovo e attributi ad anarchici.
     La strategia della tensione trovava adesioni anche in settori politici di governo e di destra, che miravano a un colpo di stato strisciante, alla instaurazione di una “democrazia autoritaria”, se non a un vero golpe fascista come quello del 1967 in Grecia. Il massacro del 12 dicembre avrebbe dovuto essere ancora più tragico: c’erano altre quattro bombe a Milano e a Roma, che per caso non provocarono morti. I massimi vertici politici del complotto si spaventarono e fecero marcia indietro; l’imponente presenza silenziosa del popolo di Milano ai funerali della vittime non si trasformò, al contrario di quanto i golpisti speravano, in una violenta resa dei conti contro i “rossi”. L’adunata nazionale del partito neofascista Msi a Roma, prevista il 14 dicembre, fu vietata. Ma tutti gli sforzi vennero indirizzati a coprire le tracce del misfatto: perciò, gli anarchici colpevoli. La caccia all’uomo dilaga in tutta Italia: anche a Bari la stampa dà notizia di perquisizioni della polizia in quattro sedi della sinistra extraparlamentare. Viene incolpato l’anarchico Pietro Valpreda, di cui la sentenza definitiva stabilirà l’innocenza; viene fermato Pinelli, trattenuto tre giorni illegalmente, sottoposto a stressanti interrogatori con tipici trabocchetti polizieschi («c’è Valpreda che ha confessato!») e alla fine il ferroviere esperantista già staffetta partigiana e appassionato lettore di Edgar L. Masters muore cadendo da una finestra del quarto piano. Il questore Guida (ex direttore del confino fascista di Ventotene) afferma subito, mentendo, che si tratta di suicidio. Da sinistra si accusa la polizia di aver causato la morte del ferroviere durante il fermo. Calabresi sostiene di essere stato assente dalla sua stanza, dove si svolgeva l’interrogatorio, quando avvenne la caduta di Pinelli; querela «Lotta continua», il giornale di estrema sinistra che invece lo incolpa di quella morte. Ne segue un processo infuocato, finito in un nulla di fatto. Dario Fo mette in scena la satira Morte accidentale di un anarchico. Con una indignata lettera, centinaia di intellettuali di tutta l’Italia contestano magistratura, polizia e Calabresi: tra le firme da Bari si notano Vito Laterza, Vitilio Masiello, Nico Perrone. Si dirà poi che la lettera fu la sentenza di morte per il commissario dell’Ufficio politico di Milano: un altro falso. Denunciare la responsabilità di Calabresi, che avrebbe dovuto proteggere la vita di un uomo da lui fermato, un uomo morto – in un modo o nell’altro – mentre in era in mano alle forze dell’ordine, non significava incitare all’assassinio. Che fu un crimine; attribuito, al termine di un altro percorso processuale controverso, ai capi di Lotta continua.
     
     La catena dello stragismo nero imperversò per un decennio. Fu anche il decennio della risposta democratica, della controinchiesta (che coniò l’espressione «Strage di Stato»), del nuovo antifascismo. Anni di piombo, si dice, per colpa del terrorismo rosso. Ma anni di riforme, di cambiamento in meglio della società italiana.
     Pino Pinelli fu un uomo di sinceri e grandi ideali, universalmente stimato. Nel 2009 per la prima volta un presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, invitò al Quirinale Licia Pinelli e rese omaggio al marito, «che fu – disse – vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine». Dopo aver commemorato i morti per la bomba il 12 dicembre, Milano ricorderà Pinelli il 14, con una catena musicale da piazza Fontana al palazzo della Questura. L’Italia democratica sarà lì.

Pasquale Martino   
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 dicembre 2019   
  
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giovedì 12 settembre 2019

Il processo Petrone


Le due città al palazzo di Giustizia
1978-1981: i neofascisti sul banco degli imputati* 

Sembrava ancora nuovo fiammante il giovane Palazzo di Giustizia di piazza De Nicola, quel 13 novembre 1978 quando ebbe inizio uno dei dibattimenti destinati a segnare in qualche modo la storia di Bari: il processo per l’omicidio di Benedetto Petrone. Il diciottenne comunista era stato ucciso un anno prima, il 28 novembre ’77, in un agguato neofascista. 
Il processo ebbe in verità un prologo, pochi mesi prima: il procedimento per ricostituzione del partito fascista, a carico di militanti della sezione Passaquindici del Msi, formazione erede della Repubblica di Salò. Prologo assai significativo, per l’ampiezza dell’impianto accusatorio (il Pm Nicola Magrone collegava in un disegno premeditato decine di episodi dello squadrismo nero imperversante), per l’oggettivo carico politico che ricadeva sulle spalle dei testimoni (fra i quali il solo a sostenere coraggiosamente il proprio compito fu il segretario della sezione del Pci di Carrassi, l’intellettuale Raffaele Licinio, mentre altri testimoni si sfilarono indebolendo l’accusa), e per la conclusione (la sentenza respinse la tesi accusatoria, condannando alcuni imputati soltanto per «attività fascista»): essa costituiva in effetti un precedente che avrebbe condizionato il processo per il delitto Petrone.
     Fra gli imputati del primo processo c’era anche il latitante Giuseppe Piccolo, unico chiamato in causa per omicidio nel successivo processo Petrone, mentre i 7 coimputati, in libertà provvisoria, rispondevano solo di favoreggiamento. Il che già indica che si arrivava al dibattimento dopo un’indagine e un’istruttoria lacunose: da una parte era innegabile la «aggressione missina» (del Msi), come affermò il Pm Carlo Curione, dall’altra non erano stati individuati i responsabili di concorso in omicidio, che avevano spalleggiato Piccolo contro Petrone. I testimoni neofascisti, presenti ai fatti, erano stati più che reticenti. Il dibattimento non sciolse questo nodo; si indirizzò, anzi, nella direzione già indicata dal processo-prologo: l’assenza di una responsabilità politica del delitto. Due circostanze favorirono un tale esito. Innanzitutto il prolungamento e la complicazione dell’iter processuale, rallentato da rinvii (in attesa della estradizione di Piccolo che intanto era stato arrestato in Germania), dalle ripetute richieste dilatorie della difesa: la richiesta di trasferire il processo per legittima suspicione, che fu  respinta, e la richiesta di una perizia psichiatrica, che fu invece accolta. L'attesa della perizia impegnò nove mesi e poi ci furono le scene di impazzimento di Piccolo in aula e in carcere, e i ripetuti tentativi di suicidio. Finalmente il dibattimento riprese il 2 marzo 1981, a più di tre anni dai fatti. Il secondo fattore fu proprio la figura dell’omicida, “oggetto misterioso” di questa vicenda. Personaggio inquietante, per molti versi sconosciuto, venuto da un comune dell’Avellinese, di sicura fede fascista ma implicato in altre attività losche oltre che in prove di infiltrazione nella estrema sinistra, uomo imbarazzante assurto alla statura di condottiero sul campo della folta squadra missina nella delittuosa impresa, spietato esecutore di un omicidio e di un tentato omicidio (di Franco Intranò, compagno di Benedetto). Aiutato con molta efficienza a espatriare, nel contempo additato dai camerati come il “folle” e unico colpevole (in uno scontro ad armi pari, arrivarono a sostenere alcuni!), indotto a recitare la parte dello squilibrato di fronte alle telecamere in aula, e consegnato a una difesa quasi “d’ufficio” (i legali Franza e Preziosi del foro di Avellino); laddove i sette coimputati, appartenenti a famiglie della Bari “bene”, godono di un collegio prestigioso nel quale figura un autentico principe del foro barese come Achille Lombardo Pijola, oltre agli avvocati Plotino, Crocco e altri ancora.         
          Anche la parte civile poté disporre di un collegio importante che prestò opera volontaria e gratuita: fra gli altri Pietro Leonida Laforgia, Giuseppe Castellaneta, Mario Russo Frattasi e un giovane Niki Muciaccia. Accusato dalla difesa di essere troppo “militante”, il collegio di parte civile dové fronteggiare il progressivo diradarsi di quella atmosfera di tensione civile che aveva accompagnato la risposta della città al delitto e i primi passi dell’iter giudiziario (manifestazioni, cortei, presidî fuori del Palazzo di Giustizia e nutrite presenze di pubblico in aula si registrarono nelle prime fasi), e d’altro canto la crescente, ferrea volontà di una classe dirigente moderata di chiudere l’“incidente” derubricandolo a parentesi incresciosa e irrilevante da dimenticare. Volontà che fece pressione anche sulla delicata posizione del Pci, oggetto di polemica per un presunto uso politico del processo; e produsse qualche incrinatura nel collegio di parte civile. Era in gioco la faccia perbenista della città, con la sorte di quei «giovani figli di buona famiglia – così li definì l’avvocato Montesano della difesa – terrorizzati, dopo l'accaduto, da questo terribile impatto con i giovani di sinistra, e dalla prospettiva delle conseguenze giudiziarie»; quelli che invece, secondo Castellaneta, avvocato della parte civile, erano «i nipotini degeneri della borghesia bottegaia degli anni '50, che si incappucciano, che si armano, che occupano i quartieri per il gusto della violenza fine a se stessa».
     Il giorno della sentenza, 23 marzo 1981, lo spazio del pubblico in aula era di nuovo gremito fino all’inverosimile. I «giovani di buona famiglia» se la cavarono con pene irrisorie. Piccolo fu condannato a 22 anni, che diventarono 16 in appello. Nell’agosto del 1984 si suicidò per davvero, in carcere.

Pasquale Martino     
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 settembre 2019

* Nicola Signorile ha letto il testo e mi ha dato utili suggerimenti, dei quali lo ringrazio. 

lunedì 9 settembre 2019

Ritratto di Michele Romito



IL QUINDICENNE CHE FERMÒ I TEDESCHI
Il giorno eroico (9 settembre 1943)
e la lunga giovinezza del comunista di Bari Vecchia



Ho avuto per mia fortuna l’amicizia e la stima di Michele Romito, il ragazzo che fermò l’esercito tedesco a colpi di bombe a mano, il 9 settembre 1943 a Bari. Ho potuto dargli un ultimo saluto in ospedale, il giorno prima che morisse, a ottantadue anni, il 31 agosto 2009. Sono trascorsi dieci anni, e volgere il pensiero alla memoria di Michele è doveroso, tanto più nella circostanza del 76° anniversario di quella vicenda straordinaria nella storia di Bari. Fu un tempo drammatico in tutta Italia, l’8 settembre e i giorni che seguirono: quando lo Stato e l’esercito italiani si sfaldarono, il re e il governo fuggirono, le truppe tedesche dilagarono e sembrò arrivata – come è stato detto – la morte della Patria. Se la Patria non morì, lo si deve ad alcune migliaia di persone, che in modo pressoché spontaneo reagirono, fecero scelte cui pochissime di loro erano preparate, salvando soldati fuggiaschi, opponendosi nei modi possibili ai nazisti e ai fascisti redivivi, impugnando un’arma. Fu uno di quei passaggi sconvolgenti in cui – per opera di una minoranza non sparuta – un popolo e una nazione che erano sul punto di morire invece rinascono, si riconoscono, si rifondano come ex novo.
     Successe anche a Bari, dove protagonista fu un miscuglio estemporaneo di popolo, soldati, marinai, postelegrafonici, donne, ragazzi che soprattutto nella città vecchia e nel porto trovarono la scena del loro imprevisto momento di gloria, ed ebbero la loro rappresentazione in due figure emblematiche: il generale Nicola Bellomo, che senza ordini superiori (anzi, contro la riluttanza di buona parte dei comandi) diresse l’azione improvvisata di una compagnia eterogenea di militari e seppe coinvolgere anche i civili, impedendo alle truppe tedesche di distruggere le installazioni portuali; e il quindicenne Michele Romito, a capo di una banda di ragazzini che, sostenuti da numerosi altri scugnizzi e ragazze, si unirono ai soldati, si armarono di bombe e dall’alto della Muraglia bersagliarono l’autocolonna della Wehrmacht che tentava, penetrando in Bari Vecchia, di prendere alle spalle chi combatteva al porto. Fu proprio Romito a fare centro, causando l’incendio di un autocingolato che bloccò l’intera colonna tedesca, mentre i combattimenti continuavano davanti all’arco di San Nicola. Nel tardo pomeriggio i tedeschi dovettero ritirarsi, per seminare distruzione lungo il loro cammino verso Nord; si concluse così, con sei morti italiani sul terreno, una giornata violenta e tempestosa che è stata più volte raccontata ma sulla quale molto si vorrebbe ancora sapere.  
    
Michele Romito riceve la medaglia dal sindaco Vernola.
Fra i due nella foto, Tommaso Sicolo e Arrigo Boldrini.  
     Chi era Michele Romito? Apparteneva a una numerosa famiglia “barivecchiana”, 7 figli maschi e 3 femmine; aveva poca istruzione, si arrangiava in lavori portuali saltuari. Non saprei dire se nella scelta di campo istantanea di quel 9 settembre – cui non fu estraneo, certo, l’istinto popolare di autodifesa del proprio territorio – influì già un orientamento politico; forse sì, visto che nel dopoguerra Michele seguirà il fratello maggiore Antonio, suo punto di riferimento, nella adesione al Partito comunista. La famiglia Romito gravitava verso le due grandi istituzioni sociali e formative di Bari Vecchia: da una parte il Pci, dall’altra la Cattedrale. Michele crebbe lavorando nel porto e nei cantieri edili. Non si sposò, visse con i familiari nella casa madre del quartiere San Marco. Gli anni si allontanavano dall’epica giornata del ’43, e Bari era smemorata.  
     Il tempo di gloria tornò dopo il ’68, quando studenti di idee rivoluzionarie entrarono a frotte in Bari Vecchia per cercare le proprie ragioni interrogando la città proletaria che fino a quel momento ignoravano. Solidarizzarono con molti loro coetanei, ma in Michele Romito, quarantenne, trovarono insieme un padre e un compagno da ammirare: un ragazzo cresciuto e rimasto ribelle, insofferente, critico verso il Pci. La mia amicizia con lui non fu solo mia, ma fu quella di una comunità, specialmente il Circolo Lenin, che si strinse intorno a lui, facendosi raccontare in un estroverso dialetto barese non solo la storia emozionante di quelle bombe, ma tanti episodi della sua vita di lavoratore. Erano gli anni delle stragi e dello squadrismo nero, del nuovo antifascismo; l’Italia riscopriva la Resistenza, e Bari riscoprì gli insorti del settembre ’43. Il 25 aprile 1974 Romito riceve dal sindaco Nicola Vernola la medaglia d’oro della civica amministrazione, nel teatro Petruzzelli, alla presenza  del presidente nazionale dell’Associazione Partigiani, Arrigo Boldrini. La sera, una festa di giovani abbraccia l’“eroe” (titolo che Romito mai avrebbe pensato di attribuirsi). È merito indubbio dell’ANPI l’aver dato il dovuto rilievo alla figura di Romito, l’aver fatto conoscere la sua testimonianza, come anche l’aver valorizzato in anni recenti i “ragazzi” di Bari Vecchia che sono ancora fra noi e possono raccontare quei fatti.
Romito a una manifestazione
dell'Anpi a Bari 
     In seguito Michele frequentò la comunità di Santa Chiara, gruppo cristiano di base, si riavvicinò al Pci e, dopo lo scioglimento, a Rifondazione Comunista. Non mancava mai alle celebrazioni antifasciste; era a suo modo un personaggio: un giorno anche Moni Ovadia andò a trovarlo. Ma visse poveramente, come custode dei bagni comunali, infine come modestissimo pensionato. La sua ultima apparizione pubblica risale a due mesi prima della morte: fisicamente malandato, non volle mancare nel giugno 2009 alla manifestazione per i quaranta anni del Circolo Lenin di Puglia, nella Vallisa, dove fu calorosamente riabbracciato da quei giovani con i capelli ormai imbiancati che lo avevano avuto amico e compagno.
     Due anni dopo, nel 2011, venne deposta la “pietra d’inciampo” che lo ricorda, nel luogo che era stato teatro del gesto di coraggio per il quale Bari gli è debitrice.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 settembre 2019       
       

   

sabato 22 giugno 2019

Piazza Fontana 12 dicembre 1969


Ingiustizia è fatta, ma la verità è detta.
Storia di un’odissea giudiziaria (che passò anche da Bari). 
Il libro di B. Tobagi e gli altri

Mezzo secolo ci separa dal memorabile 1969, quando la grande avanzata del movimento operaio conquistò con i rinnovi contrattuali anche lo statuto dei diritti dei lavoratori pensato da Gino Giugni, docente di diritto del lavoro a Bari, e approvato all’inizio del 1970. Ma l’anno fu pure concluso tragicamente – e non a caso – dalla strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre a Milano: la “madre di tutte le stragi”, che inaugurò la sequenza dello stragismo nero culminata con la bomba di Bologna (1980). L’attentato del ‘69 fu il più grave della storia repubblicana fino a quel momento, per numero di morti: 17 (l’ultimo dei quali deceduto anni dopo per i postumi delle ferite), e in più il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, innocente, fermato nelle prime indagini di polizia e morto il 15 dicembre nella questura milanese dove era trattenuto irregolarmente da più di tre giorni (sulla sua vicenda ci soffermeremo a tempo debito). Tuttavia, di questo evento cruciale e simbolico c’è scarsa conoscenza: indagini su campioni di giovani mostrano che solo una esigua minoranza sa che gli attentatori furono neofascisti; il resto attribuisce le responsabilità ad altri soggetti e soprattutto alle Brigate Rosse (il gruppo terroristico cui una versione falsante addebita tutte le violenze degli anni successivi). Sono perciò benvenute le novità librarie che incominciano ad apparire per il cinquantenario, e aiutano a capire la storia messa in moto da quella bomba. Vanno menzionati due bei volumi editi da Laterza: 12 dicembre 1969, chiara sintesi dello storico Mirco Dondi, uscita nel 2018 per la serie «10 giorni che hanno fatto l’Italia», e Prima di Piazza Fontana, del giornalista Paolo Morando (2019), che racconta la prova generale della strage, la serie di attentati senza vittime del 1969, uno «sciame sismico» secondo l’efficace definizione di Benedetta Tobagi, giornalista e storica. Tobagi, da parte sua, dopo avere dato alle stampe nel 2013 un ottimo lavoro sulla strage di Brescia del 1974 (Una stella incoronata di buio, Einaudi), pubblica ora per lo stesso editore Piazza Fontana. Il processo impossibile.
Un libro importante: spiega le verità fondamentali sulla bomba raccontando trent’anni di vicenda processuale con scrupoloso studio dei documenti e con avvincente piglio narrativo.
Se il regista Marco Tullio Giordana intitolò il suo film del 2012 Romanzo di una strage, il libro di Tobagi è a sua volta il romanzo di un’odissea giudiziaria. Il segmento più ampiamente trattato è quello dei processi di Catanzaro (1975-79) e di Bari (1984-85). Sì, perché proprio nel trasferimento del processo dalla sua sede naturale, Milano (ritenuta troppo politicizzata), a un Sud distante e, nel caso del capoluogo calabrese, perfino difficile da raggiungere, qualcuno aveva riposto la speranza che il caso finisse insabbiato. Non fu così. La sentenza di primo grado di Catanzaro (che assolve gli anarchici e condanna i neofascisti veneti di Ordine Nuovo individuando le complicità nei servizi segreti), sebbene riformata in appello e cancellata poi dalla Cassazione che rinvia il nuovo processo a Bari, sarà ricordata come la sentenza più vicina alla verità: è convalidata nella sostanza proprio dall’ultima pronuncia della Cassazione, che nel 2005 pone termine al tormentato iter giudiziario sancendo che gli ordinovisti Freda e Ventura (sebbene ormai assolti in via definitiva) sono responsabili della strage. La pagina barese del processo (affiancata da un giudizio collaterale a Potenza, per falsa testimonianza), pur deludente negli esiti, si distingue per l’assoluzione degli anarchici con formula piena (non più per insufficienza di prove), per la corposa argomentazione del ricorso scritto dal procuratore generale di Bari Umberto Toscani (respinto dalla Cassazione che conferma l’assoluzione anche dei fascisti), e inoltre per le puntuali cronache della «Gazzetta del Mezzogiorno» firmate dal veterano Italo del Vecchio. Quella esperienza stimolò l’azione di studiosi baresi, cui Tobagi tributa un giusto riconoscimento: la pionieristica raccolta di saggi e documenti a cura di Nicola Magrone e Giulia Pavese (Ti ricordi di piazza Fontana?, Edizioni Dall’Interno, Bari, 1986); l’annosa ricerca dello storico Aldo Giannuli, consulente della commissione stragi e di molte procure, che nel 1989 stampa per le Edizioni Associate la riedizione della controinchiesta cult del 1970, La strage di Stato, prima di una serie di opere da lui dedicate alle trame dei fascisti e dei servizi segreti (la più recente: Storia della “Strage di Stato”, Ponte alle Grazie, 2019); e infine la stessa riflessione più complessiva di Franco De Felice, docente di storia contemporanea a Bari e a Roma, che in quegli anni formulò la tesi – oggi ampiamente accolta – del «doppio Stato» e della «doppia lealtà», osservando come in molti apparati statali e in una parte della classe politica dietro all’ossequio apparente per la costituzione democratica si celassero una obbedienza alle logiche della guerra fredda e una disponibilità a tramare o a coprire progetti incostituzionali di limitazione della democrazia.
Se è vero che la storia processuale di piazza Fontana – punteggiata da voluti rallentamenti, rinvii, depistaggi – non ha fatto giustizia perché non ha punito i colpevoli, è altresì indubbio (e Tobagi lo sottolinea) che essa ha prodotto – grazie anche alla feconda riapertura delle indagini negli anni ’90 – un progressivo accertamento delle responsabilità storiche e politiche, tanto del neofascismo quanto degli apparati di intelligence e di esponenti dei governi di allora. E ha lasciato una enorme mole di documentazione e testimonianze: materia per gli studi storici che continueranno a svilupparsi, e anche, ci si augura, per l’impegno delle scuole cui spetta il compito di trasmettere la conoscenza critica di una pagina che ha plasmato in modo decisivo la storia del nostro Paese.  

Pasquale Martino            
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 22 giugno 2019


Cronache dal tribunale

Italo Del Vecchio, morto nel 2000 a 75 anni, giustamente ricordato nel libro di Benedetta Tobagi, è stato una firma storica della «Gazzetta del Mezzogiorno», capocronista e inviato speciale, maestro di giornalismo in un’epoca in cui gli strumenti del mestiere non erano il computer e lo smartphone, ma il telefono fisso e la macchina da scrivere portatile. Specialista di cronaca giudiziaria (seguì a Bari il processo contro il capomafia Luciano Liggio, nel 1969) fu tra le figure più operose di quell’area di corrispondenti di varie testate che Aldo Giannuli nel suo libro Bombe a inchiostro (Rizzoli, 2008) chiama la «controinformazione democratica», di cui fecero parte per esempio Camilla Cederna, Giorgio Bocca e Walter Tobagi, padre di Benedetta. Giornalisti che, in sintonia con la parte più avvertita dell’opinione pubblica, contribuirono a mettere in dubbio i risultati fuorvianti delle prime indagini su piazza Fontana e a fare emergere verità nascoste. I réportage di Del Vecchio dal processo di Bari furono un punto di riferimento per colleghi di altri giornali.

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giovedì 4 aprile 2019

La rivolta di Battipaglia


Lavoro, lotta, sangue, Sud
9 aprile 1969, cinquanta anni dopo




Contrariamente a quanto tramandato dal luogo comune, il 1968 italiano è stato assai poco violento: l’anno meno violento nel decennio tumultuoso che si inaugurava. Solo a dicembre, come un veleno nella coda, arrivarono le vittime: i due manifestanti uccisi dalle forze dell’ordine ad Avola, in Sicilia, durante uno sciopero di braccianti. Fu un segnale di svolta: pochi mesi dopo si aggiunsero i morti di Battipaglia, ad aprire un anno ben altrimenti drammatico. Era il 9 aprile 1969, cinquanta anni fa. Con Avola e Battipaglia, fra l’altro, il Sud entrava a pieno titolo in un grande capitolo di storia nazionale – la stagione dei diritti – e ci entrava pagando il primo tributo di sangue.   
     Battipaglia in provincia di Salerno era un nodo strategico delle comunicazioni, nonché centro  agroindustriale della piana del Sele, una delle zone di agricoltura avanzata distribuite a macchia di leopardo nell’Italia meridionale, dove aveva avuto parziale attuazione la riforma agraria. Gli stabilimenti di trasformazione del prodotto agricolo locale, creati dalla salernitana Saim (Società agricola industriale del Mezzogiorno), uno zuccherificio e di un tabacchificio, davano lavoro e avevano agevolato il rapido incremento demografico della cittadina campana. Ma non mancavano le ombre: il lavoro nelle fabbriche era per lo più stagionale come quello nei campi; la condizione dell’operaio al pari di quella del bracciante, entrambi sottopagati, era precaria, priva di diritti, soggetta al caporalato; le numerose tabacchine – protagoniste della rivolta – erano indice non soltanto di una emancipazione femminile attraverso il lavoro, ma anche di una intensa emigrazione della manodopera maschile: contraddizioni del distorto sviluppo meridionale, che si portava dietro le sacche del sottosviluppo vecchie e nuove.   
    
Quando la Saim chiude lo zuccherificio e annuncia la chiusura del tabacchificio, la città prova sgomento e rabbia. Il consiglio comunale chiama la popolazione allo sciopero il 9 aprile, mentre il sindaco va a incontrare il governo. La manifestazione è enorme, tutti aderiscono e gli esercizi commerciali chiudono per solidarietà; la città è ferma, la protesta è assolutamente pacifica. I manifestanti occupano i binari della ferrovia, attuando una forma di lotta che si è andata affermando in Italia (a marzo, i treni vengono bloccati per ore a Parma, dopo il fallimento dell’industria di elettrodomestici Salamini). La polizia ha ordine da Roma di intervenire con pugno ferreo; è questa la causa degli incidenti, come la storiografia dà oggi per acquisito (si legga per esempio Guido Crainz, che a quegli anni ha dedicato studi importanti). La polizia italiana, prima di avviare un difficile percorso di democratizzazione approdando alla controversa riforma del 1981, trattava gli scioperanti come un nemico pubblico e aveva il grilletto facile. A Battipaglia, durante gli scontri di piazza, si sparò a lungo sui dimostranti: di 200 feriti, 100 risultarono colpiti da arma da fuoco, i fori di proiettile sui muri ad altezza d’uomo erano visibilissimi e fu quasi un miracolo se i morti furono soltanto due: la professoressa di liceo Teresa Ricciardi, 26 anni, che affacciatasi al balcone di casa venne raggiunta al cuore, e l’operaio tipografo Carmine Citro, 19 anni, colpito alla testa. Citro, il cui posto di lavoro non era a rischio, aveva detto ai familiari che scendeva in piazza «per i diritti degli altri, per i diritti di tutti». Il fotografo Elio Caroccia fu picchiato (era capitato a Mimmo Castellano a Bari, nel 1962, durante lo sciopero degli edili) e finì in ospedale. Dopo l’eccidio la rivolta è generalizzata, la polizia è costretta a ritirarsi e la città resta in mano ai ribelli. L’11 aprile si svolgono gli imponenti funerali dei due caduti, mentre è in corso in tutta Italia lo sciopero generale di protesta. In seguito, la chiusura delle fabbriche verrà revocata e Battipaglia potrà respirare almeno per un po’; ma i responsabili della sparatoria non saranno individuati.
    
La rivolta di Battipaglia non è assimilabile a quella del 1970 a Reggio Calabria, ambigua e ben presto presa in mano dai neofascisti. Questi avevano tentato di infiltrarsi a Battipaglia, ma con un ruolo marginale. Vero è che nella città campana furono contestati sindacalisti e politici venuti “da fuori”, ma in seguito la classe operaia che era stata il nerbo della protesta si organizzò sindacalmente e anche la Federbraccianti Cgil ebbe una notevole crescita di iscritti. Fu la sinistra a dare voce a quelle ragioni: a Bari il segretario del Psiup Giacomo Princigalli fu denunciato e assolto per un volantino di accusa alla polizia. La sommossa nella piana del Sele era stata avvisaglia di un imminente corso storico caratterizzato da un conflitto di forze: da un lato il possente movimento dell’Autunno Caldo, che unì Nord e Sud (mai stati così vicini) e produsse lo statuto dei lavoratori (cui lavorò Gino Giugni nei suoi anni di insegnamento barese); dall’altro la reazione violenta che non esitò a ricorrere all’arma criminale dello stragismo nero (attivo in tutto il 1969 fino alla bomba di dicembre a Milano), innescando un circolo vizioso che avrebbe avuto il risultato di limitare le conquiste sociali pur cospicue e di inceppare il processo democratico.
     In un documentario indipendente girato a Battipaglia un anno dopo da Luigi Perelli e Giorgio Rambaldi (conservato dall’Archivio audiovisivo del Movimento operaio e restaurato con il concorso dell’Archivio storico Benedetto Petrone di Brindisi), una giovane tabacchina dichiara durante un’assemblea alla Camera del Lavoro: «siamo operai, siamo poveri, siamo schiavi, è meglio che ci aiutiamo fra di noi». Più semplice e chiara “filosofia” di quel momento irripetibile non si potrebbe trovare, ed è emblematico che a enunciarla sia stata una lavoratrice del Sud.   

Pasquale Martino      
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 3 aprile 2019

giovedì 14 marzo 2019

Il fascismo nel 1919


Era marzo, cent’anni fa nascevano i Fasci

Raduno di Sansepolcristi
«Aderiamo vostra adunata mandando nostri rappresentanti»: con questo stringato telegramma il Fascio di difesa nazionale di Bari annunciava la presenza all’atto di fondazione dei Fasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919 a Milano. Nasceva cento anni fa, in una sala offerta dalla associazione industriali, in piazza San Sepolcro, il movimento fascista che avrebbe segnato catastroficamente la storia d’Italia e d’Europa. Pochi avrebbero scommesso allora sulle fortune di un gruppo minoritario tutto da inventare. I presenti al raduno non sono più di un centinaio; dalla Puglia c’è il solo Michele Costantino, a nome del fascio di difesa del capoluogo, giungono per iscritto le adesioni di Araldo Di Crollalanza (futuro podestà, sottosegretario e ministro dei Lavori pubblici) e di qualcun altro. I membri di quello sparuto drappello si fregeranno in seguito del titolo di «sansepolcristi»: i camerati della primissima ora. 
Il "Fascio primogenito" in Piazza S. Sepolcro
     Il raggruppamento che nasce in una Italia stravolta e frastornata dai postumi della Grande Guerra appare uno dei tanti; non ha identità definita né idee originali. Nemmeno il nome è nuovo: “fasci” di ogni tipo, intesi come unioni di forze (o debolezze) disparate, sorgono qua e là per finalità varie dandosi questa denominazione allora comune; perfino il termine «fascismo» non è coniato da Mussolini ma, un anno prima, dal sindacalista rivoluzionario Angelo Olivetti. Il programma sansepolcrista è una congerie eterogenea che grazie ai suoi accenti di sinistra ha la velleità di competere con il colosso socialista in piena ascesa. Mussolini si proclama insieme «reazionario e rivoluzionario» con tipica acrobazia retorica tanto stupefacente quanto vacua. Cambierà e capovolgerà le proprie idee nel corso degli anni (per dirne una, il “movimento” che si proclama antipartitico diventerà nel 1921 un partito, il PNF): «nessuna preoccupazione di coerenza formale» gli riconoscerà Gioacchino Volpe, una testa pensante del fascismo. Ma nella spregiudicata abilità tattica che porterà il maestro di Predappio in capo a tre anni al vertice del Paese due costanti soprattutto restano immutate: il nazionalismo, nutrito di risentimento e frustrazione, e l’odio anti-socialista, interiorizzato dall’ex militante che il partito di Turati ha espulso. Il nazionalismo gli servirà per raccogliere i consensi di combattenti e reduci dirottando contro i presunti complotti delle grandi potenze e contro i “bolscevichi” la rabbia per il disastro sociale del dopoguerra italiano (di cui era colpevole chi aveva gettato la nazione nella sanguinosa avventura bellica); l’antisocialismo praticato con dura violenza (a partire dall’assalto alla sede dell’«Avanti!», a Milano il 15 aprile 1919) gli servirà per stremare le masse proletarie, ottenendo a questo scopo appoggi e finanziamenti dalla grande industria e dal padronato agrario.
     Ma tutto ciò nel ’19 è ancora in divenire. All’ordine del giorno c’è invece qualcosa che assomiglia alla rivoluzione russa: il “biennio rosso” si snoda dalle sommosse contro il caro-vita alle lotte dei contadini del Sud per la terra fino alla occupazione delle fabbriche. Nelle elezioni politiche del 16 novembre si vota col sistema proporzionale: il fascismo subisce una disfatta, eleggendo un solo parlamentare; vincono i socialisti, primo partito, seguiti dal neonato partito popolare cattolico; insieme le due forze avrebbero la maggioranza della Camera, che sarebbe ancora più ampia con il gruppo giolittiano (a riprova che il sentimento prevalente in Italia non è nazionalista, ma pacifista e non-interventista). Entrambi i partiti di massa però, in conflitto fra loro, sono impreparati a concepire una strategia e una tattica complesse, e il partito socialista, diviso al suo interno, è per di più bloccato da una storica incomprensione (denunciata da Salvemini) della questione meridionale, che gli impedisce di unificare il movimento operaio e contadino a livello nazionale.
Tessera di "sansepolcrista"
     Questo impasse rianima il tramortito fascismo, che pareva defunto sul nascere (Mussolini era finito perfino in carcere per qualche ora). Gli agrari armano direttamente lo squadrismo nelle regioni dove più forte è il bracciantato rosso, l’Emilia e la Puglia; nella terra di Di Vittorio (la regione del Sud che ha eletto più parlamentari socialisti) l’azione squadrista è assunta nel 1920 dall’agrario cerignolese Giuseppe Caradonna: Di Vittorio ne denuncerà le responsabilità per l’omicidio del primo deputato vittima dei fascisti, Giuseppe Di Vagno (ucciso a Mola di Bari nel 1921) e ne fronteggerà le milizie difendendo la Camera del Lavoro di Bari Vecchia (1922). La Puglia è stata una regione cruciale per il movimento operaio e di conseguenza per la reazione fascista. Bari sarà premiata dal duce vittorioso con l’istituzione dell’Università, della Fiera del Levante e con altre grandi opere pubbliche. Eppure, secondo il reportage che Tommaso Fiore invia nelle lettere a Piero Gobetti (poi diventate il suo libro più famoso, Un popolo di formiche), nel 1925 il fascismo pugliese è in fondo una variante in continuità con il trasformismo meridionale, e con i mazzieri della tradizione agraria di cui anche Giolitti – un altro “antimeridionalista”! – si è servito nei collegi elettorali del Sud. Il fascismo – afferma Fiore – è rimasto in superficie, cooptando la borghesia grande e piccola senza conquistare il mondo contadino. La rivoluzione meridionale sarebbe forse ancora pensabile, ma ormai il governo Mussolini, figlio delle complicità e debolezze di molti, si sta trasformando in una dittatura, in un regime durevole che prepara la guerra. Se la storia potesse insegnarci qualcosa, direbbe che i fascismi e le loro variabili storiche nascono dalla crisi della democrazia liberale, nonché dalla incapacità delle forze progressiste di guidare una coalizione sociale, e praticare l’unità.

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 marzo 2019

mercoledì 9 gennaio 2019

Rosa Luxemburg


Cent’anni senza la rossa Rosa.
Come sarebbe stata la rivoluzione in Occidente?

Sarà un’occasione speciale, per i manifestanti che ogni anno nella stessa data si riuniscono a Berlino presso il canale dove fu gettato il corpo di Rosa Luxemburg. Era la notte fra il 15 e il 16 gennaio 1919, e sono cent’anni da quando la quarantottenne dirigente comunista fu assassinata con il compagno di partito Karl Liebknecht dagli scherani dei Freikorps, corpi franchi ingaggiati per schiacciare la rivoluzione dei consigli operai in Germania. La notizia fece subito il giro del mondo, e non solo grazie alla stampa di sinistra: qui da noi il «Corriere delle Puglie» registrava il fatto, e il periodico «Humanitas» diretto dal repubblicano Piero Delfino Pesce commemorò la rivoluzionaria barbaramente uccisa. Rosa Luxemburg era stata un faro e un simbolo: «un’aquila» la definì Lenin, che pure ebbe con lei non pochi dissidi; una «grande guida spirituale del proletariato» secondo il filosofo György Lukács.
      Ebrea polacca, si trasferì in Germania acquisendone la cittadinanza: poté così militare nel più forte partito marxista del mondo, la socialdemocrazia tedesca. Cresciuto sulla spinta della classe operaia emergente e rafforzatosi in decenni di pace, il socialismo europeo sembrava fino al 1914 essere giunto sulla soglia del potere in molti paesi, Italia inclusa, e specie In Germania. Rosa Luxemburg diventò in breve una figura celebre, pensatrice, economista, formidabile oratrice – lei così piccola e fragile. Era l’esempio più noto di una novità imposta dal movimento operaio: la presenza significativa delle donne ad alti livelli (si pensi a Clara Zetkin, amica di Rosa, organizzatrice delle donne socialiste), convinte – a differenza delle loro sorelle suffragiste – che la liberazione della donna procedesse di pari passo con quella dell’intero proletariato. Ma lo scoppio del conflitto mondiale segnò un drammatico naufragio: i socialdemocratici tedeschi sostennero la guerra imitati dai socialisti degli altri paesi belligeranti (eccettuate Italia e Russia), convertiti al nazionalismo. 
     «La guerra mondiale – scrisse Rosa nel 1915 – ha annientato i risultati di quarant'anni di lavoro del socialismo europeo». Merito indiscutibile di Rosa Luxemburg fu l’aver condotto una lotta intransigente contro la guerra rilanciando in termini aggiornati la gloriosa (e dismessa) tradizione antimilitarista della socialdemocrazia. In generale, avversò sempre ogni nazionalismo compreso quello polacco di sentimenti antirussi, anzi invitò gli operai polacchi e russi alla fraterna solidarietà di classe. Pagò l’intransigenza con la prigione, dove trascorse quasi tutti gli anni della Grande Guerra. Nel contempo contribuiva alla nascita della Lega Spartaco (Spartakusbund), corrente interna alla socialdemocrazia, poi – dopo l’espulsione dal partito nel 1917 – organismo autonomo; ne fu la testa pensante, con Karl Liebknecht, il solo deputato che avesse votato contro i crediti di guerra, popolarissimo fra operai e soldati. Intanto in Russia, nel ’17, è in atto la rivoluzione. Scarcerata alla fine del conflitto, Rosa trova un Paese travolto dal crollo di un’intera classe dirigente, la quale si appoggia ora proprio alla vecchia socialdemocrazia per sopravvivere mentre la rivoluzione scuote anche la Germania. Nascono consigli operai pure a Vienna, repubbliche sovietiche verranno costituite in Baviera e Ungheria, e in Italia il Biennio Rosso culminerà nell’occupazione delle fabbriche: tutta l’Europa sembra voler “fare come in Russia”, inverando la rivoluzione internazionale in cui sperano gli stessi bolscevichi a Mosca.
Memoriale per Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht,
di Ludwig Mies van  den Rohe
(Berlino 1926, demolito dai nazisti nel 1935)
     A dicembre del ’18 gli spartachisti fondano il partito comunista tedesco. Rosa è con loro. Ha sempre combattuto l’illusione che il socialismo possa arrivare per lenta evoluzione; ma nessuno più di lei – prima di Gramsci – si è reso conto della enorme complessità di un processo rivoluzionario in Occidente, rispetto alla dinamica più elementare della Russia zarista. Pur elogiando altamente la rivoluzione russa, ne critica la soppressione della libertà. Non Voltaire, ma Rosa Luxemburg ha detto, nel ‘17: «La libertà è sempre e soltanto libertà di chi pensa diversamente». I comunisti tedeschi non governeranno, scrive nel ‘18, «se non per la chiara, espressa volontà della grande maggioranza delle masse proletarie tedesche e con la loro adesione cosciente». E preconizza un itinerario di «amare esperienze, attraverso vittorie e sconfitte». La tragedia della rivoluzione tedesca fu di aver avuto contro proprio la socialdemocrazia: un ministro socialdemocratico, Noske, armò la mano dei Freikorps. Rosa proponeva ai comunisti di partecipare alle elezioni della assemblea costituente, di non accettare la sfida dello scontro armato in quel momento; i suoi compagni non la ascoltarono, ma lei non li abbandonò. Fu sequestrata con Karl, e trucidata. 
     La sua memoria fu sempre onorata dalle sinistre, appannata solo nell’Urss staliniana. In Italia fu tra le icone del ’68 prima maniera, eretico e “consiliare”, ed ebbe successo l’antologia di suoi scritti a cura di Lelio Basso pubblicata da Editori Riuniti nel 1967, riproposta nel 2018 con una nuova illuminante introduzione di Guido Liguori. Margarethe Von Trotta realizzò un bel film biografico con Barbara Sukowa nella parte di Rosa (1986). Oggi la “rossa Rosa” conserva il fascino della alternativa che non poté esprimersi: che cosa sarebbe stata l’Europa se la rivoluzione avesse trionfato in Germania, se la sconfitta delle rivoluzioni non avesse lasciato aperta la via all’incubo nazifascista? Come ciò avrebbe cambiato l’esperienza della Russia sovietica? Il monito di Rosa Luxemburg, «socialismo o barbarie», ci sembra più che mai attuale. In una metafora marxiana a lei cara, la talpa scava sotterra ed emerge inaspettata; è la rivoluzione che si dichiara – sono le ultime parole scritte da Rosa, il 14 gennaio – : «Io ero, io sono, io sarò!».     

Pasquale Martino
La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 gennaio 2019